Anime. Intrattenimento, messaggio, concettualità
[Ricerca realizzata per l’esame del Corso di Teoria e tecnica delle comunicazioni di massa
(prof. Pier Luigi Capucci), DAMS, Università di Bologna, A.A. 2006/2007
Programma del corso (pdf, 92 Kb)]
Introduzione. Dietro a un disegno
Dietro a un disegno… Quando si parla di animazione giapponese il primo pensiero che giunge alla mente è storie di robot che attaccano la Terra (per la precisione il Giappone) senza un ben precisato motivo. Questo pensiero non è che superficiale ed erroneo.
E’ vero che l’animazione giapponese, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, ha risentito fortemente della presenza dei robot (meglio conosciuti come mecha): Mazinga, Daitarn III, Goldrake, Vultus V e si potrebbe continuare per molto ancora. Questi tipi di anime (termine tecnico per definire le animazioni giapponesi) rispondono allo stereotipo sopradetto, su quello alcun dubbio, influenzati dall’enorme progresso tecnologico a cui assisteva il paese in quegli anni, in cui l’animazione aveva un ruolo prevalentemente intrattenitore.
Anche altri tipi di anime hanno calcato le nostre televisioni: da quelli dedicati allo sport, da Holly e Benji a Mila e Shiro, a quelli dedicati ad un pubblico prettamente infantile femminile (comunemente definiti shoojo), come per esempio Lady Oscar oppure Heidi. In Italia la maggior parte degli anime comparsi in televisione riguardava soprattutto questo ultimo modello.
Le modalità con cui il nostro paese è venuto a contatto con questo medium particolare sono state però confuse: influenzati da un approccio tipicamente occidentale (per non dire disneyano), le istituzioni hanno accolto l’anime come prodotto prettamente infantile. Mentre in Giappone ogni tipologia di anime aveva una fascia oraria particolare per essere trasmessa (ai bambini era dedicata la fascia oraria del primo pomeriggio, ai ragazzi delle superiori del tardo pomeriggio, e casi come Ken Il Guerriero venivano addirittura trasmessi in tarda serata), nel nostro paese è stato tutto agglomerato e reso fruibile per un pubblico di piccolissimi, storpiando e cambiando il senso a molti anime creati e indirizzati ad un pubblico diverso (un nome tra tanti: E’ quasi magia Jhonny, indirizzato ai ragazzi adolescenti con riferimenti anche all’ambito sessuale, è stato deturpato dalla censura per adattarlo a bambini delle elementari).
Negli ultimi anni poi (specialmente dalla seconda metà degli anni 90) il corpo anime nipponico si rafforza di un ulteriore e grandissimo bagaglio morale: da modello prevalentemente d’intrattenimento (che comunque seguiva linee assai differenti dai modelli d’animazione prettamente occidentali) diviene anche modello per la veicolazione di valori morali ed idee, luogo di mediazione tra divertimento e filosofia, ove gli adolescenti potevano non solo divertirsi, ma riscontrarsi, ritrovare se stessi, i propri problemi, le proprie sofferenze e forse riscoprire le proprie gioie.
L’anime dilaga in Giappone, al punto di creare un vero e proprio culto: gli otaku, fan sfegatati di anime e manga, arrivano addirittura ad imitare gli eroi che vengono rappresentati. Essi però “incarnano” e fanno loro solo un certo lato dell’animazione, limitandosi a cogliere quello che è in superficie, il puro lato di intrattenimento, senza riuscire a penetrarne i veri contenuti.. Essi sono stati il primo scoglio con il quale gli animatori contemporanei dovettero scontrarsi: un caso esempio è Neon Genesis Evangelion, per il quale fu addirittura sviluppato un finale alternativo, poiché il primo, di natura prettamente concettuale, aveva causato sdegno in un pubblico troppo affezionato all’ambientazione da esso creato.
Un medium quindi complesso, articolato, interpretabile su plurimi piani, ben lontano, in fondo, da quella concezione prettamente infantile e superficiale alla quale si può pensare.
Nel titolo spiccano tre questioni: intrattenimento, messaggio, concettualità.
L’intrattenimento è riferito alla natura prima di questa tecnica, intrattenimento che è sinonimo di svago e ricreazione, entrambi largamente fruibili tramite l’animazione. Il messaggio è riferito all’anime come medium, alle sue peculiarità, al suo particolare modo di veicolarne i contenuti. La concettualità è riferita alla morale che inizia a dare corpo alla narrazione che l’animazione costruisce, valori che richiamano la storia giapponese, le origini, gli ideali, ma che anche aiutano i giovani a trovare un’identità, un motivo, un senso.
Queste tre componenti, unite assieme, danno corpo a quello che è l’anime, ovvero mezzo estremamente originale ed efficace per andare a toccare quello che è il cuore dello spettatore, nello specifico un giovane adolescente, divertendolo, coinvolgendolo nella storia, annidando in essa una sorta di insegnamento, trasmesso con la frivolezza del gioco, ma non per questo privato della sua importanza e della sua serietà.
In questo brevissimo trattato si organizzerà un percorso, partendo dalla tradizione culturale giapponese, ponendo in esame la scelta dell’animazione come modello di medium, confrontando i tratti principali dell’animazione giapponese e dell’animazione occidentale, per poi giungere all’illustrazione della concezione dell’animazione giapponese, il tutto portando ad esempio alcune opere; inoltre si valuterà l’efficacia dell’animazione come medium di massa. Infine una piccola appendice dove si testerà sul campo l’organizzazione degli anime, riportando le schede di alcune opere definite pietre miliari nella storia dell’animazione giapponese.
Quello che interessa è individuare alcuni tratti marcanti di questo mezzo di narrazione e di comunicazione, fare emergere alcuni spunti tematici e problematici che da esso sono veicolati, anche forzando a tratti le stesse possibilità interpretative.
La cultura non è mai il fine dell’educazione o nemmeno il suo inizio: piuttosto è un mezzo, uno dei tanti che l’educazione stessa ha a disposizione per rendersi davvero utile, completa, efficace.
Parlando di contenuti, di messaggi e di pensieri bisogna riconoscere che le componenti del cartone animato investono un pubblico prevalentemente di giovani (ma non solo): possono quindi rivestire un ruolo non banale nel loro percorso educativo.
Il problema che qui ci si intende porre è dunque quello relativo alla possibilità di riconoscere, accanto all’immaginario e alla fascinazione prodotti dai disegni animati giapponesi, la presenza di valori e linguaggi specifici, ovvero un pensiero in senso proprio.
E questo pensiero, secondo schemi e modelli ad esso assolutamente congeniali, mette in scena forme, colori, intrecci che possiedono una paradossale virtù: ci fanno astrarre dal mondo per trovargli un senso.
Un mondo per capire il mondo.
Elementi di cultura giapponese
1– Shintoismo e Buddismo
Per la mente occidentale può suonare strana l’inserzione di atteggiamenti dello shintoismo con quelli del buddismo o del cristianesimo, in un sostrato culturale che risente dell’influenza confuciana. Questo perché ogni culto aveva determinate funzioni (lo shintoismo era più il culto della vita, il buddismo più quello della morte, ecc). I due culti che più appartengono alla sfera giapponese si potrebbero dire lo Shintoismo e il Buddismo.
Lo Shintoismo è la religione autoctona giapponese. Gli abitanti del Giappone, prima dell’influenza degli altri culti, possedevano forme di culto e una sensibilità improntate ad una visione spontanea ed animistica della natura. Shinto (shin che può essere anche kami = divinità, to che può leggersi anche do = via) indica la “via degli dei”, il modo di condotta che si armonizza con gli spiriti della natura. E proprio la natura, nella sua spontaneità e purezza, è luogo privilegiato di accoglienza per delle divinità.
Nello Shintoismo ci si riferisce alle divinità indicando tutti gli spiriti oggetto di venerazione: esseri viventi, montagne, fiumi, ogni cosa che dimostra un potere particolare o induce soggezione o rispetto.
A questi si aggiungono gli spiriti dei defunti, soprattutto quelli illustri. Da questo quindi lo Shintoismo è anche devozione verso gli antenati e di conseguenza alle tradizioni di cui essi sono depositari.
In generale questi “spiriti divini” non sono considerati come entità trascendenti, esistenti nell’assoluto: essi appartengono piuttosto alla terra, all’acqua, all’aria, muovendosi all’interno del nostro stesso mondo e compartecipando al perpetuo svolgimento e rinnovamento dei cicli della natura.
Non stupisce che molti aneddoti o addirittura i temi che forniscono gli intrecci degli anime si rifacciano quindi a questi temi.
Mononoke Hime (Princess Mononoke) di Hayao Miyazaki ne è un chiarissimo esempio: narra di Ashitaka, principe del popolo Emishi, che combattendo contro un demone cinghiale intenzionato a distruggere il suo villaggio, viene colpito dalla sua maledizione. Costretto a separarsi dalla sua terra per non farvi più ritorno, Ashitaka intraprende un lungo viaggio per scoprire le cause della venuta del demone cinghiale e della sua maledizione con occhi non velati dall’odio. Nel suo viaggio si imbatterà in un monaco viandante, Chigo, che gli darà indicazioni per giungere alla foresta dove risiede il Dio Cervo, foresta di demoni e dèi. Nel proseguo del suo viaggio si imbatterà in due uomini, salvando loro la vita. Ashitaka li ricondurrà alla loro città, la Città del Ferro, che sorge nei pressi della Foresta del Dio Cervo, dove incontrerà Padrona Eboshi. Quest’ultima è intenzionata a sradicare la Foresta per poter espandere la Città e l’estrazione del ferro, ma così facendo attira su di se l’ira degli spiriti della natura e, insieme alla loro, di Mononoke, una ragazza che ha rinnegato le sue origini umane per abbracciare gli spiriti della natura. Qui Ashitaka, innamoratosi di Mononoke, sarà colto in questo conflitto, stretto tra due fuochi.
Qui è l’epoca iniziale dell’affrancamento dell’uomo dalla natura, della realizzazione della prima tecnologia che dà all’uomo la possibilità di affermarsi sull’ambiente in cui si muove. E’ la vicenda di uno scontro tra città e foresta, del difficoltoso rapporto tra uomo e ambiente, tra artificio e natura. L’ottimismo di Miyazaki propende più verso la sopravvivenza del bosco, ma non per questo è auspicabile un ritorno alle origini. Qui l’unica soluzione è incarnata da Ashitaka: il raggiungimento di un equilibrio, la consapevolezza e la maturità dell’uomo che conosce il progresso e lo sa impiegare ma al contempo sa amare e rispettare la natura. Equilibrio però difficile da raggiungere, perché al contempo Padrona Eboshi arriva a non fidarsi di Ashitaka (Ashitaka: “Padrona Eboshi, il principe Hasano sta attaccando la città. Donne e lebbrosi difendono le mura. Abbandona la caccia al Dio Cervo e torna a difendere il villaggio”, Padrona Eboshi: “Puoi provare ciò che stai dicendo?”, Ashitaka: “Perché mai dovrei mentirti?”) così come Mononoke (Mononoke ad Ashitaka: “Perché stai aiutando quella donna? Lei è la causa di tutto questo […] stai lontano da me, va via!”).
In Mononoke Hime vengono anche affrontati altri temi cari all’animazione giapponese (la lotta contro l’oppressore, la ricerca spirituale, la maturazione interiore, il confronto con il diverso, il trascorrere del tempo, la morte).
Ma il fine ultimo dell’opera rimanda allo Shintoismo: la sfida dell’uomo, consapevole dei vantaggi e dei rischi del progresso, è quella di saper armonizzare le nuove esigenze e i nuovi artifici con il mondo che ha ereditato, per custodirlo nella sua bellezza. L’egoismo non porta a nulla ma anzi pone una barriera invalicabile tra le concezioni opposte che paradossalmente coinvolgono poi, identiche, nell’odio (Ashitaka mentre ferma il combattimento tra Padrona Eboshi e Mononoke: “E’ lo stesso terribile demone a guidare sia tu che lei: è Odio! […] Non lasciate che l’odio condanni anche voi!”).
L’eccezionalità dello Shintoismo consiste nella sua estrema duttilità a mescolare insieme elementi fantastici appartenenti a una realtà soprasensibile (kami (dei), oni (demoni), luoghi mitici come la Foresta del Dio Cervo, ecc) con caratteri e situazioni quotidiane: questo mix è materia prima nel mondo degli anime, peculiarità che li rende avvincenti ed attraenti per i giovani spettatori: per i giovani giapponesi che respirano “aria di casa loro” e imparano a riscoprire le tradizioni, ma anche per i giovani occidentali, che vengono a contatto con tradizioni nuove, a loro sconosciute, realtà mai incontrate.
A giocare un ruolo spesso di primo piano negli anime, soprattutto di ambientazione feudale, è pure il Buddismo.
L’intervento della spiritualità e delle pratiche buddiste è spesso connesso ad eventi legati al misticismo, alla morte, a storie legate alle gesta di samurai. La sensibilità religiosa nipponica è riuscita a far compenetrare le esigenze di celebrare la vita (Shintoismo) con le problematiche legate all’impermanenza, alla sofferenza, al trapasso, affrontate con gli insegnamenti buddisti (la figura dello yamabushi, monaco guerriero, è spesso ricorrente non solo negli anime ma anche nella storia).
In particolare il buddismo zen è diventato il culto buddista più conosciuto, grazie alla sua affinità con esigenze e sensibilità dei guerrieri giapponesi. Non solo: il suo rifiuto per un uso definitorio, esagerato e risolutivo delle funzioni razionali della mente hanno fatto si che la sensibilità nipponica, molto pragmatica, vi si sia trovata a suo agio, preferendo un approccio diretto e non speculativo ai problemi della vita, del dolore e della morte così come vengono affrontati dallo zen.
In ogni caso resta il contatto tra buddismo e arti marziali, tra zen e bushido, il fattore più evidente che porta sulle scene degli anime tradizioni, aneddoti, situazioni relative a questa spiritualità.
2 – Il Bushido
Letteralmente il termine bushido designa la via (do) del bushi, ovvero del nobile guerriero (bu = marziale, relativo alla guerra, shi = suffisso per intendere chi pratica, praticante). In occidente il termine bushi, ben più corretto ed usato in Giappone, è stato più impropriamente conosciuto come samurai, che nel reale è un particolare tipo di bushi (samurai, ronin, ecc).
Lo sviluppo del bushido avviene dopo gli inizi del Periodo Edo (1603-1868), periodo di relativa pace e tranquillità trascorso interamente sotto lo shogunato dei Tokugawa. In questo periodo pacifico il bushi sembra che abbia avviato una consapevole riflessione su di sé, sul suo ruolo, sulle sue motivazioni e sul senso del suo agire. Durante il periodo antecedente, l’era Sengoku, 200 anni dilaniati dalle continue guerre tra i casati per contendersi lo shogunato, gli sforzi dei bushi erano diretti in un chiaro verso pratico, ma eliminate le necessità della guerra si è verificato l’avvicinamento di tradizione marziale e zen. Dall’idea del bujutsu (“arte della guerra”, abilità nelle tecniche marziali) si è andata sviluppando quella più generale, ampia, spirituale, del budo, la via marziale: le tecniche hanno assunto un valore meno pratico e più spirituale, cresce quindi l’importanza dell’allenamento concepito come perfezionamento etico e morale. Il bushido è connotato dalla presenza e dalla parte attiva che svolgono, nelle volontà e nelle azioni del bushi, qualità morali come la rettitudine, la giustizia, la lealtà, l’onore, il senso del dovere, la benevolenza, l’automiglioramento, l’autodisciplina, la compassione e il coraggio: riuscendo a dimostrare tutte queste qualità nella conoscenza del tempo giusto per vivere e per morire.
Il bushi ha intrapreso la Via non per eccellere sugli altri, ma su se stesso: il maestro dell’arte ha compreso che l’avversario più tenace si annida al proprio interno, e l’addestramento vero al combattimento è quello che porta a muovere guerra e a sradicare le debolezze, le mancanze, i rancori e la violenza presenti all’interno di sé.
Le storie degli anime tendono ad unire le due dimensioni, il jutsu e il do per fornire gli elementi necessari alla spettacolarizzazione dei duelli e al contempo poter segnare il progresso morale del protagonista.
Il bushido in quanto via del perseguimento della saggezza non informa del resto solo la pratica marziale, esso è ormai parte integrante dello spirito giapponese, e al giorno d’oggi si ritiene che il portato storico e morale proprio della ristretta classe dei bushi si sia esteso a tutta quanta la popolazione giapponese che ne ha ereditato i valori e i modi di comportamento. Questa generalizzazione però non è totalmente esatta: il bushido sopra accennato è oramai un bushido ideale, contagiato da una sorta di american way of life, che dà forma a un giapponese retto e che persegue i suoi scopi invece dell’onore (a volte fino all’eccesso). Questo sarebbe un ottimo plauso per poter comprendere la straordinaria efficienza del Giappone moderno, investito dall’evoluzione tecnologica e fattosene ottimo portatore.
Anche quello che viene presentato negli anime, in fondo, è un bushido ideale: benché sia depurato di molti suoi tratti caratteristici per motivi narratologici o pedagogici è pur vero che certi elementi morali restano sempre e comunque una componente viva e sentita.
Infatti bisogna riconoscere che in numerose storie anime si nota uno sfondo culturale facente riferimento alla realtà del bushido (le vicende ambientate in epoca feudale oppure che presentano scontri, conflitti o episodi di sacrificio), così come è da notare che in altre tipologie di racconti (episodi di vita quotidiana, shoonen e shoojo) non siano infrequenti i richiami a questa stessa dimensione del budo, ovviamente riadattati in chiave moderna.
“Che senso ha vincere se si perde la vita? Quale ideale può spingere a tanto? Quale ideale?” domanda Capricorn, cavaliere d’oro del Grande Tempio. Secca è la risposta di Sirio, cavaliere del Dragone “Lo sai, sono un cavaliere di Atena… Dea della Giustizia!”
I Cavalieri dello Zodiaco (Saint Seiya) offrono un ottimo esempio. Da questo anime traspare evidente l’etica del bushido: i cinque cavalieri di bronzo (Pegasus, Crystal il Cigno, Sirio il Dragone, Andromeda e Phoenix) sono legati da uno stretto vincolo di amicizia, uniti per di più dallo stesso ideale che perseguono, incarnato in Lady Isabel/Athena: la giustizia. Come già detto, i crismi del bushido vengono reinterpretati in chiave moderna e adattati alle ambientazioni che di volta in volta vengono elaborate, ma nonostante questo resta sempre presente. Infatti lo spirito di sacrificio pervade sempre questa serie: sia negli episodi della scalata al Grande Tempio, sia nel viaggio verso Asgard e perfino giù, nelle profondità del mare, per andare a scovare Nettuno, i Cavalieri sono sempre costretti ad affrontare nemici di gran lunga più potenti di loro, rischiando sempre la vita ma senza mai fermarsi, senza mai fuggire, poiché abbandonare i loro ideali sarebbe peggio che morire, sarebbe perdere il proprio significato, il proprio onore, ciò che li rende uomini, sottomessi al peso delle loro più infime debolezze al solo fine del proprio egoismo.
E’ dunque questa la risposta di Crystal il Cigno a fronte della proposta di pietà di Scorpio, cavaliere d’oro del Grande Tempio: “Come potrei essere in pace con me stesso se abbandonassi ora gli amici che hanno saputo combattere per salvarmi, amici con cui ho condiviso timori e che ormai considero alla stregua di fratelli?! Li lascerei a se stessi per il solo scopo di avere salva la vita? No, Scorpio, non lo farò! Sopravvivere a questo prezzo non mi interessa, a chi interesserebbe? L’amicizia che lega è un vincolo che non si disonora! La storia dei cavalieri di Atena al Grande Tempio narra di episodi di altruismo e di spirito di sacrificio senza precedenti, narra di gesta di generosa amicizia e nobiltà d’animo; mai lealtà e audacia avevano albergato al Grande Tempio come in questi giorni! E io dovrei abbandonare tutto questo per sopravvivere?”
3– Giappone contemporaneo e crisi economica: i giovani non sognano più1
C’è un termine ormai diffuso in Giappone per indicare i giovani: «nuova razza umana». Un termine che non si applica automaticamente a tutta la variegata realtà giovanile del Paese del Sol Levante, ma che esprime tutta l’inquietudine del mondo degli adulti verso un mondo inquieto e imperscrutabile. Una classe mutante in costante adattamento a una realtà che ha perso le proprie radici ma fatica a ritrovarne di nuove e di salde.
Oggi, per troppe famiglie, il mito di un’economia vincente rincorso per mezzo secolo si sta rivelando un’illusione. Questo ha creato frustrazione e delusione, ma anche nuove domande sul senso della vita. L’urgenza del benessere materiale, incentivato dal mondo produttivo e dalla pubblicità come unico valore, la priorità assoluta data all’economia, stanno riducendo l’homo nipponicus, ricco di valori, per quanto specifici, a un generico homo oeconomicus, a un apparato produttivo e, soprattutto, a oggetto e soggetto di consumo. Il Giappone continua a oliare il suo immenso apparato produttivo e di vendita come se la crisi non fosse un dato di fatto per molti, come se il divario tra ricchi e poveri non corresse il serio rischio di aggravarsi e la società nel suo complesso non fosse percorsa da forti inquietudini. Indicativo, a questo riguardo, la tendenza dei giovani a tralasciare le possibilità di carriera e la sicurezza economica offerte da occupazioni a tempo pieno, a favore di meno impegnativi lavori part-time o freelance. Questo potrebbe portare molti che non dispongono di adeguate capacità o preparazione a subirne le conseguenze economiche in età adulta.
Alla radice di questa situazione sociale stanno diverse cause, alcune confrontabili con quelle di tanti Paesi del mondo sviluppato, Italia inclusa, altri più specifici: secolarizzazione, imitazione acritica del modello occidentale nella versione americana, che ha propiziato una perdita dell’identità profonda e un disagio che spingono ancor più verso l’imitazione acritica di modelli esterni e l’accettazione quasi fideistica della tecnologia, mancanza di educazione religiosa a scuola e nella famiglia, eccessiva importanza attribuita al fattore economico, altissima urbanizzazione, crescente influenza della realtà virtuale nella vita quotidiana.
Allontanata in un passato nemmeno tanto lontano la sua povertà contadina, esorcizzato l’incubo atomico a sessant’anni da Hiroshima e Nagasaki, superati diffidenza e senso d’inferiorità verso un mondo occidentale forse fin troppo idealizzato e insieme tenuto a bada dalla forza delle statistiche produttive e delle esportazioni, il Giappone scopre ora un pericolo assai difficile da combattere in coloro che maggiormente anticipano il suo incerto futuro ed esprimono l’inquietudine del suo presente: i giovani.
Non è un problema di gap generazionale. Non ci sono certezze adulte da contrapporre a idealismo e mutevolezza adolescenziali. Dalla metà degli anni Novanta del ventesimo secolo, il Paese sta vivendo una transizione che ha infilato nell’incertezza l’intera popolazione adulta e nella disperazione decine di migliaia di cittadini senza più una prospettiva esistenziale. È in questa situazione che fioriscono le varie marginalità e si alimentano in modo autoreferenziale le molte devianze di questo paese.
I suoi giovani le anticipano, le vivono e le esasperano. Bosozoku, hijime, hikikomori… «bande violente», «bullismo», «ritiro dal mondo», sono termini specifici che l’Occidente ha spesso recepito attraverso i manga, i fumetti, ma che in Giappone sono parte integrante della realtà giovanile. Quello delle bande è un fenomeno che risale agli anni Sessanta, su imitazione americana, ma che ha infinite varianti e una sua peculiare evoluzione. Dai gruppi legati ai vari aidoru, le star della musica o del cinema, a quelli che confinano con la criminalità organizzata, rappresentano un fenomeno di costume che, proprio per il conformismo sociale tipico della cultura giapponese, coinvolge una sostanziosa parte dell’universo giovanile, fornendo senso di appartenenza e motivazioni. Il bullismo, che ha per oggetto chi viene considerato in qualche modo deviante, per aspetto fisico o per non conformità, con l’ideale del gruppo, diventa spesso violento, con episodi di efferatezza e crudeltà abbondantemente indagati dai media, anche con un intento repressivo, verso un fenomeno che non di rado si riversa nelle aree scolastiche.
I suicidi nella fascia di età tra i 15 e i 34 anni, un record mondiale per il Giappone da molti anni, oggi sono anche di gruppo, magari concordati via internet. Un’incertezza, un male di vivere, spesso una richiesta inespressa di aiuto o comprensione che si trasmette fino all’atto finale dell’esistenza.
Fenomeno più recente ma in costante crescita, gli hikikomori sono il frutto di una società del benessere, quella in cui i giovani possono disporre di propri appartamenti, per quanto minuscoli, e di una quantità di tecnologie anche sofisticate e costose. Come sottolinea lo scrittore Murakami Ryu, icona della realtà e della trasgressione giovanile: «La società giapponese è vittima di un paradosso. È preoccupata del crescente numero di giovani che si isolano dal mondo, ma allo stesso tempo applaude a oggetti come la PlayStation, che è oggi anche terminale internet e lettore Dvd. Una tecnologia di questo genere rende possibile produrre grafica e filmati, come pure condurre transazioni commerciali, senza nemmeno uscire di casa. Questo fissa le persone in propri spazi individuali. Nella società informatica ciascuno di noi è in qualche misura un ritirato sociale». Gli hikikomori, oggi forse un milione di cui il 70-80% maschi, dormono per la maggior parte del giorno e vivono di notte. Una vita virtuale: guardano la televisione, usano internet, escono per fare acquisti nei negozi aperti 24 ore su 24 che si trovano sotto casa per acquistare cibo pronto da inserire nel forno a microonde e quel poco necessario a una persona che vuole vivere in un mondo a parte.
Animazione
1 – Animazione: pregi e difetti del medium
Analizziamo la scelta dell’animazione come medium. Secondo la definizione di McLuhan l’animazione si potrebbe catalogare come un medium essenzialmente freddo: da un punto di vista visivo, ad esempio, una fotografia è un fattore di alta definizione, un’animazione invece comporta una bassa definizione in quanto contiene una limitata quantità di informazioni visive. Poniamo in contrapposizione cinema e animazione: il cinema è sicuramente un medium caldo, in quanto tende a saturare i sensi del fruitore, lo trasporta nella diegesi e le informazioni che trasmette sono autoconclusive, non lasciando nel fruitore il bisogno di doverle completare. L’animazione in questo senso è fredda: essa, partendo dal presupposto che è irreale per sua natura, è un insieme di disegni, lascia lo spettatore in qualche modo estraneo al medium. In questo senso il fruitore è obbligato a partecipare per colmare le “lacune” lasciate dal medium e quindi, da questo punto di vista, ha una compartecipazione attiva alle informazioni da esso veicolate.
Già da questo si può capire la rilevanza dell’animazione nella trasmissione di un concetto: il fruitore non subisce passivamente le informazioni, ma anzi anch’esso è chiamato a costruirle, a ridefinirle, alimentandone l’attenzione in tal senso, arrivando perfino a creare, volendo, una sorta di complicità, di consenso involontario.
In secondo luogo l’animazione ci solleva appunto dal problema della referenzialità: questa sua peculiarità, che ad una prima impressione può sembrare un lato negativo, svela invece le potenzialità intrinseche dell’animazione stessa.
Essendo liberi e slegati dal pensiero, dall’ossessione della referenzialità, abbandonato il pensiero del “potrebbe essere vero”, l’animazione porta alla luce i suoi principi di funzionamento, ovvero modalità narrative, drammaturgia, montaggio, ecc. In questo senso viene svelato più il lato “concettuale” del mezzo, il “software”, il principio di funzionamento che si cela dietro e dentro al medium.
Essendo liberi dalla referenzialità, ogni inquadratura può assumere un preciso perché, ogni sequenza narrativa, ogni montaggio. Non che questo venga meno nel cinema, per esempio: ma a differenza del cinema non vi sono scene “gratuite”, ogni scena, ogni fotogramma è pensato, disegnato e trasposto su schermo.
A tal fine ogni rapporto col vero è perso e anzi ogni rapporto col vero può quindi assumere un significato perfettamente diverso: le dimensioni degli oggetti, il rapporto delle proporzioni, ecc, tutti questi fattori, slegati dal rapporto con il reale, possono quindi avvalersi di innumerevoli valori concettuali.
Nell’animazione inoltre non vi è il problema della diegesi: lo spettatore non può essere inglobato nella narrazione divenendo “personaggio invisibile interno alla storia”, poiché l’animazione stessa ci ricorda che siamo davanti ad un gioco di finzione: è proprio anche in questo che allora la concettualità prende ancor più valore.
Sicuramente una stessa narrazione, presa separatamente prima sviluppata con tecniche d’animazione e poi con cinepresa normale, darebbe effetti totalmente diversi.
2 – Animazione come messaggio
Nell’animazione sicuramente l’affermazione “il medium è il messaggio” di McLuhan trova assoluta veridicità.
Marcello Ghilardi cita in Cuore e acciaio un passo di Daniele Barbieri tratto da I linguaggi del fumetto: “i linguaggi non sono solamente strumenti attraverso cui comunichiamo quello che intendiamo comunicare: sono, anche e soprattutto, ambienti in cui viviamo e che in buona parte determinano quello che vogliamo, oltre a quello che possiamo comunicare. La seconda idea è che questi ambienti che sono i linguaggi non costituiscono dei mondi separati, ma rappresentano piuttosto aspetti diversi dell’ambiente globale della comunicazione”2. Ghilardi riprende poi il discorso affermando che “considerare un linguaggio come un ambiente piuttosto che un semplice strumento implica che non si può più intendere il linguaggio stesso come un elemento neutro – (McLuhan insegna) -. Essendo il cartone animato un tipo particolare di linguaggio, considerarlo ambiente significa che esso va abitato, considerato per i suoi pregi e difetti.”3
Nel caso specifico dell’animazione, come già detto la referenzialità non conta più: a tal fine vengono esaltate le componenti narrative, le componenti concettuali, il software insomma. Per tale motivo l’animazione è già predisposta per poter veicolare informazioni di un certo tipo e in un certo modo. Le stesse componenti “concettuali“ non potrebbero essere sviluppate in tale maniera in ambito cinematografico o comunque con l’utilizzo di qualsiasi altro medium, poiché l’animazione ha in sé già parte della concettualità che vogliamo andare ad enunciare, la valorizza e la massimizza.
Questi sono i tratti dell’ambiente in cui ci si muove e con cui si deve necessariamente concordare per i concetti che si vorranno veicolare.
3 – Diversi modi di interpretare l’animazione
In Occidente l’animazione viene quasi sempre associata ad un ambito infantile. Questo è perché la Disney ha condizionato pesantemente il pensiero occidentale. Questo non è un male, è solo un diverso modo di concepire l’animazione. Quello che è male è che, a causa di questo diverso modo, sembra essersi persa la possibilità di utilizzare l’animazione come grande mezzo per veicolare concetti, come già detto, poiché appunto pensato solo per un ambito infantile.
Ma perché la Disney ha associato l’animazione ad un ambito prevalentemente infantile?
Questo discorso probabilmente si annida non solo in una diversa concezione del medium dell’animazione ma probabilmente risiede anche all’interno della cultura occidentale, così diversa dalla cultura orientale (ma su questo non ci dilungheremo).
Torniamo al concetto di annullamento della referenzialità intrinseco nell’animazione: liberare lo spettatore dal pensiero del “potrebbe essere vero” può rilanciare sì la componente concettuale, sia creare una sorta di cuscino, accogliendo lo spettatore e intrattenendolo senza impensierirlo, senza tormentarlo con il pensiero del reale, prendendolo per mano e portarndolo in un mondo evidentemente di finzione, luogo rifugio dalla realtà, dal vero.
Questo discorso non può dunque essere perfetto per i bambini? Luogo di fiabe e divertimento, dove creare mondi che appartengono solo all’immaginario e dove appunto nell’immaginario si muovono. In questi luoghi dall’evidente fantasia i bambini spaziano, divertendosi senza la paura del reale.
Anche in questi luoghi la Disney ha sviluppato una sua “concettualità”, che però resta seconda alla narrazione, imperniata su di essa, racconti di fiabe e storie fantastiche che nascondono sì una morale, una morale che però resta assoluta e fanciullesca e che, sinceramente, bisognerebbe poi verificare se il pubblico a cui è diretto questo messaggio, quello appunto dei bambini, potrebbe comprendere o meno.
Tuttavia la Disney non creava le sue animazioni per soli fanciulli, assolutamente, anzi le sue opere sono ampiamente apprezzate anche da un ambito più adulto di fruitori, sono entrate a far parte dei Classici dell’animazione. Per evitare errori di anacronismo però bisognerebbe analizzare questi Classici in rapporto agli anni in cui sono stati creati, anni ben lontani dall’odierno contemporaneo, in cui i problemi sentiti allora erano leggermente differenti.
La Disney odierna ormai difficilmente tratta l’animazione tradizionale, è più dedita all’animazione 3D, che riguarda altri ambiti, ma ormai il luogo comune per cui l’animazione è materia per fanciulli è stato creato, e questo a causa delle intonazioni fiabesche che la Disney ha diffuso in occidente, intonazioni che ovviamente sono dirette ai fanciulli. Quali siano poi le cause (la grande depressione, la guerra, il dopoguerra, la ripresa economica, la censura dei tempi e le mode), ormai sono cause lontane, che probabilmente allora motivavano il contesto fabiesco della Disney.
In Giappone l’animazione fino agli anni Novanta venne trattata con canoni non troppo diversi: anche qui l’ambito dell’intrattenimento non era secondo all’ambito concettuale, ma anzi prevalente, tuttavia l’ambientazione in cui si muoveva la narrazione era ben differente e risentiva non solo della storia passata del Giappone ma anche degli ideali che permeavano la mentalità giapponese: onore, impegno, sacrificio (a parte ovviamente i casi limite che riguardavano il pubblico dei piccolissimi, come Pokemon e Dragonball, che hanno un ruolo puramente di intrattenimento).
Nelle serie sportive (esempio Holly e Benji) di solito il protagonista è costretto, insieme ai suoi compagni, a sottoporsi ad allenamenti durissimi per poter migliorare e vincere il campionato, e nelle serie robotiche il personaggio principale deve lottare contro un nemico, anche contro la sua stessa volontà (esempio: Astro Boy).
Per noi occidentali quest’etica del sacrificio e dell’eccessiva obbedienza è di difficile comprensione perché è legata a filo doppio alla cultura nipponica. Infatti, i bambini e gli adolescenti giapponesi, a cui di solito i due generi suddetti si riferiscono, sono fin dalla loro infanzia investiti di doveri e impegni: per esempio, in Giappone la vita scolastica del bambino di 7 anni può già pregiudicare la sua futura vita lavorativa. Il bambino deve dare il meglio di sé, deve portare questo fardello di doveri e deve lottare per ottenere ciò che vuole e per difendere la sua individualità in una società che lo vuole inglobare.
Nasce da qui lo spirito di competizione così radicato nel mondo giapponese, e quindi, di riflesso, presente negli anime. Inoltre i personaggi dei cartoni animati nipponici, oltre a lottare contro le proprie debolezze e paure, combattono contro un mondo di adulti che non li comprende: Heidi risponde sempre alla propria istitutrice, che la vorrebbe cambiare, le fa degli scherzetti, ma non le mostra mai le sue emozioni, perché, come ogni giapponese, interiorizza la propria infanzia e il dolore causato da una costante incomprensione da parte dell’adulto. Infatti quest’ultimo tende a considerare il bambino come un “piccolo adulto”, non riesce a penetrare il mondo di giochi e fantasie dell’infanzia e gli impone delle leggi a lui esterne e incomprensibili; il ragazzino giapponese è fin da piccolo costretto ad obbedire a delle eccessive regole scolastiche e a dedicare determinate ore della giornata a differenti doveri: è sommerso da responsabilità anche perché se non riuscirà in una determinata cosa, ne andrà della sua stessa vita sociale.
Da ciò si può subito intuire la differenza alla base della concezione dell’animazione tra occidente e oriente, o più precisamente tra animazione “disneyana” e animazione giapponese: mentre la prima prende per mano i fanciulli e li porta in mondi fantastici insegnando loro delle morali importanti, utopiche quasi, senza shockarli con il pensiero del reale, in Giappone l’animazione diventa forte mezzo per abituare i fanciulli, già da piccoli, a dare il meglio di sé in una società che pretende moltissimo.
L’anime “è intriso di suggestioni epiche. Tutto il contrario dell’insostenibile leggerezza del cartoon americano. Per gran parte dei personaggi giapponesi l’esito dell’impegno è questione di vita o di morte. Si lotta con il nemico, contro le proprie debolezze, contro le avversità della vita, ma ce la si deve fare perché grande è il fine da raggiungere: la costruzione di una propria identità contro l’omologazione richiesta dal mondo esterno”.
4 – Nuove tecnologie d’animazione: Cel-Shading e Animazione 2D-3D
L’animazione cel-shading è un tipo di rendering non fotorealistico progettato per far apparire delle animazioni in computer graphics 3D come se fossero disegnate “a mano” in 2D. Il cel-shading è usato spesso per imitare lo stile di un cartoon o di un fumetto. È un’aggiunta abbastanza recente alle tecnologie in computer graphics, più comunemente applicate nei videogames. Benché il risultato finale del cel-shading abbia un’apparenza molto semplicistica come quella della animazione disegnata a mano, il processo è complesso. Il nome viene dai fogli liberi d’acetato, denominati cels, che sono usati nell’animazione 2D tradizionale, come i classici della Disney.
Questo tipo di applicazione, che trasla il 3D in 2D, può rientrare all’interno del discorso fatto all’apertura sull’animazione, con l’eccezione di qualche leggero rimando alla sfera sensoriale reale (i vari gradi di ombreggiature che ricordano vagamente un 3D “appiattito” però in 2D…).
Il binomio tra animazione 2D e 3D sviluppa personaggi creati con animazione 2D che si muovono in gran parte in un ambiente creato in 3D. Questo particolare tipo di animazione sviluppa separatamente, quindi, i fondali dai personaggi.
Un tipo simile d’animazione lascia lo spettatore un poco disorientato: unendo le componenti “concettuali” della semplice animazione 2D e movendole in un ambiente che tende a rappresentare la verosimiglianza, si ha una sorta di straniamento che fatica a coinvolgere lo spettatore, da un lato fermo in una sorta di “diegesi” invitata dalla verosimiglianza del 3D e dall’altro a fronte dell’evidente finzione resa dai personaggi in 2D. Il risultato è che questo tipo di medium, mescolando caratteristiche di animazioni diverse tra loro, può risultare confuso, e uno spettatore disattento tende a rimanere estraneo.
In fondo, pur sempre trattandosi di una sorta di “avanguardia”, essa incappa in una sostanziale ed iniziale incomprensione. Probabilmente riuscendo a sviluppare in maniera adeguata i due lati del medium (2D e 3D) e a fare in modo che lo spettatore riesca ad “abituarsi” alla loro unione, sarebbe possibile sviluppare una concettualità basandosi su un messaggio che ha in sé componenti differenti (la propensione alla concettualità del 2D, il richiamo alla referenzialità del 3D), andando a formare un medium molto efficiente: un esempio, in Blue Submarine N°6, lo si può avere durante gli scontri tra i sottomarini, interamente sviluppati in 3D, che richiamando alla referenzialità possono immettere lo spettatore nella diegesi, mentre invece nella sequenza finale, nei dialogi tra Ayami e Zhondayck, prima, e Berg, dopo, dove l’elemento base in scena sono i personaggi, ci può abbandonare alla concettualità che esprime la scena senza essere distratti dalla referenzialità (come potrebbe accadere con attori veri, l’essere distratti dalla qualità della recitazione ad esempio).
[Immagini da Wikipedia e screenshot di Last Exile]
Animazione giapponese
1 – Cenni storici
In Giappone il primo dei senga eiga (linee disegnate), proiettato nel 1917, fu un cortometraggio, Imokawa Muzuko Genkanban no Maki (Il portinaio Imokawa Muzuko) di Hekoten Shimokawa. Nel 1932 Chikara to Onna no Yo no Naka (Quello che conta al mondo sono il potere e le donne) fu il primo cartone animato sonoro giapponese, e nel 1944 uscì Momotaro Umi no Shimpei (Momotaro il divino marinaio) di Mitsuyo Seo, il primo lungometraggio d’animazione in Giappone.
Lo sviluppo industriale dell’animazione nipponica cominciò nel 1958, data di uscita di Hakujaden (La leggenda del serpente bianco), diretto da Taiji Yabushita per la Toei, che fu la prima grande casa di produzione d’animazione, a cui in seguito si affiancarono le concorrenti Toho, Nihon Eiga, Kyodo e Otagi. In quel primo periodo si creavano dei lungometraggi di bassa qualità, a causa della fretta con cui venivano preparati, ma non mancarono tuttavia quelle poche eccezioni costituite da film d’animazione realizzati con estrema cura, come ad esempio Shaka no Shoga (Vita da Buddha) di Noburo Ofuji, Tenrankai no E (Quadri di un’esposizione) di Osamu Tezuka.
Il grande successo degli anime giapponesi è comunque legato alle serie televisive diffusesi all’inizio degli anni ’60 e infatti prese l’avvio con Tetsuwan Atom (Atom dal braccio di ferro), che comparve nel 1963 su Fuji Television. Questa serie di 210 episodi era in bianco e nero e veniva trasmessa una volta a settimana con puntate di 30 minuti ciascuna; prodotta dalla Mushi Production, si basava sull’omonimo manga di Osamu Tezuka e parlava di un piccolo robot che lottava per salvare l’umanità e sognava di diventare anch’egli umano. Nel 1965 Tezuka fece un altro “centro” creando il primo cartone animato nipponico a colori, Jungle Taitei (L’imperatore della giungla) e, nello stesso anno, la Toei mandò in onda Okami shonen Ken (Ken, il ragazzo lupo) di Sadao Tsukioka.
Gli anni ’70 videro la nascita degli “anime sportivi”, tra i quali vale la pena ricordare Akakichi no eleven (Arrivano i superboys)
Nel 1972 vennero mandati in onda alcuni dei più grandi successi: Mazinger Z (Mazinga Z, 1972-80) della Toei, Atlas U.F.O robot Grendizer (Goldrake, 1974-79), Alps no Shoojo Heidi (Heidi, 1974-78) e per il genere di fantascienza Uckyu Senkan Yamato (Corazzata Spaziale Yamato, 1974-80) e Ginga Tetsudo 999 (Galaxy Express 999, 1978-1981) di Leiji Matsumoto, Kidoo Senshi Gundam (Mobile Suit Gundam) sugli schermi giapponesi tra il 1979 e il 1980 della Sunrise.
Negli anni ’80 gli studios d’animazione in Giappone vissero una certa crisi sia creativa che qualitativa: i budget rimanevano gli stessi degli anni precedenti mentre il costo della vita aumentava, i salari erano bassi e si cercava di risparmiare sui materiali; il risultato fu un aumento delle serie televisive, ma una standardizzazione delle stesse su livelli grafici e narrativi molto bassi. Questa crisi venne in gran parte causata dall’arrivo sul mercato delle prime console.
Negli anni ’90 c’è comunque stata una ripresa, grazie anche ai grandi successi ottenuti da serie televisive per il grande pubblico, caratterizzate da trame intricatissime e personaggi realistici. Tra tutte Shin Seiki Evangelion (Neon Genesis Evangelion, 1995) diretta da Hidekaki Anno, Studio Gainax (uno degli autori più ammirati e contestati del Sol Levante), nonché molte altre nuove serie di altri studi, come lo studio Ghibli (Mononoke Hime, Princess Mononoke, 1997), Sen to Chihiro no kamikakushi (La Città Incantata, 2001), Hauru no ugoku shiro (Il Castello Errante di Howl, 2004), tutte opere del maestro Hayao Miyazaki), che cercano di creare anime di successo e li affidano all’estro creativo di bravi sceneggiatori e veri geni della regia.
Dalla metà degli anni 90 in poi infatti (Neon Genesis Evangelion si potrebbe prendere come punto esemplare di questa “svolta”) vengono prodotti anime di altissimo livello grafico e narrativo. Tra questi si possono citare Kokaku Kidotai (Ghost In The Shell, 1995) di Mamuro Oshii, Kauboi Bibappu (Cowboy Bebop, 1998) diretto da Shin’ichiro Watanabe, e Tenku no Esukafurone (I cieli di Escaflowne, 1998) di Kazuki Akane, entrambi targati Sunrise, Wolf’s Rain (2003) di Tensai Okamura, della Studio Bones.
Infine nella computer grafica si può assistere ad una notevole evoluzione in termini di metodi, dal binomio di animazione 2D e 3D, portata avanti dalla Gonzo, la quale ha prodotto la miniserie Blue Submarine N°6 come prototipo per poi approdare a Last Exile, serie più articolata che può contare 3 stagioni, alle animazioni in cel-shading di Ghost In The Shell: Stand Alone Complex…
Vedremo ora dove ci porteranno le ultime tecnologie.
2 – Sacrificio, onore, morte
Per la mentalità giapponese essere davvero forti consiste anche e soprattutto nel non curarsi della propria personale felicità al fine di ottemperare un obbligo, perseguire un ideale, rispettare un vincolo che rende “spiritualmente indebitati”, la vita mai come fine a se stessa.
Questo è un particolare tratto della mentalità giapponese che ha radici storiche antiche: on è il termine che indica gli obblighi riguardo a persone nei cui confronti si ha un debito infinito di riconoscenza, un debito mai completamente estinguibile (i genitori, il proprio maestro, l’Imperatore,…); giri è il termine che indica “il reciproco” di un obbligo, il dover saldare un debito, ad ogni costo e limitato nel tempo in base al rispettivo on.
Nelle storie anime che hanno come scenario di fondo epiche lotte tra “buoni” e “cattivi” (nomi di riferimento, perché in realtà le differenze non sono mai nette, o meglio non ci sarebbero mai), la forza di carattere dei personaggi è determinata da quello che potremmo chiamare un senso del dovere nei “confronti del mondo”, dove con mondo si può intendere ciò con cui veniamo a contatto e crediamo parte di “noi”, partendo dal semplice “io” fino a tenere in considerazione l’intero pianeta Terra se non lo stesso Universo.
Difficilmente la personalità dell’eroe risulta piatta: Hiroshi, trasformato dal padre in un aneroide in grado di trasformarsi nella testa di Jeeg (Jeeg robot d’acciaio) si rende conto di essere l’unica possibilità di salvezza per non soccombere alla minaccia degli Haniwa, ma nello stesso tempo nutre nei confronti del padre risentimento per averlo mutato contro il suo volere, per non parlare della società, che non lo comprende.
La grandezza dell’eroe sta proprio qui: nel non essere al di sopra dei propri sentimenti (ninjo), delle esigenze, incomprensioni, ma di saperle accettare e superare in vista di un “nobile fine”, perché si riconosce l’esistenza di un compito a cui si è chiamati e ci si prodiga per compierlo.
Simile ma diverso è il caso di Peter Rei, pilota del Gundam (Mobile Suite Gundam): il protagonista è ostile a ogni tipo di disciplina, nessun obbligo morale turba la sua coscienza, ma questo perché essa è già così turbata di per sé che non trova spazio per riconoscersi parte di un progetto comune, cardine di doveri nei confronti delle persone care. Solo posto di fronte a tragici eventi la sua morale sarà turbata e, infine, nel riconoscere come suo nemico preciso Shia, sarà punto d’onore affrontarlo e sconfiggerlo per assumere un posto ideale nel mondo, identità altrimenti sfuggevole.
Uno dei problemi trasposti negli anime è proprio il problema dell’identità, della sua ricerca e definizione da parte del protagonista (o dei protagonisti, che comunque la maggior parte delle volte riflettono l’uno: questo è perché, solitamente, ad essere destinatario del messaggio è sì la massa, ma poi identificata come singolo, poiché solitamente lo spettatore è solo, davanti alla televisione) che paradossalmente trova spesso nel suo acerrimo nemico il miglior aiuto per costruirsi questa identità e sfuggire così alla categorizzazione omologante della società.
Come guardarsi ad uno specchio: fino a che noi non vedremo la nostra immagine riflessa non potremo mai sapere chi siamo, ma quando questo avviene noi comprendiamo la nostra essenza, e in questo specifico caso l’evidenza del kata (dal greco: tutto ciò che è “male”) nello specchio ci fa comprendere di essere ana (tutto ciò che è “bene”), oppure il contrario.
Tale pensiero però non è solo di esclusiva matrice nipponica: esso è anche riscontrabile, seppur in maniera diversa, in contesti (sia narrativi che culturali) differenti.
Un esempio parallelo riscontrabile in occidente è presente in Star Wars: qui lo jedi è ciò che rappresenta l’on e il giri verso l’altro, verso il mondo nel senso più ampio del termine: una vita di deprivazione, quasi di abnegazione dell’io, il tutto a favore dell’altro, di ciò che è fuori di noi, senza che il nostro ego prenda il sopravvento; il sith è l’esatto opposto: egoismo allo stato puro, le sue azioni sono volte soltanto al proprio desiderio. Qui però si può già intravedere una sorta di distacco da quello che è lo spirito occidentale: infatti qui la divisione non è propriamente tra bene/male dove bene e male sono concetti assoluti, indipendenti, dati da una sorta di concetto divino, quanto più tra io/altro, tra ciò che siamo noi, un mondo limitato a noi stessi, e altro, un mondo inteso nel senso più ampio, che vede l’io come parte del tutto.
Questo metodo di pensare riguardo a bene/male è prettamente di origine occidentale, poiché largamente influenzato dalle religioni: esiste Dio, che è bene, il quale ci fornisce di una vita, che può essere vista come un segmento, alla fine della quale c’è il bene o il male, a seconda della nostra condotta. In oriente invece non vi è questo modo di vedere le cose: i giapponesi (come la maggior parte delle religioni orientali) hanno un modo di concepire l’universo, l’assoluto, perfettamente amorale, prima si accetta questo fatto e meglio è. Le loro idee di giusto e sbagliato sono basate sulle relazioni sociali dell’uomo (come appunto anche in Star Wars che per questo si può definire “lontano” dal pensiero occidentale). La moralità è un concetto puramente umano, non è legata a nessuna visione trascendente dell’universo. Le persone e l’assoluto sono entità differenti e giocano ruoli differenti.
Dunque non vi è una divisione netta tra male e bene, e questo viene riferito anche al modo di concepire la morte. Essendo in occidente la vita considerata come una sorta di “segmento”, la morte è inevitabilmente vista come la fine e su ciò influiscono il bene e il male dettati dall’assoluto: Paradiso e Inferno. In oriente la visione della vita è differente: il concetto di nirvana-samsara non è equiparabile a un concetto assoluto di male e bene, quanto più di desiderio (quindi ego) e abnegazione in favore dell’altro. Quindi la morte non è forzatamente vista come fine, bensì come mezzo.
Esaustiva a tal fine è La leggenda dei 47 ronin, fatto realmente accaduto in Giappone nel 1701-03: 47 bushi, privati del loro signore ucciso, non poterono trovare pace fino a che non riuscirono a riscattare il loro onore nei confronti del loro signore. Una volta riscattato il loro onore e compiuto il loro giri praticarono seppuku (il rituale del suicidio tramite taglio del ventre). In occidente questo verrebbe visto come una totale vergogna, nonché un peccato mortale, mentre invece in oriente questo concetto viene perfettamente ribaltato: rinunciare alla vita è, nei casi opportuni, la forma più alta di affermazione della propria volontà, libertà, risolutezza: io padrone del mio essere e del mio destino decido volontariamente e coscientemente di porre fine alla mia vita in nome di ciò in cui credo.
Del resto lo spirito che “è tutto ed eterno” ha la supremazia sulle circostanze materiali: il sacrificio di una vita, se consapevolmente votato ad una giusta causa, non è testimonianza di una sconfitta, ma al contrario risposta agli eventi negativi della vita, assoluta predominanza su di essa.
Non importa quanto coraggiosi, buoni o anche impopolari siano, molti personaggi degli anime incontrano una morte insignificante, indecorosa, disgraziata. Questo non capita nei programmi televisivi occidentali, nei quali la virtù viene inevitabilmente ricompensata e il male punito. Il motivo per cui difficilmente si lasciano trasmettere anime giapponesi in occidente (se non opportunamente censurati) è anche perché lasciare tranquilli i cattivi e far morire i buoni potrebbe far credere agli spettatori e in particolare ai fanciulli che l’assoluto non si cura affatto di tali problemi. Ma il fatto è che in realtà per i giapponesi è così. L’anime non ha finto, come fa il cartone occidentale (più precisamente Disney), che anche il bambino sia buono per natura. Per niente. Il bambino è anche violento, competitivo, narcisista. L’anime ci dice anche questo.
Un esempio di questo si può riscontrare nella fine de I cavalieri dello zodiaco: mentre il finale trasmesso in Italia e in occidente si conclude con la vittoria dei cinque cavalieri su Nettuno, re dei mari, e quindi della giustizia, del bene, in realtà vi sarebbe un’ulteriore serie non trasmessa: qui c’è il risveglio di Ade, Dio della Morte, che corrompe le anime dei cavalieri d’oro morti durante lo scontro con i protagonisti per fare in modo che questi gli portino la testa di Athena. Un pesante scontro al Grande Tempio vedrà soccombere la maggior parte dei cavalieri d’oro. Infine Lady Isabel viene uccisa. Da qui i protagonisti si recheranno nell’Ade per salvare l’anima di Lady Isabel, ma giunti nella casa di Ade (percorso che ha visto l’uccisione di tutti i cavalieri d’oro) troveranno l’anima, il corpo astrale di Lady Isabel dentro un vaso che ne ruba il potere, il sangue. Qui avverrà lo scontro con il Dio della Morte, che vedrà sì vittoriosi i cavalieri e salva Athena, ma a discapito della vita di Pegasus, morto nella battaglia per far sì che Lady Isabel potesse uscire dal vaso. E dunque sarà così che Pegasus morirà: immolandosi per i propri ideali, senza però riuscire a sapere chi fosse in realtà sua sorella, ultimo pensiero cui ricorre prima di morire.
Pegasus muore, muore forse anche in maniera disdicevole, ma il suo sacrificio, la battaglia per il suo onore, per saldare il giri che ha nei confronti della Dea, lo porta a morire sacrificando la sua stessa vita (il pensiero della sorella) per gli ideali in cui crede, ai quali senza la morte non sarebbe possibile giungere.
La morte, il totale sacrificio di sé, ha un senso e non è un prezzo troppo alto da pagare se in gioco c’è il rispetto di un ideale, la fede in un valore diverso dal tornaconto personale. Ed è questo che distingue i “buoni” dai “cattivi”.
3 – “Buoni” e “cattivi”
“Non credo in niente io!” urla Luxor, cavaliere di Asgard, a Sirio il Dragone. Questi risponde sgomento: “Cosa vuoi dire? Che non credi a Odino? A Hilda? Perché ti batti allora? Cosa ti spinge, spiegati!”, “Mi batto e basta, perché mi diverte, perché a questo i lupi della foresta mi hanno educato! Ai lupi credo, ai lupi solamente, non agli uomini!”. Luxor, rimasto orfano e abbandonato al suo destino nella foresta, cova un forte rancore nei confronti dell’umanità intera: solo negli animali selvatici ha trovato accoglienza, ha scoperto di avere un ruolo e una possibilità di vita.
Nell’anime la “cattiveria” non è genetica: il “cattivo” possiede delle motivazioni che lo spingono a comportarsi in un certo modo, magari egli crede di agire nel giusto (o nel suo giusto), e non si rende conto di essere accecato, di avere l’animo ottenebrato, e quindi si oppone in ogni modo ai “buoni”. Per quanto il “bene” e il “male” possano esistere (ma comunque sono opinioni e non dati assoluti), nel reale poi i buoni e i malvagi non sono mai così nettamente separati: essi sono in realtà molto vicini, molto simili, forse combattono su fronti opposti solo per fatalità, o comunque entrambi hanno delle valide motivazioni per cui protrarre le proprie azioni. Sebbene però lo si possa comprendere, non per questo lo si può giustificare, quindi lo si deve combattere e senza tregua. Ciò perché in fondo si sa che il vero nemico da combattere è un altro: è quello che si annida dentro di noi, le nostre debolezze, le nostre paure, le nostre meschinità, che feriscono l’altro, non lo rispettano, non vogliono imparare ad amarlo; sono i nostri demoni, che prendono forma e vengono incarnati nel nostro nemico, nel “malvagio”.
Anche gli eroi sono spesso risultato di una vita infelice: orfani, sopravvissuti, tensioni emotive personali, disadattati, ma hanno saputo fare di queste difficoltà strumenti per migliorarsi e quello che li guida è l’assoluta fiducia in un ideale (amore, giustizia, libertà, pace, amicizia) che hanno permesso loro di non sottomettersi alla vita, di non subirla come invece fa il malvagio (che è malvagio perché appunto vive subendo la propria vita e attaccandosi solo al proprio ego), ma che anzi hanno dato loro la forza di riuscire a imporsi sulle proprie tragedie (anche se a volte con sofferenza).
La fase adolescenziale, che rappresenta la parte maggiore del pubblico degli anime, si caratterizza del resto come un periodo in cui ci si sente distanti dal mondo, dalle sue leggi, incompresi e sconosciuti (anche a se stessi): lo sforzo massimo è inteso ad un riconoscimento e ad una appropriazione dell’identità che ci definisce e ci trasforma in soggetti. L’eroe scopre le proprie qualità se posto di fronte al nemico. La condizione di isolamento, di alienazione, in cui vivono molti personaggi degli anime, da un lato può rispecchiare l’effettiva condizione che vivono i giovani, dall’altro costituisce la difficoltà di partenza da cui si sviluppa il percorso di maturazione e presa di coscienza dell’eroe. L’antagonista diventa in un certo senso la causa scatenante per liberarsi dal torpore in cui ci si trova.
Il rischio nel combattere un nemico però è diventare come lui, soccombere al proprio ego e perdere di vista i propri ideali: in Trigun, una serie più recente che sviluppa concettualità anche più profonde e per questo affronta in modo più controverso questo tema, uno degli avversari di Vash durante il combattimento gli urla: “Lo vedi! Tu, con il tuo potere, sei come me: io e te non siamo diversi! Noi siamo demoni!”. Estremo pericolo dell’eroe, prova mai del tutto superata, è quella di lottare contro il nemico senza diventare come lui.
Anzi, talvolta il nemico è figlio dello stesso genos dell’eroe, portatore dello stesso sapere, degli stessi ideali anche, ma applicati in maniera completamente differente, che li distorce, facendogli assumere una veste completamente diversa.
Sempre in Trigun avviene questo: Vash ha un fratello gemello, Knives. Entrambi sono plant, esseri superiori agli esseri umani, nati e cresciuti in una comunità umana in cerca di una Nuova Terra. Entrambi vengono educati da Rem ad una vita di altruismo e rispetto per il prossimo, di positivismo. I due, crescendo, manifestano però diverse concezioni: mentre Vash resta idealista e sensibile, Knives diviene cinico e razionale. Il tutto avviene in una scena cardine: stesi su un prato, Vash cerca di salvare una farfalla intrappolata nella tela di un ragno che sta per divorarla. Mentre Vash si adopera, Knives arriva e uccide il ragno. Vash sgomento si gira verso il fratello sorridente e gli chiede: “Perché l’hai fatto?”, “Perché tanto se avessi salvato la farfalla il ragno sarebbe comunque morto di fame”, “Ma non per questo dovevi ucciderlo!”, “Sarebbe morto comunque, è un paradosso cercare di salvarli entrambi!”, “Io volevo davvero cercare di salvarli entrambi!”. Knives arriverà poi a pensare che il fine giustifica i mezzi e che “i problemi vanno risolti, anche se ciò comporta delle vittime, basta che siano il meno possibile”. La netta differenza verrà sancita poi quando, mentre Rem taglia i capelli a Vash, Knives fugge per poi tagliarseli da solo. Da qui il suo distacco da Vash inizierà a essere evidente: preso atto della propria superiorità sugli umani, inizierà ad uccidere uno a uno i membri dell’equipaggio, per poi cercare di uccidere anche il resto dell’umanità nelle altre astronavi, poiché essi sono “il ragno”. Da uno stesso genos si sono evolute due menti differenti ed esattamente opposte.
D’altro canto l’assoluta fedeltà a un ideale e l’altruismo spinto ai limiti estremi della rinuncia di sé, per quanto esaltati dal “giusto”, non preservano dalla tristezza in cui si imbatte chi vi si sacrifica. E dunque è così che commenta il Maestro dei Cinque Picchi (I Cavalieri dello Zodiaco) il sacrificio di Sirio il Dragone per sconfiggere Capricorn, cavaliere d’oro: “Oh Sirio, hai vissuto per la giustizia e per gli altri, non per te stesso… Hai dato anche la vita, perché l’hai fatto? Oh Athena, vivere per la giustizia e per gli altri è bello ma… è triste, com’è triste!”. E medesimo destino è riservato anche a Vash: nel suo perseguire i suoi ideali di salvare sempre tutti senza uccidere nessuno inevitabilmente incappa in continue ferite e continue tragedie, sempre braccato dai Gun’o’guns che molte volte, a causa della sua pietà, sfruttano questa sua peculiarità contro di lui.
Addirittura, nelle serie più recenti, accade che a volte l’eroe abbia ben poco dell’eroe: combatte sì in nome della giustizia e dell’amore, ma lo fa per un profitto personale, l’altro diviene riflesso del proprio ego. Cowboy bebop ne può essere un esempio: qui i protagonisti sono cacciatori di taglie, che sono mossi solo dal pensiero del denaro, e benché molte volte si lascino scappare la taglia per asservire a degli ideali in favore dell’altro, in realtà il loro essere cinici svela che forse il comportarsi così non è manifestazione di un’assoluta credenza in tali valori, ma una mesta partecipazione per rassicurare il proprio ego. Simile esempio è Van, protagonista de I Cieli di Escaflowne: sebbene debba proteggere Hitomi, egli molte volte non esita ad abbandonarla a causa della propria vendetta o dei propri dubbi, lasciandola spesso in preda al pericolo. E così è anche Shinji, protagonista di Neon Genesis Evangelion: lui non combatte per salvare il mondo, combatte perché è obbligato a farlo e lo fa solo per poter riceve le lodi dagli altri, da suo padre.
Eroi “relaitivi” quindi, che compiono il “bene” quasi per caso.
Cattivi giustificati, buoni non troppo convinti, un bene che non ripaga appieno e un male che soddisfa un po’ troppo il nostro ego: qui quella sicurezza dell’assoluto si perde in quell’amoralità orientale, e qui allora possiamo comprendere il Tao: il bene e il male non sono mai assoluti, ma anzi si toccano in maniera armonica, e nel bene vi è sempre e comunque la presenza del male e viceversa.
Ciò che li differenzia sono l’io e l’altro.
4 – Il problema dell’altro
Negli anime spiccano senso del rispetto, lealtà, solidarietà, amicizia, tutti valori che implicano il riconoscimento dell’altro, del diverso. Questo altro è il nemico, questo altro sono le persone che fanno parte del nostro mondo nel quale ci identifichiamo, ma questo altro siamo anche noi stessi, è lo stesso protagonista, lo stesso eroe, che si mostra tale proprio in virtù della sua alterità: molto spesso il suo essere diverso (e molte volte il suo essere come il nemico) lo rende capace di affrontare gli avversari. Nelle trame più articolate si può osservare come questo concetto di alterità sia sfumato, non nettamente distinto ed arrivi anche a confondersi, come sd esempio in Trigun. Esempi di questa alterità dentro di noi sono le ultime serie: in Neon Genesis Evangelion il vero nemico, il vero altro, non sono gli Angeli, e non è neanche il padre, ma è lui stesso, l’altro è Shinji: le sue paure dentro di lui, l’odio per se stesso, che lo rendono una persona chiusa, introversa, insofferente al mondo. A questo punto sarebbe da domandarsi chi sia il vero nemico: sebbene Shinji combatta per difendere l’umanità, il suo combattere è mosso da un semplice “dovere”, o meglio, dal semplice fatto di essere accettato dagli altri, per puro ego. Ma qui Shinji, riuscito poi a combattere contro i nemici insiti dentro di lui, contro il suo odio per se stesso, contro le sue insicurezze, troverà anche la forza per accettare e benvolere il mondo, con un sorriso. Altro esempio su questa linea sono i protagonisti di Cowboy Bebop (Spike, Jet, Faye ed Ed): nessun nemico alieno, nessun antagonista. In questa serie di episodi sconnessi e autoconclusivi possiamo imparare come in realtà l’altro sia dentro ad ognuno di loro: il loro passato, che li rende persone insensibili, ciniche. Sta quindi a noi riuscire prima a confrontarci con noi stessi, con le nostre alterità, per poi riuscire ad accettare un mondo più ampio.
D’altro canto mostrandoci realtà altre, conflitti tra popoli, creature, generazioni diverse, osservando gli anime si vede come la crescita interiore passi anche attraverso l’apertura alla dimensione del diverso. Qui allora inevitabilmente rinunciare al riconoscimento dell’altro significa anche rinunciare al riconoscimento di se stessi, perché in fondo è grazie all’altro all’infuori di noi che possiamo anche riconoscere l’altro all’interno di noi.
Le storie narrate ci dicono che lo sforzo di costruzione di un’identità, portando anche allo scontro, non è indolore: in fondo quanto soffrono gli adolescenti per diventare adulti? In questo, forse, gli anime hanno saputo interpretare meglio di quanto non si creda i problemi, le angosce e le incertezze dei giovani (e forse non solo). Le ultime serie, quelle più reenti, hanno risentito in particolar modo del crollo degli ideali negli anni novanta, a causa della crisi economica, e riescono ancora meglio in questo intento, portando sullo schermo personaggi assolutamente verosimili che hanno in sé (vedi Shinji, vedi Spike…) dubbi, incertezze nel vivere, che inevitabilmente la gioventù giapponese (ma non solo la gioventù e non solo i giapponesi) riscontra nel suo crescere.
Ma senza l’altro, senza il confronto con ciò che è diverso, che richiama poi ciò che è sconosciuto dentro di noi, cosa accadrebbe?
Akira di Katsushiro Otomo ce ne dà un esempio: il caos. I giovani protagonisti di Akira (Kaneda, Tetsuo e compagni) sono teppisti in una società che non li comprende e non li vuole comprendere, sono giovani lasciati allo sbando, in un’inconsapevolezza assoluta della realtà che li circonda, che si abbandonano al semplice ego, dando sfogo alla propria rabbia. Essi simbolizzano una sorta di “nuova razza umana”, una razza che rappresenta l’alieno nel cuore stesso della collettività, una razza mutante, fragile e allo stesso tempo terribile, coccolata e al contempo temuta, esorcizzata, analizzata, scrutata, studiata. Una razza che solo ora inizia a prendere coscienza dei propri “nuovi poteri”, della propria diversità nei confronti di un mondo indifferente, e lo fa a modo suo (non è forse un quadro perfetto della gioventù giapponese odierna? E forse non solo giapponese…).
L’alterità in Akira è un alterità distorta, gli stessi personaggi ne sono vittime, immersi in un mondo a loro alieno in cui l’alterità si scontra e confligge con se stessa e non lascia spazio alla possibilità di intervento, di interpretazione, di ordine. Non vi sono né buoni né cattivi, non c’è alcun centro morale, alcuna geografia rassicurante. Non si dà più la possibilità per l’uomo di decidere la propria vita, di riconoscersi soggetto, rischiando di essere privati della propria individualità. Tutto è altro, anche a se stesso, non è più possibile stabilire un contatto, un confronto, e quindi è il caos. Vi sono solo piccoli frammenti di tutto: violenza, rabbia, risse e bullismo, ma anche amicizia, amore (quello che nasce tra Kaneda e Kay e quello che Kaori prova per Tetsuo), onore e orgoglio (quello di Kaneda per cercare di riuscire a far tornare in sé Tetsuo, suo amico d’infanzia).
E il pericoloso risultato è incarnato da Tetsuo: dotato di poteri illimitati, movendosi in questo caos finisce per perdere perfino il proprio ego e il suo potere deborda, trasformandolo, anche in maniera deforme, in una sottospecie di nuovo nato del caos, in cui la sua identità è persa. Allora non resta che la fine, l’esplosione del tutto. Ma alla fine si possono però sempre raccogliere i frammenti che compongono una persona e ne formano l’identità: la memoria. Ed è lì che allora, in quell’esplosione di luce, risuonerà una voce cosciente: “Io sono Tetsuo!”.
5 – L’altro tecnologico
In molti anime è presente il tema della tecnica, l’incontro tra l’uomo (e ciò che lo rende tale) e la realtà da egli stesso creata, la tecnologia. Questa da un lato è portatrice di elementi positivi: permette il progresso e lo sviluppo dell’uomo sulla Terra, la scoperta di nuovi mondi, garantisce la difesa e la sicurezza. Ma dall’altro può trasformarsi nel peggior nemico dell’uomo, nella più grave minaccia alla sua sopravvivenza.
Quale paese poteva dare un’impronta più “tecnologica” al suo “comunicare” se non il Giappone, unico paese al mondo ad aver sperimentato il potere della bomba atomica, parto devastante della tecnologia, e ad avere portato avanti, da allora, un progresso tecnologico considerato come il migliore del mondo?
Sulla scia del primo tipo di pensiero ci sono la maggior parte degli anime che riguardano il filone dei mecha: Mazinga, Goldrake, Space Robot, God Sigma, sono le uniche armi in grado di piegare il nemico e riportare la pace. Un caso un po’ a parte è Jeeg, il quale è sì mezzo tecnologico difensore del bene, ma Hioshi subisce la tecnologia, trasformato in androide, e da qui poi subisce una sorta di discriminazione.
Lentamente quindi si passa al rovescio della medaglia: ad esempio in serie come Capitan Harlock, Galaxy Express 999 e Starblazers il processo tecnologico diviene base di sofferenza ed angoscia. In Starblazers l’incrociatore spaziale Yamato dovrà abbandonare la Terra per recuperare il “Cosmo DNA” in grado di poterla salvare dall’inquinamento che la sta devastando, così come anche in Tekkaman l’umanità è costretta a vivere sottoterra poichè la superficie è troppo inquinata. Baldios sviluppa un tema interessante: gli invasori non sono alieni, bensì terrestri provenienti dalla Terra del futuro resa completamente inabitabile dall’inquinamento, che quindi cercano di trovare nella Terra del passato una fonte di salvezza. In Kyashan gli androidi si sono rivoltati contro i loro padroni utilizzando anche la violenza: in questa serie, oltre ad esserci il tema della devastazione ambientale dovuta alla tecnologia, viene anche trattato l’aspetto della tecnica come reificazione del vivente: l’uomo non è più al centro del mondo, ogni valore è subordinato alla funzionalità dell’utile. La tecnica diviene al contempo “soggetto” e “ambiente”, essenza “in sé e per sé”, autonoma e non più strumento dell’uomo. Non esistono più quindi scopo, senso, etica: la tecnica trasforma ogni cosa in funzione della sua applicabilità e utilità, dimostrando il grado più elevato di onnipotenza che un tempo era dell’uomo. La tecnica arriva poi a potenziare se stessa.
La tecnica dunque arriva a sostituire l’uomo: in Astroboy di Osamu Tezuka si può assistere alla costruzione di un robottino che è perfetta copia del figlio morto del suo creatore. Egli prova sentimenti umani, eppure non riesce a trovare la propria identità (uomo o robot?). Astroboy incappa nelle discriminazioni umane e suo “padre” stesso arriva alla fine a cederlo ad un circo. La capacità di Astroboy di provare sentimenti umani senza appartenere alla nostra specie induce lo spettatore a riflessioni amare sull’apertura e la comprensione verso gli altri. Essendo dotato di ragione prende coscienza degli effetti positivi che egli stesso può avere sulla collettività, benché questa non se ne renda minimamente conto.
In un altro anime particolare e controverso come Battle Angel Alita di Yukito Kishiro, la tecnologia è tale da potesir “fondere” con l’umano, in un combinarsi di arti meccanici e corpi umani, in uno scenario tipico del cyberpunk, dove la mostruosità coinvolge tutti indipendentemente dall’aspetto fisico, tratto che denota più che altro l’interiorità dei personaggi.
Dove sta qui quindi il limite che demarca l’umano, il naturale, dal tecnologico, dall’artificiale? Alita ha un corpo completamente meccanico eppure ha un cervello umano, per cui prova sentimenti e sviluppa una coscienza. Gli abitanti di Salem, città che volteggia in aria sopra la Città Discarica (nata appunto dai suoi rifiuti), guardano con orrore a quel mondo sotto di loro, formato da “umani” non più tali. Loro si sentono assolutamente superiori, fino a che non scoprono che in realtà non hanno più un cervello, sostituito da un chip ad alto rendimento per poter evitare forme di stress e malattie mentali. Loro a questo punto potrebbero definirsi umani?
Fondamentalmente tutte le serie di science-fiction che hanno come sfondo la contraddizione tra “neutralità” della tecnologia e l’uso che ne può fare l’uomo tentano di porre il soggetto di fronte a una presa di coscienza: bisogna chiamarsi in causa, decidere della propria sorte, porsi di continuo interrogativi sui vantaggi e sui rischi delle proprie possibilità, avendo coscienza di sé, poiché senza coscienza di sé inevitabilmente la tecnologia, prolungamento dei nostri arti, del nostro volere, sarà uno strumento in una mano indecisa e quindi un potenziale pericolo.
E una possibile risposta potrebbe venire da una delle prime opere di Miyazaki, Conan Ragazzo del Futuro: qui il futuro è stato devastato dall’eccessivo progresso tecnologico, che ha poi portato ad una inevitabile guerra dalle immani proporzioni che ha sconvolto la crosta terreste causando l’inabissamento di molte terre. Qui si muovono due “società”: Hayarbor, una società forse retrograda, basata sull’agricoltura e sull’allevamento, e Industria, che tenta di riaffermare il potere tecnologico fondato sull’energia solare impostando però un regime assolutistico. La lezione che viene tramandata ai protagonisti Lana e Conan dal nonno di Lana è racchiusa nella Torre del Sole che lui stesso, massimo esponente della tecnologia, costruì: “Il Sole splende sempre nel cielo e grazie a lui la Terra e il mare nutrono gli animali e fanno crescere le piante. Non c’è altra vera possibilità per gli esseri che quella di vivere in mezzo alla natura”.
Il padre della tecnologia richiama le origini, poiché sa che perdendo il contatto con esse inevitabilmente la nostra mano tecnologica ci priverebbe di ciò che ci rende umani.
Anime, medium di massa
1 – Anime e dipendenza dai media
L’anime si può considerare un medium “elastico”: riesce a unire intrattenimento e concettualità, in più trattandosi di un medium freddo riesce a coinvolgere il fruitore, obbligandolo alla partecipazione e alla compartecipazione nella costruzione di un significato.
Ma l’anime, in voce di questa sua virtù, può quindi catalogarsi un medium di massa? Indubbiamente sì. Tramite il canale televisivo (e sovente cinematografico) arriva a colpire un’ampia parte della società, su molti piani, dai più piccoli agli adulti. Infatti in Giappone le trasmissioni sono organizzate in modo tale che vi sia una rigida fascia oraria per ogni tipo di anime, in modo da andare a colpire soltanto le fasce di età adatte al tipo di anime di volta in volta trasmesso.
A tal fine proviamo ad applicare dunque la Teoria della dipendenza dal sistema dei media per osservare le possibili influenze che potrebbe avere l’anime su un suo fruitore, in special modo un giovane, principale target a cui il medium è diretto.
La Teoria della dipendenza parte dal presupposto che la sopravvivenza e la crescita siano motivazioni umane fondamentali che spingono gli individui a raggiungere tre importanti scopi: la comprensione, l’orientamento e lo svago4. Gli esseri umani hanno una motivazione specifica a comprendere se stessi e il loro ambiente sociale. Usano poi le conoscenze acquisite per orientare le proprie azioni e le interazioni con gli altri. Lo svago è considerato uno scopo fondamentale come gli altri, metodo di apprendimento dei ruoli e in genere di interazione nella società.
2 – Comprensione, Orientamento e Svago negli anime
La comprensione di sé riguarda le relazioni con i media che ampliano o conservano la capacità dell’individuo di interpretare le proprie convinzioni, il comportamento, l’auto-percezione e la propria personalità. La dipendenza nella comprensione sociale si sviluppa invece quando gli individui utilizzano le risorse informative dei media per comprendere e interpretare persone, culture ed eventi del presente, del passato o del futuro. Le questioni del significato e della conoscenza sono fondamentali per capire sia le dipendenze cognitive, dove l’oggetto è esterno all’individuo, sia quelle in cui l’oggetto è interno.
L’orientamento all’azione si riferisce ad una molteplicità di modi in cui gli individui stabiliscono rapporti di dipendenza con i media per trarne delle specifiche guide di comportamento. La dipendenza dell’orientamento all’interazione implica che l’azione abbia per oggetto una o più persone: gli individui mostrano una dipendenza quando traggono dai media le informazioni riguardanti i comportamenti appropriati o efficaci per le proprie relazioni.
A livello di svago individuale la dipendenza si stabilisce quando le proprietà estetiche del contenuto dei media e la loro capacità di intrattenimento costituiscono in esso motivo di intrattenimento. A livello di svago sociale il rapporto di dipendenza si basa sulla capacità dei media di fornire il contenuto che stimola l’attività con altre persone.
Nel capitolo precedente sono stati esposti alcuni dei tratti marcanti dell’animazione giapponese, tratti che richiamano alla cultura, alla storia e anche alla religione del Giappone (che però potrebbero essere estesi anche ad altre società). L’animazione giapponese ha molto a cuore il concetto dell’identità, in un paese in cui urbanizzazione e tecnologia dilagano ampiamente e dove lo stile di vita è quanto mai frenetico. Nell’attuale presente inoltre il Giappone è sconvolto da una profonda crisi economica, crisi che oltre che portare molte famiglie alla rovina ha anche sfatato un grande mito (il benessere) causando una grave crisi anche da un punto di vista intellettuale: questa crisi si ripercuote perfettamente nei giovani (come illustrato nel Capitolo I).
Quale ruolo può quindi giocare l’animazione riguardo a comprensione, orientamento e svago?
Gli anime propongono personaggi complessi, in molte occasioni quanto mai verosimili (questo accade specialmente negli shoonen e negli shoojo, anime che toccano profondamente la vita sociale dei giovani poiché si muovono nella loro stessa realtà), in cui molti giovani possono riscontrarsi, identificarsi. Identificandosi in essi si può riuscire a stabilire un contatto con lo spettatore per condurlo a una migliore comprensione di sé.
A questo proposito Le situazioni di Lui e Lei di Hidekaki Anno (Gainax, 1998) sarebbe un caso appropriato: i personaggi di Yukino e Soichiro rappresentano una larga parte dei giovani giapponesi. Sorvolando sul fatto che essi siano eccellenti a scuola (fatto che non include il 100% dei giovani in Giappone ma che sicuramente rappresenta una sorta di “meta” per i giovani, poiché lì la scuola incide molto e molti ragazzi arrivano addirittura a suicidarsi a causa di voti deludenti), Yukino e Soichiro vivono perfettamente le situazioni di vita che può vivere un adolescente qualsiasi: problemi d’amore, responsabilità, amicizie. In questo modo un adolescente potrà facilmente riscontrarsi nel personaggio e grazie a questo avere uno specchio per riuscire a meglio comprendere se stesso, i propri dubbi, le proprie difficoltà.
Da qui non sarà difficile che i personaggi diventino anche spunto, per colui che li guarda, per apprendere nuovi atteggiamenti, per porsi in maniera diversa riguardo ai propri problemi, alle proprie decisioni e ai propri dubbi, modificando il proprio agire in funzione delle scelte che i personaggi che meglio hanno aiutato a comprendersi compieranno di volta in volta. Da questo punto di vista Shinji, il protagonista di Neon Genesis Evangelion, potrebbe essere un esempio: egli è una persona chiusa e assolutamente introversa, profondamente insicura, che nutre odio verso se stesso poiché non riesce a trovare un proprio posto nel mondo, continuamente attanagliato dal senso di colpa. Nel corso della serie arriverà a sviluppare una sicurezza tale da poter stabilire un contatto con le altre persone nonostante le ostilità (Asuka) oppure l’indifferenza (suo padre Gendo): arriverà ad aver una migliore considerazione di sé, riuscendo a oltrepassare i dubbi che lo fermano, per trovare un posto nella società, con un sorriso.
Restando sempre su Neon Genesis Evangelion possiamo poi capire se effettivamente gli anime possono essere esempio di svago: la risposta è assolutamente sì. L’anime di per sé si basa su componenti attraenti, il disegno è qualcosa che inevitabilmente ci colpisce, attira la nostra attenzione, perché è qualcosa che si muove al di fuori del mondo che vediamo tutti i giorni. Inoltre le trame che vengono sviluppate sono pervase dagli ideali e dalla cultura, ma non dimenticano che servono anche a divertire, servono appunto a“insegnare” divertendo, emozionando, incutendo timore: e ci riescono, portandoci su altri mondi, tra battaglie spaziali a bordo di enormi mecha, oppure ricordandoci il nostro vivere quotidiano con qualche risata in più (in Le situazioni di Lui e Lei ci sono dei personaggi “super deformed” che sicuramente divertono, ma senza comunque tralasciare la concettualità).
Negli anime immancabilmente è riportato il gruppo, la vita di gruppo: l’attenzione per l’altro in Giappone è fondamentale e in moltissimi anime (dai fantascientifici agli sportivi) è presente l’idea del fare gruppo. Da questo punto di vista gli anime suggeriscono particolari fondamentali per riuscire a comprendere le persone che si muovono intorno a noi: caratteri diversi che si scontrano, idee diverse da far coesistere, volontà che si intersecano.
L’altro è per certi versi anche una sorta di specchio che riflette una parte di noi: queste parti che sono riflesse possono aiutarci a comprendere molto di noi e in questo comprendere se stessi possiamo anche aprirci all’altro. Riprendendo Le situazioni di Lui e Lei (ma potremmo anche citare Orange Road, oppure per cambiare genere Gundam) se ne può avere un valido esempio: Yukino è una ragazza modello, in tutto, dall’essere una studentessa perfetta fino a diventare una donna modello (fuori casa), eppure il suo incontro con Soichiro svela le sue mancanze e si riconosce poi una ragazza completamente vuota, che in realtà vive solo delle lodi altrui. Soichiro d’altro canto, conoscendo la spontaneità di Yukino, si chiede se effettivamente anche lui stia vivendo in maniera spontanea, per poi accorgersi che in realtà sta cercando di vivere una vita “in funzione” dei suoi genitori adottivi. Tolte le loro rispettive maschere, Yukino e Soichiro riusciranno meglio a comprendersi anche tra loro, a coprire vicendevolmente le rispettive lacune.
Una volta riconosciuti se stessi e compresi gli altri giunge l’ora di aprire un rapporto, di organizzare un contatto. Per questo negli anime vengono anche mostrati svariati modi di rapportarsi con chi è esterno a noi, filtrati oltretutto dalle ideologie e dalle culture, in questo caso, giapponesi. I Cavalieri dello Zodiaco possono esserne un perfetto esempio: questi cinque amici sono riuniti dallo stesso ideale, condividono sofferenze e gioie. E’ questo che li unisce, il condividere qualcosa, è questo che fa nascere l’amicizia, un valore da rispettare in assoluto. Sempre in Le situazioni di Lui e Lei Yukino e Soichiro arriveranno a sviluppare un’intensa storia d’amore e non solo, essendo consci di se stessi riusciranno anche ad aprirsi agli altri, trovando degli amici fidati laddove prima vedevano elementi ostili (come nel caso di Shinji di Neon Genesis Evangelion) o indifferenti.
Gli anime, nel loro narrare, disseminano la via di questi indizi, che lo spettatore, quasi inconsciamente, arriva a raccogliere: personaggi che rievocano lui stesso, che si muovono in un mondo a lui parallelo, oppure anche su mondi lontani dove però vivi sono i problemi di tutti i giorni, le paure, i dubbi ma anche le gioie. E qui, mostrando allo spettatore come questi personaggi così simili a lui riescono a costruire un’amicizia, a vivere secondo degli ideali, forse lo aiutano a trovare un modo per poter meglio rapportarsi col mondo che lo circonda.
Infine l’anime è divertimento tanto per il singolo quanto per la massa: senza tener conto dell’infinità di videogiochi che vengono sviluppati a ridosso degli anime e senza tener conto del merchandising che li accompagna (a partire dalle action figures per arrivare alle carte da gioco, ecc.), intorno al tema degli anime si sviluppano veri e propri ambienti. Allora ecco che gli spettatori si riuniscono per formare delle convention, manifestazioni (Lucca Comix, una tra tante) dove i fan si ritrovano e addirittura fanno cosplay travestendosi come ibpersonaggi a cui si ispirano, vivendo insieme per un attimo in un mondo parallelo, con il divertimento ma anche con gli insegnamenti che possono trarne, fino ad arrivare al mondo (forse un po’ estremizzato) degli otaku, persone completamente dipendenti dagli anime (e anche dai manga), che vivono realmente in un mondo parallelo, completamente assuefatti da questo medium particolare, che li fa astrarre dal mondo per trovargli un senso. E forse costoro gli hanno trovato un senso che risulta fine a se stesso, poiché si sono tolti dal mondo reale.
3 – Il paradigma cognitivo negli anime
Nella Teoria della dipendenza dai media la chiave per spiegare quando e perché gli individui si espongono ai media e agli effetti di tale esposizione sulle loro opinioni e comportamenti sta nei modi in cui le persone usano le risorse dei media per raggiungere i loro scopi personali. Se ad esempio due persone guardano lo stesso programma, forse gli scopi sono differenti: mentre una la guarda per svago, l’altra la guarda per comprendere. I risultati che si otterranno dalla comunicazione saranno differenti.
La Teoria della dipendenza dai media ipotizza un processo psicologico cognitivo che aumenta la probabilità che un individuo venga influenzato da particolari contenuti mediali.
Prendiamo il target medio a cui gli anime sono diretti: i giovani adolescenti. Secondo quanto esplicato nel paragrafo precedente, è probabile che vi sia già una sorta di selezionatore attivo che possa usufruire del medium, in quanto come dimostrato riesce a sopperire in maniera sufficiente a tutte le casistiche date dalla comprensione, dall’orientamento e dallo svago. Prendiamo invece un giovane selezionatore occasionale: di per sé la componente di intrattenimento degli anime fa molta presa sui giovani, già in genere molto creativi nel loro crescere e quindi meglio richiamati da un disegno, da un’animazione che non da un fotogramma referenziale. Colpiti quindi dallo svago che può indurre in loro l’anime continueranno la loro fruizione, anche solo per continuare a trarne dello svago. Lo svago richiamerà nuovamente lo spettatore a fruirne che, lentamente, inizierà a scoprirne anche i lati concettuali, la comprensione, invitato anche dalla componente fredda del medium. Ora anche il giovane spettatore occasionale avrà consolidato dei motivi per continuare ad usufruire dell’anime.
Questo ragionamento non vale certamente per tutti gli spettatori ma vale sicuramente per il target a cui gli anime sono diretti, ed è quindi probabile che questo tipo di animazione possa riscontrare un grande successo.
Esempi
Ghost In The Shell: Qual è la nostra identità?5
Nel 2029 a Tokyo la polizia scopre un corpo cibernetico che sembra custodire una coscienza viva e indipendente: si tratta del fantomatico Progetto 25-01, patrocinato dal Ministero degli Esteri in forma top secret e poi sfuggito al controllo dei suoi creatori e ribattezzatosi “Il Signore dei Pupazzi”. Il maggiore Kusanagi della Sezione 9 della polizia metropolitana (poliziotto cyborg con le fattezze di una giovane donna) decide di fare luce sulla vera identità di questo individuo che si sottrae ad ogni tipo di classificazione e che pretende di vedere riconosciuta la sua effettiva ed autonoma identità.
Tra non-dualità buddista e dualismo cartesiano, empirismo e razionalismo, tra Blade Runner e Matrix, Ghost in the Shell sancisce la definitiva consacrazione di Mamuro Oshii. Le ricerche di Kusanagi Motoko, tra sequenze di lotta e sparatorie, puntano agli interrogativi più profondi circa il significato dell’identità di ciascuno, alla distinzione tra reale e virtuale, naturale e artificiale. Da un lato torna in mente la classica formulazione del cogito cartesiano come perno per la dimostrazione dell’esistenza dell’io e del mondo, il famoso cogito ergo sum, penso e dunque sono. Di contro si oppone un altro pensiero radicalmente empirista.
Così scrive Hume: “Noi non abbiamo alcuna idea dell’io. Noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con inconcepibile rapidità”.
Gli fa eco Lichtenberg: “Noi conosciamo solamente l’esistenza delle nostre sensazioni, delle nosre rappresentazioni e dei nostri pensieri. Si dovrebe dire ‘pensa’ così come si dice ‘lampeggia’. Dire cogito è già troppo, non appena lo si traduce con ‘io penso’. Postulare l’io è un bisogno pratico”.
Oshii, sulla base del fumetto di Masamune Shirow da cui il film è tratto, sembra suggerire l’idea che il problema del Signore dei Pupazzi sia di fatto il problema di ogni uomo (così come le domande dei replicanti di Blade Runner): chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Il problema di ogni coscienza è capire la propria identità, per scoprire il senso del suo essere al mondo.
Ghost in the Shell è tutto percorso da questo tema, che si articola e si complica con ulteriori elementi che compongono l’intreccio narrativo e costituiscono lo sfondo in cui si muovono i personaggi. Il mondo del maggiore Kusanagi, in cui il Signore dei Pupazzi può assumere una coscienza autonoma e “animarsi” di vita propria, è un mondo in cui naturale e artificiale, reale e virtuale non presentano più confini definiti.
Lo stesso concetto di corpo viene sottoposto a una sorta di revisione concettuale: con i collegamenti neurali di cui si servono i cyborg come Kusanagi diviene possibile in tempo reale (ma appunto, cosa è “reale”? Cosa distingue il “reale” da ciò che è “irreale” o “virtuale”?) ampliare le proprie capacità percettive e cognitive e avere accesso per via diretta alla rete che tutto connette e tutto ingloba, determinando una nuova singolarità, una nuova individualità. Collegandosi alla rete la mente è ovunque e in nessun luogo, vaga libera tra le maglie cibernetiche e varca i confini tra l’identità fisico-psichica soggettiva e la totale omnicomprensività: la parte è nel Tutto, il Tutto è nella parte.
Parallelamente, la materia stessa tende ad assottigliarsi, a rarefarsi, il corpo si decontestualizza, anche l’ambiente in cui muoversi e operare è sempre più insieme di impulsi, luci, schemi elettronici: si trasforma in un universo di segni e simboli, ma questi non rimandano che a se stessi, privati di referenti oggettivi, concreti, materiali.
In quest’universo di immagini e di segni nasce in Motoko anche il bisogno, la necessità, di ritirarsi, di pensarsi, di scendere in profondità. Una delle sequenze più suggestive del film la ritrae mentre riemerge dalle acque della baia di Tokyo, provvista di galleggianti che permettono al suo corpo di titanio di non affondare. “Che sensazione dà nuotare nel mare?” domanda Batò, suo amico e sottoposto. “Ciò che provo è paura, freddo, angoscia. A volte lì sotto provo addirittura speranza” è la risposta d Motoko. Poi prosegue: “Vi sono innumerevoli elementi che formano il corpo e la mente degli esseri umani, come innumerevoli sono i componenti che fanno di me un individuo con la mia propria personalità. Certo, ho una faccia e una voce che mi distinguono da tutti gli altri, ma i miei pensieri e i miei ricordi appartengono unicamente a me e ho la consapevolezza del mio destino. Ognuna di queste cose non è che una piccola parte del Tutto: io raccolgo dati che uso a modo mio e questo crea un miscuglio che mi dà forma come individuo e da cui emerge la mia coscienza. Mi sento prigioniera, libera di espandermi solo entro limiti prestabiliti”. “E’ per questo che nuota con un corpo che può affondare come una pietra? Ma che accidenti vede in fondo all’Oceano?” domanda Batò. “Ciò che vediamo ora non è che una pallida immagine in uno specchio. Presto il velo cadrà, e noi vedremo”, è la risposta, che però viene data da una voce quasi terza per bocca di Motoko, e non si capisce se lei abbia pronunciato intenzionalmente quelle parole. Costituiscono metà di una citazione che verrà ripresa e conclusa solo al termine della vicenda.
Dunque il problema che Motoko avverte sembra essere un problema di limiti da infrangere, da valicare, la sua difficoltà è dovuta al sentirsi limitata, circoscritta, definita da confini che la imprigionano. Ma al contempo dimostra anche il dato imprescindibile che ci permette di parlare di coscienza, dato grazie al quale possiamo dire “io”, un io che possiede una “storia”: la memoria. Senza una memoria l’uomo non si può neppure pensare, immaginare, non può nemmeno sapere di essere. Ma la memoria non si dà forse solo in virtù di un limite con cui essa si confronta?
A questo punto sorge un’ulteriore questione. La possibilità quasi infinita di connessione tra “menti, cervelli e programmi”, l’espansione delle potenzialità e l’allargamento indefinito dei limiti fisici, spaziali e temporali produce un parallelo incremento delle potenzialità del soggetto che ne è coinvolto?
Bisognerebbe forse considerare le cose anche da un altro punto di vista, perché “se non si danno confini e limiti, non si danno territori praticabili e dunque trasformabili, non si dà neanche il Possibile stesso”: il continuo abbattimento delle frontiere e dei limiti imposti dal fisico, cioè, non porta ad un altrettanto continuo sviluppo delle potenzialità d’azione. Al contrario, è vero che solo l’esistenza di limiti e confini definisce un terreno d’azione, delle possibilità, conferisce in altri termini un’identità: e costruisce quest’identità proprio in virtù dei suoi confini, grazie all’esistenza di “barriere” che la determinano in opposizione a ciò che è ad essa esterno, alieno. Solo così essa può ritrovarsi e non perdersi in un ambiente anche virtualmente illimitato. Solo perché inserito in un “guscio” (shell), lo spirito (ghost) si conosce in quanto tale, e non si perde nell’indistinto Tutto. Ma chi può dire che questa sia la sua propria e più “alta” modalità d’essere? Diverse forme di ascesi, tra cui il buddismo, insegnano che solo rinunciando a considerare il proprio “sé” come un’entità autonoma, unitaria e sostanziale si può attingere alla conoscenza della vera realtà. Forse lo stato ultimo a cui aspirano il Signore dei Pupazzi e la stessa Motoko, quando infine si fondono l’uno nell’altra. Motoko pare ritrovare finalmente il proprio centro, o un significato, in questa nuova identità, non più condizionata, finita e determinata come prima: e la sua bocca pronuncia le parole che completano la citazione, lasciata a metà durante la conversazione sulla barca, dopo l’immersione: “Quando ero piccola parlavo, sentivo e pensavo come una bambina. Ma ora che sono una persona adulta non posso più comportarmi in quel modo infantile. E adesso posso dirlo senza l’aiuto di nessuno, con la mia voce. Perché io ora non sono più né la donna conosciuta come il Maggiore, né il programma chiamato Il Signore dei Pupazzi”. Infine il suo sguardo spazia sull’intera città, che le si presenta come un’infinita rete in cui muoversi e trovare la propria strada: “E ora dove andrà quest’essere appena nato? E’ stupefacente l’immensità di questa rete…”
Su queste parole, e sulla vista dall’alto della città piena di luci e di riflessi si chiude il film. Ma la domanda sull’identità resta aperta: una nuova identità è nata, ma come si configura ora, priva dei limiti che prima le erano imposti? E chi è il soggetto che ora dice “io”? Forse è immergendosi nella rete che la “nuova” Motoko troverà una risposta: forse. Solo perdendosi in uno spazio, in un luogo indistinto e senza confini, l’identità può davvero ritrovare se stessa.
Neon Genesis Evangelion: Io mi odio!
Anno 2015: la Terra è stata sconvolta dall’impatto con un gigantesco meteorite (Second Impact) nel 2000 per cui vi sono stati gravi scompensi climatici che hanno causato lo scioglimento della calotta antartica, il successivo innalzamento delle acque e la morte di metà della popolazione mondiale. In questo scenario si muove la battaglia agli Angeli, esseri alieni che giungono sulla terra per ricongiungersi con Adam, vera causa del Second Impact, al fine di divenire esseri completi, cosa che però causerebbe un Third Impact che causerebbe poi la morte degli esseri umani. Per evitare che ciò avvenga è stata istituita la Nerv, sono stati costruiti gli Evangelion (o meglio Eva) e il programma per il Progetto per il Perfezionamento dell’Uomo.
Shinji, figlio del comandante della Nerv Gendo Ikari, viene richiamato a Neo Tokyo 3 dal padre che l’aveva abbandonato anni prima. Ben presto Shinji scoprirà che il motivo per cui è stato chiamato è quello di salire a bordo degli Eva e combattere contro gli Angeli per salvare l’umanità. Gli Angeli che verranno saranno 14 e Shinji, insieme a Rei e successivamente ad Asuka, hanno il compito di fermarli. Ma in realtà cosa sono gli Eva, questi esseri umanoidi che in determinate circostanze entrano in berserk e si animano per conto proprio? E chi sono gli Angeli, da dove vengono e perché vogliono ricongiungersi con Adam? E chi è Adam? Ma soprattutto: perché pilota l’Eva?
Questo è l’intreccio in cui si muovono le 26 puntate di Evangelion e il successivo lungometraggio-finale alternativo, intreccio in cui vengono ricostruiti personaggi assolutamente verosimili e che vede, a fianco di una narrazione assolutamente innovativa e travolgente, lo sviluppo psicologico e sociologico dei protagonisti.
In un’ambientazione che appassiona gli otaku, Hidekaki Anno ha voluto anche sviluppare una sfera concettuale incredibilmente profonda e che si fonde in maniera armonica con la narrazione, in un discorso a tu per tu con lo spettatore, in particolare il giovane giapponese, che ha perso la propria identità e che nutre un dispiacere del vivere.
A parte le innumerevoli citazioni religiose, politiche e sociali che lo rendono un anime perfettamente contemporaneo, a parte l’assoluta minuzia di particolari che non lasciano nulla al caso, di modo che lo spettatore abbia sempre cosciente il procedimento della narrazione (a parte le immense lacune date per incuriosire lo spettatore e indurlo al proseguimento), la particolarità di Evangelion sta nel suo mescolare concettualità e intrattenimento in maniera sublime. Nel protrarsi della serie (26 episodi) si può assistere a una mutazione dell’anime: dato il numero predeterminato di Angeli che dovranno giungere (14) è come se si fosse già a conoscenza di una fine, perché inevitabilmente ci sarà, e quindi man mano che si procede nella storia e che si sconfiggono gli Angeli sembra che lentamente la trama inizi a smontarsi per lasciare più spazio alle caratterizzazioni dei personaggi e ai loro rapporti sociali. Dato che sconfiggendo gli Angeli gli Eva diventano meno importanti nella lotta per l’umanità, si insiste sui personaggi, che si fanno più marcati fino ad arrivare ad essere loro la vera trama: il loro comportamento, il loro relazionarsi. Fino a giungere al finale (contestatissimo dai fan) che lascia perdere la trama primaria (in quanto frutto comunque dell’immaginario) per lanciarsi in una vera e propria discussione filosofico-sociale in cui i personaggi vengono messi a nudo e confrontati tra loro, come a stabilire una sorta di mappa dell’interazione, come a cercare di vanificare l’odio tanto profondo che nutre Shinji (ma anche Asuka, benché in modi diversi) verso di sé e a trasformarlo in un sorriso. E perfino gli Angeli sembra che aiutino in questa “metamorfosi” della serie: i primi sono più “incoscienti”, più violenti e distruttivi, gli ultimi cercano di stabilire un contatto con gli esseri umani, con Asuka prima (arrivando a svelare le sue paure e le sue contraddizioni, causandone un vero e proprio collasso psicologico, soprattutto dopo essere stata ferita nell’orgoglio dal “sorpasso” di Shinji), e con Rei poi (arrivando a svelarne il suo bisogno di un contatto con il mondo e con Shinji, lei ragazza fino ad allora così schiva), per poi concludere con Shinji: qui Kaworu, l’ultimo Angelo, in fattezze umane, stabilirà con lui un contatto di sincera amicizia, arrivando addirittura a dirgli una frase che lui mai aveva sentito prima (“Ti voglio bene”), oltrepassando le barriere del suo carattere introverso e facendolo, per la prima volta, sentire sinceramente accettato, vanificando quell’odio profondo che prova per se stesso. Ma questo è solo effimero, perché quando poi Kaworu svelerà la sua natura, Shinji, sentendosi profondamente tradito lo ucciderà (per dovere, egli è un Angelo, benché non abbia voluto) per poi sprofondare in un’assoluta crisi psicologica.
Shinji è un ragazzo introverso, chiuso, poco socievole e insicuro: questo molto probabilmente a causa del padre, severo e inflessibile, che 10 anni prima lo ha abbandonato a seguito della morte di sua madre Yui (avvenuta peraltro davanti agli occhi di Shinji bambino, nel progetto di attivazione dell’Eva 01). Da qui egli nutre un profondo odio per suo padre e una sorta di apatia del vivere che lo porta a non trovare un senso in ciò che fa, e quindi a nutrire un profondo odio verso se stesso poiché non riesce a sentirsi che inutile.
Ma allora perché Shinji pilota l’Eva? Perché l’Eva è il suo modo per riuscire a trovare un posto nel mondo. L’Eva, in Evangelion, rappresenta l’insieme di responsabilità, difficoltà, dolori e dubbi che tengono legata una persona, ma che possono fare sì che trovi un posto, un ruolo nella società e quindi, di conseguenza, sentirsi (e in fondo essere) accettata. Shinji quindi pilota l’Eva per essere lodato.
Di contro Asuka fa il ragionamento perfettamente opposto: dopo aver assistito in tenerà età al suicidio della madre impazzita decide di abbandonare il mondo e vivere da sola, di crescere da sola affidandosi solo a se stessa e al proprio orgoglio. E allora perché pilota l’Eva? Per dimostrare il suo valore agli altri, per sentirsi superiore. Ma questo ragionamento la porta comunque ad essere schiava degli altri, poiché inevitabilmente ha bisogno di un confronto per poter dimostrare la sua superiorità (e se invece non avesse questo confronto? Avrebbe la prova di essere superiore?): alla fine è questo che la porta ad odiare se stessa, questa sua profonda contraddizione. Quindi anche per Asuka l’Eva rappresenta un insieme di responsabilità, di obblighi e dolori che la portano a stabilire un contatto con il mondo in torno a lei, con gli altri.
Infine vi è Rei: lei, personaggio schivo ed enigmatico che non si dà quasi mai modo di conoscere allo spettatore, lei pilota l’Eva per un sincero vincolo di fiducia con Gendo Ikari, che sente come suo padre. Quindi anche per lei l’Eva è un modo per trovare un posto nella società, per sentirsi accettata, benché i motivi che la spingono siano leggermente differenti dai motivi di Asuka e di Shinji: mentre questi ultimi due impiegano gli Eva per riflettere sugli altri un motivo personale (Asuka per ostentare il suo orgoglio, Shinji per essere lodato) Rei lo fa con una sincera dedizione all’altro, raffigurato qui da Gendo Ikari. Questo lo si può dedurre dall’assoluta fiducia che ha in Gendo, una fede quasi divina.
L’Eva sta quindi a simboleggiare l’insieme delle responsabilità dei giovani, delle loro difficoltà, dati dalla società, dal crescere, dal cambiare: questa sorta di “pellicola” che ci riveste, questa interfaccia (l’ATField in questo caso: la barriera dell’animo, ciò che ci protegge dagli altri per evitarne le sofferenze, ma anche ciò che ci impedisce di entrare in contatto con gli altri per condividerne le gioie) che ci separa dagli altri, ci tiene legati, creando angoscia, paura, odio… ma dà anche modo di entrare in contatto con gli altri… anche se in fondo questo ha un prezzo.
E qui allora sta il Progetto per il Perfezionamento dell’Uomo: racchiudere tutte le entità umane in un solo spirito, perfetto, alfine di sciogliere i dubbi che affliggono l’umanità, sentirsi diversi, sentirsi soli. E per questo odiarsi.
Questi concetti profondi e d’impronta quasi filosofica sono magistralmente inseriti nella narrazione, la quale vede una forte componente attrattiva (l’ambientazione e la trama curatissime, i combattimenti tra gli Eva e gli Angeli, il mistero della Nerv e della Seele, le pergamente del Mar Morto, il Third Impact, Lilith… per non parlare poi del berserk).
Qui, in Neon Genesis Evangelion, comprensione, orientamento e svago sono perfettamente miscelati tra loro, colgono lo spettatore di sorpresa, lo divertono e gli trasmettono una profonda concettualità, mostrando personaggi verosimili, con i suoi stessi problemi (benché nel reale non esista nessun pilota di Eva), i suoi stessi dubbi, le sue stesse paure: i personaggi non sono assolutamente eroi, lo diventeranno non perché salveranno l’umanità, ma perché impareranno a sorridere e a stringere un contatto tra loro.
Ed è qui il vero eroismo: riuscire a superare le proprie paure, il proprio nemico “dentro”, per riuscire ad accogliere l’altro, con un sorriso.
E quindi, “a tutti i Children: congratulazioni!”
Conclusioni. Il mondo in un disegno
La realtà in cui ci muoviamo è un insieme disordinato di fatti, di eventi, che ci coinvolgono, ci traumatizzano, ci fanno perdere nella nostra vita. Il nostro disagio nel non riuscire a trovare in essi un ordine, un senso, ci fa rifugiare in quella che è la narrazione, una sequenza ordinata di eventi, sensata, in cui può esistere un perché. Forse è questo il vero motivo della narrazione: aiutarci a trovare un ordine nei fatti che colgono la nostra vita, o forse suggerirci dei modi per poter mettervi ordine.
Un disegno ci ricorda sempre che la realtà che ci mostra è illusione, finzione, frutto dell’immaginario, ma in questo immaginario noi possiamo riuscire a dare un senso ed un ordine ai nostri pensieri, e dopo aver trovato in essi un significato possiamo cercare di prendere le redini della nostra vita.
Forse è questo che gli anime aiutano a fare: ci tolgono dalla nostra realtà, ci prendono per mano e ci trasportano in mondi altri, lontani, fittizi, in una narrazione diversa, facendoci sognare e dimenticare per un attimo la realtà. Ma non per questo ci fanno perdere nella loro finzione: dolore, gioia, amore, odio, pensieri ed emozioni a noi così familiari e che viviamo giorno dopo giorno, ci vengono mostrati con ingenuità da un disegno, ma non per questo il suo effetto è meno traumatico.
Queste emozioni ci invadono, ci pervadono, ma non ci aggrediscono oltrepassando l’angoscia del vero, e ci colpiscono direttamente nella nostra coscienza.
Forse è questo che fa l’anime: in un mondo lontano, distante, rassicurante, ci ricorda (e forse anche ci insegna) che il nostro mondo è qui che ci aspetta.
Un mondo per capire il mondo.
Bibliografia
Daniele Barbieri, I linguaggi del fumetto, Milano, Bompiani, 1991.
Marcello Ghilardi, Cuore e Acciaio, Padova, Esedra Editrice, 2003.
Melvin L. DeFleur, Sandra J. Ball-Rokeach, Teorie delle comunicazioni di massa, Bologna, Il Mulino, 1995
Siti web
Rossella Di Pietro, http://noemalab.org/sections/specials/tetcm/cinema_animazione_giapponese/intro.html
Wikipedia, immagini e screenshot di Last Exile
Stefano Vecchia, http://www.db.avvenire.it/avvenire/edizione_2006_05_20/articolo_649102.html
Note
- http://www.db.avvenire.it/avvenire/edizione_2006_05_20/articolo_649102.html, articolo di Stefano Vecchia. [↩]
- Daniele Barbieri, I linguaggi del fumetto, Milano, Bompiani, 1991, p. 1. [↩]
- Marcello Ghilardi, Cuore e Acciaio, Padova, Esedra Editrice, 2003, p. 16. [↩]
- Melvin L. DeFleur, Sandra J. Ball-Rokeach, Teorie delle comunicazioni di massa, Bologna, Il Mulino, 1995. [↩]
- Marcello Ghilardi, Cuore e Acciaio, Padova, Esedra Editrice, 2003, p. 173 [↩]
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