Teatro e Multimediale. Breve analisi del rapporto fra il teatro e il mondo digitale
[Elaborato realizzato per l’esame del Corso di Teoria e metodo dei mass media
(prof. Pier Luigi Capucci), LABA, A.A. 2007/2008
Programma del corso (pdf, 68 Kb)]
Teatro e multimedia
Negli ultimi vent’anni i dispositivi multimediali sono entrati nel mondo del teatro e dello spettacolo integrandone i linguaggi visivi. Il Novecento ci ha abituato a stili, poetiche e arti che della contaminazione ne hanno fatto il proprio codice estetico, ma per ora il modo in cui l’avanzamento tecnologico diventa sia evoluzione del linguaggio, sia un’ulteriore modalità di rappresentare il mondo contemporaneo resta ancora da definire. Questo perchè gli strumenti metodologici sono ancora pochi e i casi in cui la tecnologia multimediale viene utilizzata sono frammentari per tracciare una completa analisi storica. Inoltre, come spesso accade, la critica deve usare categorie analitiche e metodologiche mutuate da diversi settori per poter analizzare i vari fenomeni di contaminazione nell’ ambito del teatro.
Facciamo un piccolo passo indietro analizzando il termine Drammaturgia. Questo termine ha assunto nell’arco del Novecento molteplici significati che ne hanno fatto una definizione aperta e piuttosto ambigua, una parola che racchiude vari significati del teatro e che ne riflette l’ evoluzione. Secondo il Battaglia, la drammaturgia è “L’arte di scrivere drammi; il complesso dei precetti che regolano l’ attività drammatica”. Mentre se si prende in analisi l’etimologia della parola, drammaturgia è d’origine greca e corrisponde a drama e dramatikòs che hanno la radice dorica dran (che equivale ad agire), da cui dramatourgòs, che sarebbe il demiurgo dell’ azione (Zanichelli).
Oggi si possono individuare quattro accezioni di drammaturgia: la prima è quella tradizionale e restrittiva, che si riferisce esclusivamente alla parte letteraria del teatro; la seconda è più generale ed estensiva: concepisce la drammaturgia come l’organizzazione artistica degli elementi che compongono lo spettacolo o la performance teatrale. Questa seconda accezione ha attraversato tre fasi importanti: l’utopia dell’opera totale e della sintesi delle arti (da Wagner ad Appia e alle avanguardie del primo Novecento); il teatro di regia (Stanislavskji, Mejerchol’d, Craig), un teatro dove tutti i linguaggi, spazio, luce, movimento, suono, concorrono alla creazione dell’evento teatrale multisensoriale. La parola non scompare dalla rappresentazione, ma il suo ruolo è notevolmente ridimensionato e soprattutto muta di senso. Il testo teatrale diventa simile ad una partitura, dove le parole interagiscono con le altre forme d’espressione; l’happening e la performance (dagli anni Cinquanta con Cage, Cunningham, Kaprow, ecc.) e la nuova avanguardia degli anni Sessanta – Settanta, che si sviluppa in una visione totalizzante di regia d’autore (da Kantor a Mnuochkine, da Ronconi a Wilson), e che in larga parte si ispira alle idee di Artaud, prendendo però percorsi molto diversi. In questo caso gli autori, quasi tutti con esperienza di regia, portano alle estreme conseguenze la scrittura drammaturgica, ripensandone il senso e le forme e fondando il canone drammaturgico moderno. Per tutti questi autori il testo è portatore di una nuova concezione teatrale.
L’ opera di Samuel Beckett segna la crisi definitiva del “dramma”, con lui, la scrittura teatrale si scarnifica fino all’estremo, all’ essenza, si riempie di silenzi e paradossi , segna l’ apocalisse della comunicazione e del linguaggio. Inoltre la scrittura di Beckett si apre ai nuovi media del cinema, della radio e della televisione.
Un’ accezione più tecnica e professionale di drammaturgia è invece quella che si lega alla pratica reale del rapporto tra testo e scena articolandosi in quattro tipologie:
1) il drammaturgo/regista, il regista è anche autore del testo o di un adattamento;
2) la drammaturgia collettiva, tipica delle compagnie del teatro di ricerca;
3) il drammaturgo puro, che affida il suo testo teatrale al regista;
4) ancora in via sperimentale è la drammaturgia multimediale, intesa come una scrittura di un testo per uno spettacolo che utilizza le nuove tecnologie audiovisive, digitali e interattive.
Questa pratica ha le sue radici nella nuova drammaturgia novecentesca che ha cercato di integrare il linguaggio filmico al testo teatrale e che poi riprende slancio dagli anni Ottanta, con l’uso del video in teatro e poi con il teatro tecnologico. Prendendo in esame quest’ultimo punto, che negli ultimi anni ha avuto un notevole sviluppo, bisogna cercare di capire come il multimediale interagisce con il teatro, le varie forme di collaborazione si collocano all’incrocio di due strade diverse: da un lato si può sviluppare la possibilità che lo spettacolo vada a costituirsi come un evento di massa, secondo un percorso già iniziato dal teatro in televisione, in questo modo la divulgazione sarà fatta ad un pubblico vasto ed indistinto. Dall’ altra parte, alcuni esperimenti ricercano la qualità e individuano un limitato gruppo di spettatori con i quali relazionarsi.
Nel primo caso si corre il rischio che l’opera teatrale trasferita in altro contesto, inevitabilmente modifichi il proprio linguaggio. Esiste già un teatro per il video che ha costruito nel tempo un proprio stile, per esempio le produzioni RAI delle commedie di Edoardo De Filippo e guardandole sappiamo di trovarci di fronte ad un rifacimento per il nuovo mezzo, ma tutto ciò appartiene all’ ambito della traduzione e della trasposizione (anche multimediale); riguarda la possibilità di documentare, riprodurre, commercializzare un evento che è già accaduto e soprattutto non va oltre i problemi già posti negli anni Ottanta.
Diverso dal “teatro per il video” è il videoteatro, difficilmente inseribile in un genere a causa della sua natura ibrida. Spesso è stato tralasciato dai critici sia della videoarte, i quali dedicano spazi marginali al rapporto fra teatro e video, sia da quelli del teatro contemporaneo i quali si limitano a osservare come questo filone rientri nel campo delle arti visive propriamente dette. Con il termine videoteatro si è andato genericamente a definire sia la produzione videografica d’ispirazione teatrale legata a uno spettacolo, sia creazioni completamente autonome (videodocumentazioni, biografie videoartistiche), sia produzioni di teatro televisivo (le sperimentazioni televisive di Luca Ronconi, Carlo Quartucci, Carmelo Bene e Mario Martone).
Videoteatro è soprattutto performance tecnologiche o spettacoli teatrali che utilizzano l’elettronica in scena.
Ad andare in questa direzione è soprattutto il teatro della post avanguardia italiana, che accentua le caratteristiche antinarrative e visionarie inaugurate dal teatro – immagine: quella degli anni Ottanta sarà la generazione multimediale che creerà una consapevole circolarità tra le due dimensioni espressive: video e teatro, elaborando personalmente o con l’ aiuto di videomaker professionisti anche creazioni video autonome dagli spettacoli, clip brevi o brevissimi dando vita ad una vera e propria estetica della sintesi (Socìetas Raffaello Sanzio, Valdoca, Motus, Studio Azzurro).
Se poniamo in primo piano l’esigenza di sondare le possibilità estetiche di un teatro che si integri con i linguaggi multimediali, è necessario condurre il nostro studio nell’ ambito dell’ evento e non della sua riproduzione.
Teatro, cinema e video, costruiscono i propri significati mediante la rappresentazione di azioni. Uno spettacolo, di qualsiasi genere sia, dice il proprio testo con le azioni: pone allo stesso momento il livello locutorio (quanto viene detto, il senso potenzialmente prodotto dal testo) e il livello illocutorio (l’azione che si compie esprimendo qualcosa: promessa, minaccia, ecc.). Il multimediale digitale opera nello stesso modo: rappresenta con azioni, ma le rappresentazioni digitali esasperano la separazione dal reale fino ad una totale autoreferenzialità, addirittura ciò che osserviamo sullo schermo del computer può non avere alcuna relazione con il mondo reale, se non di simulazione ma in tal caso è forte la componente interpretativa più che significativa.
Quando si osserva un mondo costruito attraverso la grafica tridimensionale non esiste nessun oggettivo referente alle spalle se non l’ idea del creatore, non si può nemmeno supporre una relazione distante fra ciò che vediamo e quello che veramente esiste. Prendiamo come esempio l’osservazione di un albero in televisione: guardando l’albero all’ interno della scatola televisiva potremmo cogliere un significato dato dal contesto in cui si trova, ma non possiamo dimenticare che quell’albero “è stato” in qualche altro tempo e altro luogo, cioè facciamo in modo implicito un’ operazione di rappresentazione della distanza. Se, invece, osserviamo nel computer l’immagine di un albero, quell’immagine è un evento in quanto prende forma nel momento in cui lo osserviamo; questo accade perchè uno speciale script vrml (acronimo di uno dei linguaggi per disegnare simulazioni di ambienti tridimensionali in cui navigare liberamente), sarà letto all’ istante dal plug-in necessario, così da generare ciò che guardiamo, al di fuori di qualsiasi referenzialità. L’albero è in quel momento e in quel luogo, il computer non mostra oggetti ma genera il nostro stesso sguardo, poiché avviene unicamente nella polarità fra oggetto e soggetto, è un atto interpretativo: la cosa prende la sua forma apparente solo davanti ai nostri occhi.
Una simile autoreferenzialità è altrettanto insita nel teatro: l’attuarsi nel qui e ora dello spettacolo teatrale impedisce, o rende minima, quella rappresentazione della distanza di cui si è parlato per gli audiovisivi. Lo spettacolo, anche se fa riferimento a luoghi o fatti lontani o immaginari, accade sempre nel momento in cui noi vi assistiamo. “Gli attori e la scena generano l’evento qui e ora, uno spettacolo esiste ogni volta che lo si vede, non è una rappresentazione secondaria di un qualcosa di primario ma rappresenta se stesso, è se stesso” (Peter Szondi).
All’ interno di questa polarità dei media, divisi secondo la rappresentazione della distanza dall’oggetto preesistente, il lì ed altrove dell’immagine riprodotta, e l’assenza di tale distanza, il qui ed ora, la realtà virtuale, la computer graphic e le altre rappresentazioni digitali appartengono a quest’ultimo lato del polo, insieme al teatro e in termini più generali alla performance.
Naturalmente, tali premesse, pur evidenziando delle similitudini fra teatro e virtuale, non può essere accettata come verità assoluta perchè l’attuale avanzamento della ricerca in questo settore appare frammentaria e mancano ancora studi specifici sullo spettacolo e il digitale, ma possiamo analizzare come le caratteristiche del mezzo digitale permettano allo spettacolo teatrale di arricchirsi di nuovi spunti.
L’ evento teatrale è sostanzialmente un atto interpretativo che acquisisce valore solo all’interno della cornice in cui avviene. In quanto fondato sulla relazione attore – pubblico, il teatro avviene sempre all’interno di particolare coordinate politiche e sociali, non può essere astratto dalle specifiche condizioni economiche e dall’evoluzione tecnologica e proprio quest’ultima appare legata alla pratica teatrale. In molti casi la tecnologia è legata alla scenotecnica e non costituisce un elemento fondamentale del progresso del linguaggio, in altri casi la presenza di dispositivi meccanici ha assunto caratteri di una vera e propria rivoluzione estetica ( Futurismo).
L’idea di utilizzare una tecnologia extrateatrale per potenziare la macchina scenica precede l’invenzione del video e si affaccia sin dagli albori del cinema. Il cinema induce anche una duplice trasformazione nella drammaturgia: da una parte gli attori teatrali interiorizzano le innovazioni linguistiche del cinema, soprattutto le scansioni e i salti temporali del montaggio, all’interno della loro scrittura ( es. Arthur Miller, Samuel Beckett ); dall’altra parte iniziano a pensare all’integrazione dell’immagine cinematografica già nella costruzione del testo (fra i precursori i futuristi).
Questo duplice filone si sviluppa con l’arrivo del video.
L’immagine video in scena è stata uno degli elementi caratterizzanti della ricerca teatrale degli anni Ottanta ed è entrata molto più facilmente del cinema nel codice teatrale, anche per maggior economicità e flessibilità del medium.
Sia negli spettacoli teatrali, sia nella danza, l’utilizzazione del video è presto diventata una pratica abbastanza usata della messa in scena. La tendenza più diffusa è stata quella di inserire la produzione video nello spettacolo in funzione prevalentemente scenografica o alla ricerca del puro effetto spettacolare. Questo uso del video in molti casi riflette una concezione riduttiva del rapporto fra scena reale e scena virtuale, in alcuni casi rievoca addirittura i fondali dipinti del teatro ottocentesco. Sostituire all’architettura scenografica o integrare in essa uno schermo con immagini animate non costituisce infatti, necessariamente, l’ apertura di una nuova dimensione comunicativa ed espressiva per il teatro, ma piuttosto rischia di appiattire quest’ ultimo su un modello di fruizione televisiva.
A queste simulazioni di un’innovazione del linguaggio vi sono delle alternative, che spostano l’ uso delle immagini video o digitale dal momento della messa in scena al momento dell’ idea drammaturgica. In realtà, i due momenti s’ intrecciano continuamente, è proprio questa la caratteristica della ricerca drammaturgica sulle nuove tecnologie non voler e non poter prescindere dalle sperimentazioni sulla scena. La differenza sta nel ruolo che si attribuisce alle immagini video o digitali in scena, che diventano elementi costitutivi del testo drammaturgico e non solo elementi integrativi della messa in scena. Per capire meglio è utile fare qualche esempio, anche se non esaustitivo, di alcuni episodi emblematici: in Italia, Magazzini Criminali, con la regia di Federico Tiezzi, introducono il video in scena fin dal 1979, in Punto di rottura, dove quattro monitor sezionano lo spettacolo, isolandone le azioni e i particolari; in Come è (1987) l’ attore riprende se stesso, in una speculiarità straniante e narcisista del proprio corpo recitante.
Robert Wilson negli anni Ottanta e il regista canadese Robert Lepage nel decennio successivo sono forse fra i più significativi esploratori teatrali di una nuova poetica tecnologica.
Wilson cerca il superamento dei vincoli spazio – temporali con due grandiosi progetti teatrali, The Civil Wars e Die Goldenen Fenster, la cui idea fondante è l’ allestimento in cinque nazioni diverse delle cinque parti di cui si compone ciascuno spettacolo e la loro ricomposizione televisiva, da trasmettere via satellite in tutto il mondo.
Lepage sperimenta invece la scena come un montaggio di visioni tecno – teatrali, tramite specchi, diapositive, film e soprattutto video (registrati e in diretta), ma il suo progetto nasce a partire dalla costruzione del testo drammaturgico, sempre in progress.
In questa prospettiva di drammaturgia multimediale, di cui ho citato solo pochissimi esempi, in questo scenario aperto sul futuro, si assiste anche al cosiddetto ritorno al testo e alla rivalutazione degli ambienti specifici dell’arte scenica. Questo “ritorno”, praticato da molti protagonisti della ricerca degli anni Settanta e Ottanta, ha un senso che va pienamente compreso per non incorrere nella semplicistica opposizione fra teatro di ricerca e teatro di tradizione. Un alto esempio di ciò è il grande regista Luca Ronconi, protagonista dagli anni Settanta dell’ innovazione teatrale non solo italiana e da sempre impegnato in complessi adattamenti drammaturgici di testi letterari spesso giudicati inrappresentabili.
Nel contemporaneo le mutazioni ipermediali della scena procedono nella direzione di un progressivo coinvolgimento dello spettatore nel processo della creazione artistica e la mutazione genetica dello spazio in un ambiente che non è più luogo neutro contenitore di eventi, ma spazio sensibile, estensibile, modellante e modulabile. Questa mutazione, che coinvolge il divenire di tutte le arti, ha sulla scena delle ripercussioni lente ma sicuramente irreversibili che procedono nella direzione di una perdita della frontalità spaziale, della linearità temporale del testo spettacolare e nella conseguente apertura nella nuova dimensione di un ambiente ipertestuale.
Un ambiente che deve essere programmato, quindi scritto con un linguaggio interattivo dove parole, suoni e azioni si configurano mediante la generazione potenzialmente illimitata d’interfacce.
Un altro aspetto fondamentale di questa trasformazione riguarda il processo creativo della scrittura drammaturgica, in cui viene superata la tradizionale separazione tra la fase progettuale del testo e le fasi di visualizzazione e sonorizzazione dello stesso: il modello ipertestuale consente di lavorare contestualmente sui diversi linguaggi, attuandone così un approccio multimediale.
Fino ad ora si è parlato di multimedialità teatrale nell’accezione in cui essa è scenografia ma soprattutto parte della drammaturgia e dell’estetica teatrale. Non dobbiamo dimenticarci che nel mondo audiovisivo l’ingresso della tecnologia della realtà virtuale ha rivoluzionato il sistema produttivo, trasformando professioni e modalità lavorative. Oggi la scenografia virtuale è in grado di creare qualunque ambiente tridimensionale, per esempio la ricostruzione di siti perduti quali il teatro La Fenice o il Colosseo. Il risultato più innovativo nell’applicazione della progettazione digitale della scenografia è il virtual set: scenografia sintetica progettata al computer mediante la tecnologia della realtà virtuale, che sostituisce il tradizionale spazio scenico costruito, questo per quanto riguarda la cinematografia.
Attualmente le sperimentazioni del linguaggio scenografico Virtual Reality (VR) in teatro si basano principalmente sull’ idea di fondere spazio reale e attore fisico nell’ ambiente virtuale. Nel linguaggio scenografico si traduce in diversi tentativi di immettere lo spettatore nella VR attraverso l’uso di schermi e proiezioni in una relazione integrata con drammaturgia, regia e utilizzo della luce. Poiché l’immagine digitale vive nella percezione dei pixel che si posano su una superficie, la principale difficoltà della scenografia è di materializzare l’immagine nello spazio tridimensionale dando un senso unitario e un’ affermazione artistica allo spazio virtuale dello spettacolo.
Il linguaggio contaminato fra spazio teatrale e immagine filmica trova interessanti precedenti nelle applicazioni dello scenografo Jofef Svoboda. Egli è un riferimento per gli scenografi virtuali contemporanei e questo perchè trattava la materia visuale dall’interno della narrazione, rivelando la funzione interpretativa più che decorativa della scenografia: la modalità interattiva con cui egli utilizza i mezzi tecnici al servizio del linguaggio drammaturgico nella creazione di scenografie fluide di compiuta immersione percettiva. Il senso narrativo coincide con il senso della percezione spaziale in una sorta di anticipazione dell’ essenza di significato che dovrebbe avere oggi il real time (modalità di realizzazione di un prodotto in diretta senza la necessità di post-produzione o finalizzazione).
Il set di Svoboda evolve in sequenze di configurazioni che seguono il ritmo delle emozioni utilizzando mezzi flessibili per la creazione di prospettive multiple. Similmente alle contemporanee tecniche cinematografiche, unisce in un linguaggio interattivo il set live e il set virtuale.
In sostanza, il teatro all’italiana (set live costituito da pavimento, soffitto, portale, palcoscenico e platea), che determina lo spazio drammatico e ne definisce i limiti, viene integrato con il set virtuale, definibile con punto di vista, prospettiva, spazio dell’ immagine e dell’ immaginario. Alla struttura architettonica teatrale, Svoboda, unisce l’immagine virtuale che esplora con materiali che esprimono “il dentro dello spazio”: superfici speculari, proiezioni e televisioni a circuito chiuso, uso creativo della pellicola e della luce.
L’uso delle immagini in teatro presenta esempi che spaziano in varie forme di spettacolo.
Il mondo della danza si è rivelato particolarmente innovativo nell’esplorazione dei nuovi territori virtuali. Più di vent’anni fa Merce Cunningham immagina una tecnologia informatica capace di visualizzare una coreografia al computer (si tenga presente che allora non esisteva una tecnologia per creare figure in 3D).
Nel 1989 Cunningham crea una nuova coreografia con il programma Life Forms che permette di progettare idee di movimento nello spazio e nel tempo con un’interfaccia grafica interattiva. Cunningham ha creato molte coreografie con questo sistema, stimolando le frontiere cognitive dell’immaginazione nel mondo della danza e dell’informatica. Egli stesso si è spinto nelle coreografie di Ghostcatching! e Biped (entrambi del 1999) a inserire in scena proiezioni delle figure elaborate per il progetto coreografico, in motion capture: lo spazio così ottenuto crea una relazione integrata fra il corpo fisico del danzatore e le figure stilizzate generate dal computer. Le figure rappresentate con segni grafici in movimento, rallentano o accellerano la dinamica dell’azione ed evidenziano in un flusso pittorico i dettagli della danza. Lo spettatore, in questo modo, ha una visione dello spazio su diversi livelli: la proiezione su quinte, fondali e cieli della quadratura del palcoscenico, permette la percezione multipla, scorporata in obbiettivi focali. Contemporaneamente si può godere della visione globale e al contempo percepire ogni singolo movimento della danza nelle diverse profondità di campo del palcoscenico. Il movimento delle figure grafiche del corpo umano progettate per la coreografia diventano il tracciato scenografico dentro il quale il corpo fisico agisce e danza relazionandosi con la sua stessa dinamica codificata di gesti pittorici in successione cromatica. Il risultato è una danza spaziale senza percezione di confine.
Su questo territorio virtuale preceduto da Svoboda e inaugurato da Cunningham, si incrociano diverse sperimentazioni emblematiche: dalle sperimentazioni condotte dallo scenografo Marc Reaney, alle configurazioni spaziali create da Paolo Atzori, Studio Azzurro e la Fura dels Baus.
A partire dal 1987, lo scenografo M.Reaney inizia ad utilizzare la computer grafica per l’ allestimento scenografico, fino a giungere alla programmazione di ambienti virtuali per la fase illustrativa con il regista e nel 1993 arriva ad un primo esperimento di simulazione proiettando il modello scenografico digitale direttamente all’ interno della cornice del boccascena e immaginando poi una scenografia virtuale tridimensionale direttamente sul palcoscenico. Seguono varie sperimentazioni e proprio nell’ottica delle scene digitali si innesta la figura di Paolo Aztori, particolarmente rigoroso nell’ articolazione di scenografie elettroniche e nelle concezione di uno spazio scenico integrato nel processo creativo della messa in scena. La scenografia si costituisce in una dimensione “altra”, dotata di infrastrutture proprie, adatte al nuovo linguaggio della rappresentazione, che mutuano gli elementi delle precedenti strutture scenotecniche. L’orizzonte percettivo sfonda la prospettiva ordinaria oltre il boccascena, per affermare la simultaneità di diverse percezioni, tra reale e immaginario. Lo stesso intento si percepisce nella ricerca di Studio Azzurro. In The Cenci (1997) una larga area a forma di croce irrompe nella visione del pubblico: il palcoscenico si attiva in immagini video con valenza narrativa parallela alle parole degli attori e alla musica.
La coincidenza fra reale e virtuale si vede anche nello spettacolo XXX della Fura dels Baus, che va a creare una particolare coincidenza e dissolvenza tra immagine proiettata e azione reale.
Dall’esperienza fatta sul campo seguendo il lavoro gruppi teatrali, artisti, Festival del teatro e studiando varie materie più o meno inerenti allo spettacolo ma indispensabili per capire e lavorare in un ambito così vasto e ricco di materiali, come per esempio la percezione visiva, ho potuto constatare, secondo una mia personale opinione, che l’ uso di video sulla scena deve esser supportato da una profonda conoscenza non solo del multimediale ma soprattutto della percezione a 360° (vista, suono, tatto), perchè altrimenti c’è il rischio che lo spettatore non abbia un idea armonica dello spettacolo e ne percepisca solo delle parti che risultano frammentarie e disgreganti.
Un video troppo invasivo se non supportato da una messa in scena forte in ogni sua parte, diventa una sorta di assolo che oscura la recitazione, viceversa un video debole risulta nullo sulla scena.
Nelle pagine seguenti ho scelto alcuni artisti che, conoscendo e approfondendo il loro lavoro, possono aiutare a comprendere la ricerca del multimediale nell’ambito dello spettacolo.
La prima scheda è dedicata allo scenografo Josef Svoboda e al suo lavoro di ricerca prima dell’era multimediale.
La seconda scheda cerca di affrontare, attraverso il lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio, il problema della documentazione, della riproducibilità filmica di un evento teatrale.
La terza e ultima scheda è dedicata ad un gruppo teatrale che sposta continuamente il proprio lavoro fra teatro, video e cinema: i Motus.
Josef Svoboda e la Lanterna Magika: il “pioniere” della scena virtuale
La Lanterna Magika viene inaugurata in occasione dell’ esposizione universale di Bruxelles, 1958.
Con essa nasce una specifica forma di spettacolo teatral – cinematografico di interazione fra azione dal vivo e immagine filmica. Svoboda inventa il polyécran, un sistema di multischermo articolato nello spazio scenico in forme quadrate e trapezioidali. Il pubblico percepisce le immagini globalmente in una sorta di pre-realtà virtuale con immagini filmiche fisse e mobili inviate da sette proiettori cinematografici e otto per diapositive, gestite da un sistema tecnico di circuito memorizzante che comanda tutte le funzioni dello spettacolo in sincronia con il suono.
In seguito al successo di quest’esperimento, Svoboda evolve il sistema per l’esposizione universale di Monréal elaborando un complesso audiovisivo che chiamerà “multivisione”. Figure in fasci di luci rotanti vengono proiettate su cubi, prismi e superfici piatte in un movimento catturato da specchi inclinati verso gli spettatori. Un mosaico di 112 quadrati in doppia proiezione, la scena a mosaico produce 160 variazioni d’immagine e ha la potenzialità di modulare la profondità di campo visuale avanzando o arretrando sul palcoscenico: “Lo scopo era di creare immagini intere, ma nello stesso tempo di disintegrare la superficie di proiezione ricomponendola poi in un modo diverso e rendendo evidente anche il rilievo”. (J. Svoboda, I segreti dello spazio teatrale).
L’allestimento di multivisione è stato progettato dallo scenografo trent’anni prima dell’utilizzo della tecnologia digitale, ma il contenuto scenografico resta l’ idea innovativa delle elaborazioni spaziali di Svoboda. Non solo fondale e proiezioni su schermo che rievocano troppo un passato di scenografie dipinte, ma l’inserimento dell’immagine virtuale deve prevedere una progettazione di strutture sceniche concepite tridimensionalmente per ricevere l’ immagine e superare la proiezione bidimensionale, in una nuova concezione scenografica di realtà virtuale (VR) che fonde spazio reale (set live), pixel (proiezione), attore fisico per la creazione dell’ ambiente virtuale (set virtuale).
In un teatro, la sperimentazione è paragonabile a un intervento su un corpo vivo, dove l’ organismo è già perfettamente assestato. Un esperimento di tecniche nuove scombussola le strutture convenzionali, e può provocare situazioni paradossali, in contrasto con la logica dello spettacolo. Se si cambia un elemento fondamentale si verifica la solita reazione a catena: bisogna cambiarne un altro e un altro ancora…
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Ci sono ondate di vera e propria moda: il multischermo e i sipari luminosi, il gioco delle ombre dietro al velo di tulle, il triangolo blu come orizzonte, oppure le scale che finiscono nella buca dell’orchestra, allungandosi dal palcoscenico……..
Insomma, la moda non risponde alla logica dello sviluppo, che forse nemmeno contempla; non ha una meta, una prospettiva futura: è solamente un ricambio di stile.
(J.Svoboda, I segreti dello spazio teatrale)
Da queste poche parole di Svoboda si capisce quanto sia importante la sperimentazione nell’ ambito del teatro e soprattutto quanto sia di vitale importanza, per non cadere nel banale, tener sempre presente l’insieme delle parti che vanno a definire uno spettacolo.
Ciò che egli afferma a riguardo della moda, dell’aridità e ripetitività che essa porta nell’ ambito teatrale, è facilmente visibile nel contemporaneo: ci sono poche compagnie che sperimentano e crescono attraverso un linguaggio multimediale, molte che seguono la moda e mettono in scena il video nelle sue svariate forme ma in modo “piatto” che non “racconta” nulla di nuovo o stupefacente. Svoboda ha anticipato molte delle cose ancora visibili nei teatri contemporanei e il non rinnovarsi, ricercare nuove soluzioni, non mettersi in discussione, fa si che la scena sia piatta, statica e senza alcun valore aggiunto anche se farcita di immagini, videoproiezioni e filmati in movimento.
Socìetas Raffaello Sanzio “Tragedia Endogonidia”: documento o parte integrante dell’opera?
La Tragedia Endogonidia di Romeo Castellucci (2002-2004) è un’ opera unica formata da undici episodi. Ognuno di questi fa capo ad una città di cui prende il nome.
Oltre ai vari spettacoli che hanno girato varie città europee, è stato fatto un cofanetto con al suo interno un libro, un CD musicale (colonna sonora dei vari episodi) e 3 DVD. Interessante è ciò che dicono il regista Romeo Castellucci e i due artisti, Carloni e Franceschetti, a cui è stata affidata la realizzazione filmica degli eventi, dato che nella prima parte della mia ricerca si è parlato della riproduzione filmica di eventi teatrali.
L’ idea strutturale di fondo è quella di un opera in continuo cambiamento per scissione. Si tratta di un sistema di rappresentazione che, come un organismo, si trasforma nel tempo e nella geografia dei propri spostamenti. La forma prodotta non è un’opera chiusa, e neppure un frammento di un’opera: il principio che genera e collega gli Episodi è quello di un’auto generazione; l’ organismo che ne deriva è dunque, in un certo senso, perenne.
……………
Le città rappresentano la gravità che la geografia condivide con la storia. Allora lo spostamento di posizione sarà il vero tema dello spettacolo, come le differenti fasi di una vita animale: e la generazione di particelle autonome, come spore vegetali, determineranno la crescita di oggetti spettacolari autonomi, che vivono oltre la rappresentazione.
La collezione di questi DVD, con il Cd musicale incluso, costituisce una di queste spore. (Romeo Castellucci)
Dal discorso riportato dello stesso regista possiamo immediatamente capire che i filmati non sono considerati “documentazione” di un fatto accaduto ma essi sono parte integrante di ciò che è accaduto e continua ad accadere ogni volta che qualcuno guarda il video. Lo schermo del televisore diventa il computer che nell’istante in cui noi vi guardiamo esso crea la nuova immagine, ovvero: tecnicamente riproduce un filmato di qualcosa fatto in altro tempo e altro luogo (televisore), ma dovendo tener presente ciò che ha dichiarato colui che ha pensato, scritto e messo in scena gli episodi, la Tv si trasforma nel computer che crea “ora e in questo luogo” l’ immagine video e il filmato da documento diventa parte integrante dell’opera teatrale.
Carloni e Franceschetti hanno seguito ogni episodio e lo hanno ripreso con le loro telecamere. L’intento condiviso non era quello della documentazione, né di una sorta di backstage, ma quello di un’esuberanza dei sensi e delle immagini che popolano la Tragedia Endogonidia, secondo un travaso di densità emotiva e percettiva che gli artisti hanno perfezionato in fase di montaggio. (Romeo Castellucci)
Questo tipo di lavoro può comunque risultare ambiguo e per molti rimanere solamente la documentazione dell’ evento teatrale.
Alla domanda: “In che modo affrontate la fase di montaggio?”, Carloni e Franceschetti rispondono “Il video rispetto al teatro, così come il teatro rispetto alla vita, deve evitare la possibilità di diventare un filtro per mettere al riparo lo spettatore o per mediarne la responsabilità di esserlo. A teatro lo sguardo dello spettatore viene diretto mentre nel video viene a coincidere, ma in entrambi i casi l’ osservatore deve rimanere esposto come presenza interrogata.” (da “Lo sguardo del fantasma e la memoria della scena”, intervista a C. Carloni e S. Franceschetti a cura di Annalisa Sacchi)
La dichiarazione dei due artisti sottolinea come il filmato sia pensato e voluto come parte dell’ opera teatrale e non documento filmico. In questo caso il regista pensa all’interno della sua opera teatrale alla realizzazione di un filmato che non sia semplice documentario ma faccia parte della drammaturgia dell’ opera multimediale.
Motus: installazioni video / teatro / cinema
Motus è uno dei gruppi di punta della cosidetta generazione Novanta, o terza ondata, fenomeno esploso agli inizi degli anni Novanta in spazi underground, in circuiti alternativi, extrateatrali decentrati in centri sociali o spazi occupati. Si impongono per il forte impatto visivo e la carica trasgressiva: Motus, Fanny e Alexander, Teatrino Clandestino e Masque Teatro, sono quattro gruppi romagnoli cresciuti sulla scia di Socìetas Raffaello Sanzio e Albe-Ravenna Teatro. E’ un teatro legato ad un vero culto dell’immagine che si esprime in una poetica dall’eccesso di visione: una visione mediatizzata (televisione, video, cinema, pittura e fotografia) si accompagna ad un ossessiva indagine sulle tematiche di un corpo mostrato, violato, nei suoi aspetti estremi di violenza e di sesso. Con le loro installazioni, performance e spettacoli, i Motus richiamano Warhol, Bacon, DeLillo, Cocteau, Abel Ferrara,Gus Van Sant. Le loro strutture sceniche sono territori di confine.
Per capire meglio, farò alcuni esempi del loro lavoro :
Catrame (1996)
Un grande contenitore nel quale vi è chiuso l’attore quasi completamente nudo. Le immagini diventano psicadeliche, luci forti e cromie acide, mentre intorno il buio nel quale sprofonda ed emerge la scatola/prigione.
Analizzando l’ambiente in cui si svolgono le azioni è possibile vedere alcuni riferimenti ad artisti come Bacon. La struttura essenziale nella quale si svolge la performance è costituita da dei tubi metallici che costruiscono una gabbia (fig.1), poi chiusa dal plexiglas trasparente tranne che la parte posteriore e il pavimento. La struttura è un parallelepipedo, un solido geometrico che lascia vedere ciò che accade al suo interno, mentre il corpo in movimento diventa sfocato, sofferente. Se si mettessero vicini un fotogramma della pièce e un dipinto di Bacon (fig.2), potremmo vedere come sia simile il concetto di corpo e spazio. Il corpo in continuo movimento all’interno dello spazio /gabbia sembra si disgreghi, viene completamente rimodellato.
In questo lavoro dei Motus il suono e la musica sono fra gli elementi più importanti,assieme alla luce, sembra siano loro a scolpire il corpo, a deformarlo, inseguirlo. Il movimento stesso dell’attore è incalzato dai suoni. Il corpo trasgredito rimane oltre il plexiglas e lo spettatore è coinvolto in quello spazio chiuso proprio attraverso il dilatarsi dei suoni e delle luci.
O.F. ovvero Orlando Furioso (1998/99)
“Orlando Furioso diviene oggetto d’analisi,passato al bisturi dell’ossessione per il tempo scenico:non è una messa in scena dell’Orlando Furioso”,non ci interessa la rappresentazione,ci interessa l’esecuzione,il processo mentale tramite cui entriamo in un argomento,un testo,un poema epico (è la prima volta che lavoriamo su un opera del genere) e lo sventriamo.
Ci sono pochi nodi che fondamentalmente ci assorbono nell’Orlando,al di là della struttura dello scritto,circolare,labirintica,dislocata su “mille piani” di senso,che già di per sè è fondamentale input alla composizione:quello che ci affascina è l’ossessione unilaterale,assolutistica, maniacale di Orlando per Angelica, donna fredda,crudele,calcolatrice,irraggiungibile.
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L’ossessione di ricostruire continuamente le scene, i “quadri” del poema,i punti focali in cui Angelica pare esistere, modificandoli di volta in volta, intervenendo sulla composizione delle immagini, come l’Ariosto/regista scriveva e riscriveva gli stessi versi per cercare l’acme irraggiungibile della perfezione: diverrà questa l’unica,vera messa in scena a nudo dei processi compositivi del teatro stesso.
La struttura scenica è allora anch’essa elemento drammaturgico: una grande, vorticosa piattaforma ruotante: circo, giostra d’esposizione atroce degli eroi/eroine del poema, in ieratiche pose pittoriche…luogo di vertiginose battaglie e patetiche relazioni amorose….pedana circolare posta al centro di una Croce di passerelle sopra elevate, che amplificano il frenetico passaggio dal moto alla stasi, al moto,alla stasi…della complessa “meccanica del desiderio” del poema.” (Motus)
Ho riportato frammenti di un discorso dei Motus perchè aiuta molto a capire l’estetica dello spettacolo. Analizziamo innanzi tutto lo schema della scenografia o meglio il complesso spazio nel quale gli attori prendono vita (fig. 3), poi alcune immagini della messa in scena vera e propria (fig. 4).
Lo spettacolo teatrale aveva come scenografia uno spazio rialzato a croce e al centro una piattaforma circolare rotante, inoltre la parte più arretrata della croce rispetto al pubblico era di colore bianco e nella parte centrale vi era l’immagine di un dipinto di Tiziano (Venere d’Urbino), mentre la parte più avanzata era in plexiglas trasparente, in questo modo il pubblico vedeva ciò che accadeva all’interno. Nel video che è stato realizzato successivamente la situazione è leggermente diversa, la struttura rimane la stessa ( a croce con piattaforma circolare rotante), tutte le pareti sono bianche e la struttura portante è in tubi di metallo neri, rimane l’immagine della Venere di Tiziano in uno dei quattro bracci.
Questo lavoro è stato presentato in vari modi: spettacolo teatrale, video e performance.
La performance è ispirata al lavoro d’Orlando e stata presentata nello spazio della Galleria Vittorio Emanuele a Milano: una grande struttura circolare all’interno della Galleria con delle fessure a distanza regolare dalle quali il fruitore può guardare cosa succede all’interno (fig. 5). Il primo pensiero va agli studi sul movimento fatti alla fine dell’800, inizi ‘900, quando una serie di foto o immagini che riproducevano la sequenzialità di un movimento venivano disposte all’interno di una sorta di ruota e poi veniva fatta girare. Il fruitore che da una fessura guardava all’interno aveva la percezione del movimento della figura e non la staticità di ogni singola immagine. In questo caso il movimento è amplificato perchè all’interno della struttura gli attori si muovono sopra una pedana girevole in continuo movimento.
E’ molto interessante questo tipo di lavoro multimediale nel quale i Motus concepiscono non solo uno spettacolo teatrale ma altre versioni del lavoro stesso, così il video della performance diventa documento, mentre il video vero e proprio rimane lavoro autonomo e al contempo parte dell’ insieme.
Come un cane senza padrone (2003):
“Tentare di entrare nella scrittura di Pasolini è lasciarsi trascinare dal vento, andare per zone desertiche,passare attraverso territori di confine,in stato di guerra,dove si può incontrare di tutto.Petrolio è una sorta d’atlante geografico delirante che raccoglie,secondo una mappatura segreta,tutti gli itinerari da lui instancabilmente e coraggiosamente percorsi durante la sua breve e intensa vita,compresi funesti presagi futuri……
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Come un cane senza padrone è un primo dispositivo di avvicinamento a Pasolini, come ricognizione nelle sue geografie interiori,attraverso un sistema di ripresa del paesaggio – una macchina mangia-realtà autocostruita – composta da tre telecamere sincronizzate che filmano dal cruscotto del camper, per carpire lo scenario in movimento, senza veli, con una visione espansa da cinerama……..,
andando a comporre un grande trittico cine-documentario.
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Il maggior grado di presenza è l’assenza
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Dopo lunghe e forse un pò rischiose nei quartieri più malfamati e vituperati del napoletano, ci dirigiamo a Bagnoli entrando nella sconfinata area dell’ex Italsider. Passiamo dall’Alfa Romeo di Pomigliano dove lavorava il padre di Luigi: l’ Alfa Romeo era l’auto di Pierpaolo e sarà elemento scenico centrale.
L’Italsider racchiude il senso del nostro viaggio. Un luogo immenso, superficie su cui erano impiegati migliaia di operai, ora vuota, fatiscente. Abbandonata.
Il custode, ex-operaio, ci racconta le ultime vicende dello stabilimento,mentre ci conduce allo spazio in cui faremo lo spettacolo in novembre: uno degli ultimi capannoni ancora abitabili, in cui a sede il poco personale rimasto a custodire il luogo.
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In vista della presentazione della performance a Bagnoli nel novembre 2003, al ritorno della nostra ricognizione, abbiamo deciso di concentrarci su alcuni degli appunti di Petrolio; il libro nella sua totalità è effettivamente impossibile.
C’interessa mettere a fuoco il tema della crisi della borghesia che attraversa l’ultima opera pasoliniana: negli appunti, dal ‘59 al ‘62, la “manifestazione di Carmelo all’ingegnere Carlo dell’Eni,scatena lo stesso stordimento emotivo che l’avvento dell’ospite provoca nella famiglia di Teorema. E’ su questa vicenda che poniamo la nostra lente d’ingrandimento.
Alle immagini del primo viaggio nelle periferie – che richiedono un complesso lavoro di montaggio – decidiamo di sovrapporre elementi/frammenti narrativi di quest’incontro, letti a viva voce da una narratrice “sadiana” come Emanuela Villagrossi.
Vogliamo che il racconto, la voce della narratrice, arrivino a toccare diverse corde emotive e rappresentative, non esaurendosi in un semplice reading, anche se in sintesi è di questo che si tratta. Un esperimento in cui le “descrizioni di descrizioni” inaugurino un formato rappresentativo assolutamente inesplorato: ”un film di letteratura”.
Abbiamo così affiancato, alla lettura dal vivo, un film muto interamente fuori fuoco.
Nel film gli attori agivano cercando di eseguire con naturalezza la descrizione letteraria delle azioni, impartite loro a viva voce durante le riprese.
Quella di Bagnoli è un’esperienza assolutamente nuova, specie rispetto al tempo scenico: gli attori arrivano nell’enorme capannone industriale a bordo di una vera Alfa Gt 2000 e vanno poi a sedersi ad un piccolo tavolo vicino allo schermo di proiezione dove, immobili, sonorizzano, secondo tradizionali tecniche di doppiaggio, le immagini di cui sono interpreti. L’azione si svolge nel film e viene descritta pedissequamente dalla narratrice…….” (Dal libro “Io vivo nelle cose” – Motus)
Com’è possibile intuire dallo scritto dei Motus e dalle immagini, lo spazio di questo spettacolo è estremamente complesso. Essi partono dagli scritti di Pasolini ed iniziano a seguire i suoi itinerari: ”Petrolio è una sorta di atlante geografico delirante che raccoglie, secondo una mappatura segreta, tutti gli itinerari da lui instancabilmente e coraggiosamente percorsi durante la sua breve e intensa vita…”. Questi itinerari vengono ripresi attraverso tre telecamere contemporaneamente per poi in un secondo tempo, le immagini verranno montate sincronizzate. Foto e mappe delle città diventano materiale di studio, progettazione, appunti d’idee e soprattutto itinerari. Questo è il primo tempo della realizzazione dello spettacolo, le periferie contemporanee si legano al passato attraverso gli “appunti” di Pasolini e quelli dei Motus. Le riprese effettuate dai Motus sono uno spazio/ tempo esterno che in un secondo momento diverranno interni allo spettacolo e sequenziali, perdendo quasi la loro riconoscibilità dei diversi luoghi, riconoscibili solo da chi li vive quotidianamente. Le immagini che verranno proposte durante lo spettacolo diventano paesaggi in movimento che potrebbero avere una vita propria, come affermano i Motus, queste immagini sono un “trittico cine-documentario”.
Trittico cine-documentario: innanzi tutto la parola trittico ci porta alla mente le grandi pale d’altare dell’arte antica e qui avviene la prima trasgressione. Il fruitore si trova di fronte non a tavole dipinte con soggetti sacri ma a paesaggi contemporanei e decadenti e con l’assenza totale dell’uomo ma è una assenza/presenza perchè gli edifici, le rovine industriali portano con se il segno del passaggio dell’uomo. Del trittico tradizionale, quello dei Motus conserva la suddivisione in tre parti (tre schermi) e la continuità e narratività delle immagini oltre alla grandezza dei supporti che sovrastano non un altare ma la scena. Altro passaggio è nella fusione di cinema e documentario.
Lo spettatore ha una visione da cinerama ma suddivisa in tre parti e ciò che vede nel filmato è un documento sulle periferie e i luoghi più malfamati delle città che Motus “attraversano”, essi fondono due generi diversi e rendono il loro linguaggio ancor più interessante e artistico attraverso l’uso dei tre video. Il contemporaneo e l’antico s’innescano fra loro per ridare al fruitore una scenografia che racconta attraverso un forte impatto visivo non solo la storia narrata dall’attrice ma anche un documento che potrebbe esser visto senza il resto dello spettacolo.
Questo primo spazio analizzato è uno spazio esterno inserito all’interno della scena, esso ha un tempo di registrazione (tempo esterno), un tempo di montaggio e un tempo interno allo spettacolo ma riporta lo spettatore fuori dalla scena attraverso le sue immagini.
La presenza umana, assente nel trittico video è invece presente nel video a fianco.
“……un film muto interamente fuori fuoco. Nel film gli attori agivano cercando di eseguire con naturalezza la descrizione letteraria delle azioni,impartite loro a viva voce durante le riprese….”
La frase che ho riportato è dei Motus e si riferisce proprio a questo spazio video.
Innanzi tutto, le riprese del video in questione hanno un loro tempo di registrazione esterno allo spettacolo poi vengono riproposte al suo interno diventando “personaggio” o quanto meno il doppio dei personaggi che in scena, dal vivo, riproporranno parte del video. Uno spazio/tempo che va a interagire con la messa in scena in modo diretto, addirittura gli attori arrivano sull’auto poi si vanno a posizionare a lato dello schermo e danno voce al video, cioè doppiano il video come se fossero in sala di doppiaggio e non sulla scena.
Gli spazi si sdoppiano e la lettura visiva è sempre più complessa.
Nel video, inoltre le immagini sono sfocate e questo provoca un senso di straneamento al fruitore e possono esser percepite come immagini sbagliate dallo spettatore, mentre rientrano nell’ estetica, i Motus fanno uso consapevole d’ immagini appositamente “errate”. Ancor più straniante è l’effetto dovuto al doppiaggio in estemporanea, lo spettatore è di fronte ad uno spettacolo ma al tempo stesso è come se fosse dentro una sala di doppiaggio. Lo spazio/tempo di ripresa di questa parte video si fonde, compenetra lo spazio e tempo di scena e viceversa. Le immagini sfocate del video fanno tornare alla mente dipinti di un’artista spesso presente negli appunti del regista: Francis Bacon. Ad un certo punto dello spettacolo i due attori/doppiatori si alzano e “vanno in scena”,in questo modo l’effetto di sdoppiamento dei personaggi è ancor più forte, essi interagiscono con il video attraverso la gestualità e alle azioni che compiono e così facendo si rapportano con la voce narrante che li mette in relazione (video e scena).
La narratrice è il filo conduttore di tutto lo spettacolo, è una presenza fisica ma soprattutto una voce, uno spazio sonoro che mette in relazione video e scena,è posizionata quasi al centro di essa, una luce la fa emergere dal buio, è una figura caravaggesca.
“Un esperimento in cui le descrizioni di descrizioni inaugurino un formato rappresentativo assolutamente inesplorato: un film di letteratura”.
Tenendo presente ciò che affermano i Motus si apre uno spazio e tempo mentale che appartiene ad ogni spettatore,cioè la stessa descrizione fatta dalla voce narrante che collega i vari spazi visivi-descrittivi che sono all’interno dello spettacolo al contempo è immagine mentale che ogni spettatore può ricostruire nella propria mente: ”un film di letteratura”.
I Motus trasgrediscono il cinema attraverso il video documentario dei paesaggi che al tempo stesso sono scenografia ma anche attraverso l’utilizzo della video art (es. video sfocato), inoltre la disposizione di più video e quindi spazi e tempi diversi non sono elementi del cinema. Rimane la narratività propria del cinema e del teatro ma è attraverso essa che la dilatazione delle immagini video e dal doppio in scena, divengono spazio sonoro e letteratura, “un film di letteratura”, trasgredita a sua volta dalle immagini.
L’ultimo spazio che vado ad analizzare ma non per questo il meno importante è il capannone dell’ Italsider di Bagnoli,nel quale è stata realizzata per la prima volta la performance.
“L’Italsider racchiude il senso del nostro viaggio. Un luogo immenso, superficie sulla quale erano impiegati migliaia d’operai, ora vuota, fatiscente. Abbandonata.
Il custode, ex-operaio, ci racconta le ultime vicende dello stabilimento, mentre ci conduce allo spazio in cui faremo lo spettacolo in novembre: uno degli ultimi capannoni ancora abitabili, in cui a sede il poco personale rimasto a custodire il luogo.”
Sono gli stessi Motus a sottolineare l’importanza del luogo, esso diventa teatro ma al contempo è l’anello di congiunzione fra il passato e il presente. Un’immensa scatola spazio-temporale che racchiude tutte le altre legandole saldamente fra loro. Uno spazio che racchiude la performance e il pubblico, il video/paesaggio e i luoghi in cui è stato girato facendone parte egli stesso come costruzione decadente e abbandonata. Un luogo dove il tempo passato si mescola e fonde al tempo presente di ogni singola parte dello spettacolo e li ingloba ma non li soffoca.
Questo spazio, non è lo spazio stereotipato del teatro e diventa scenografia attraverso le sue stesse mura mal ridotte, è palcoscenico e platea, è spazio chiuso e aperto contemporaneamente: chiuso perchè è realmente un edificio che contiene la messa in scena ma anche aperto per due motivi, per prima cosa fa parte dei paesaggi riprodotti dal video-trittico, cioè fa parte di quella periferia in sfacelo che i Motus hanno ripreso. In secondo luogo è aperto perchè sia all’inizio che alla fine gli attori entrano ed escono dal capannone con la macchina. In questo modo lo spettatore non percepisce più questo spazio come chiuso ma ha la sensazione di esser all’aperto (i tre video/paesaggio diventano complementari a tutto ciò e dilatano la sensazione di esser all’esterno).
Il buio che avvolge le varie parti scenografiche/video aumenta la percezione del fruitore di uno spazio esterno perchè non vedendo i muri, il confine che li separa dall’esterno ma sentendo solamente le sonorità dei video e della voce narrante accompagnate dalle immagini del trittico, si costruiscono uno spazio esteriore mentale e uniscono le varie parti visive in un unico tempo presente.
In questo lavoro dei Motus lo spazio è la parte più complessa nella sua trattazione, esso si costruisce attraverso tanti spazi incastrati all’interno del capannone, è un concatenarsi di luoghi diversi in tempi apparentemente lontani, in realtà passato e presente si fondono nella “scatola magica” della scena facendo diventare ognuno di essi personaggio.
Rumore Rosa (2006): lo spazio scenico che si presenta alla spettatore appena entrato in teatro è uno spazio completamente asettico. Uno spazio delimitato da grandi teli bianchi dietro e di lato ed al centro uno schermo per proiezione anch’esso bianco.
Apparentemente “non c’è scenografia” se per scenografia s’intende l’illusione di uno spazio verosimile, qui tutto e nulla può accadere in quest’atmosfera semi buia (le luci sono molto basse) e senza collocazioni ambientali ben definite.
Quando inizia lo spettacolo, le luci vanno ad “individuare” l’attrice che entra in scena dal lato sx, è una figura molto alta e longilinea, diventa quasi un segno grafico nel contesto scenografico. Pochissimi elementi sono in scena: un microfono sul lato sx che serve per amplificare l’audio dei due giradischi di colore bianco, altri tre microfoni sul lato dx e un ventilatore a piantana. I colori sono il bianco e il nero mentre ai lati, dietro ai grandi teli c’è una luce diffusa molto calda e dà l’effetto del movimento perchè il faro dirige il fascio luminoso su del materiale riflettente: questo effetto ottenuto con la luce dà movimento e dilata lo spazio scenico.
Dopo l’entrata dell’attrice lo spazio inizia a prender forma attraverso la video proiezione nel telo centrale. C’è un rumore di fondo ( rumore rosa) che fa capire allo spettatore di essere in una grande metropoli ma è un rumore filtrato dalla stanza dove si trova la protagonista. Il video inizia mostrandoci dei grattacieli, tutto rigorosamente in bianco/nero come vecchi film americani anni ’40/’50 rivisti attraverso uno stile tipico del fumetto.
La protagonista attratta dal rumore di una sirena che proviene dall’esterno si alza e va verso lo schermo, nel frattempo si ha la sensazione che la “telecamera” che sta inquadrando la scena si sposti indietro permettendo allo spettatore di vedere pian piano la stanza dove si trova l’attrice. In pratica le immagini che si susseguono sono:
– vista esterna dei grattacieli;
– vista dell’esterno dall’alto verso il basso come se ci si stesse affacciando alla finestra;
– movimento della “telecamera” indietro e ritorno all’interno della stanza;
– riquadro finestra con tende;
– costruzione della stanza attraverso una linea nera che disegna gli oggetti presenti.
Tutto lo spettacolo è costruito sulla visione grafica dello spazio che si vede nelle videoproiezioni e dall’uso attento dei suoni, della voce e della musica. Per ogni attrice che di man in mano entra in scena, la grafica costruisce il suo ambiente e lo spettatore vi si trova all’interno, questo perchè la scena che si va via via formando utilizza dei punti di vista in continuo mutamento, come se si seguisse una telecamera in continuo spostamento e a muoverla fosse lo stesso spettatore per poter inquadrare al meglio il “paesaggio”.
Dopo aver analizzato alcuni degli spettacoli dei Motus, è possibile vedere come sia complesso il loro lavoro. Teatro, arte e multimediale si fondono in complicate relazioni e soprattutto il multimediale fa parte della drammaturgia: il regista parte da un’idea letteraria ma immediatamente inizia la sua ricerca attraverso le immagini d’artisti di vario genere (pittura, foto, cinema) e al contempo pensa allo spazio scenico multimediale come ad un soggetto della drammaturgia stessa.
Inoltre i Motus affrontano il problema della documentazione delle performance sostanzialmente in due modi: nel primo caso come vero e proprio documento dell’evento (es. Come un Cane senza padrone), nel secondo caso il documento diventa qualcosa d’altro (es. O.F. ovvero Orlando Furioso), quindi lo spettacolo si trasforma in video e prende “vita propria”.
Bibliografia
Andrea Balzola, Anna Maria Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Garzanti, Milano 2004.
Antonio Pizzo, Teatro e mondo digitale, Saggi Marsilio, Venezia 2003.
Enrico Casagrande, Daniela Nicolò, Io vivo nelle cose, Ubulibri, Milano 2006.
Elena de Angeli (a cura di), Josef Svoboda – I segreti dello spazio teatrale, Ubulibri, Milano 1990.
Romeo Castellucci – Socìetas Raffaello Sanzio, Tragedia Endogonidia (DVD,CD+libro), RaroVideo/eccentrichevisioni, 2007.
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