COMPUTER: MEMORIA OLOGRAFICA?
Se volete scoprire il futuro dell’informatica, dimenticate i laboratori sofisticatissimi o i megacentri di ricerca. Le grandi rivoluzioni sono sempre avvenute nei garage e nei sottoscala. In un garage, nel 1976, due studenti poco più che ventenni, Stephen Wozniac e Steve Jobs, costruirono lo storico Apple, il primo personal computer. Nel ’78 ancora dalla Apple uscì il primo floppy disk. E fu un’altra rivoluzione per il mondo dell’informatica. Prima i programmi e gli archivi giravano su cassette magnetiche, che vennero presto sostituite da un disco flessibile (detto floppy, in inglese) , piccolo, comodo da trasportare, capace di contenere una grande quantità di dati (almeno per allora).
A più di vent’anni dalla nascita, il floppy disk comincia a sentire il peso del tempo. Il computer, nel frattempo, è diventato davvero multimediale. Nella sua memoria trovano spazio videoclip, figure tridimensionali, registrazioni audio, immagini ad alta definizione. Dove immagazzinare tutti questi file, di solito “pesantissimi”? I dischi rigidi (o hard disk) sono sempre più capienti e contengono gigabyte (cioe miliardi di byte) di dati, registrati su dischi di alluminio ricoperti da un sottile strato di materiale ferromagnetico. Memorizzazione, lettura e cancellazione dei dati avvengono con una o più testine che magnetizzano o smagnetizzano il materiale ferromagnetico. I vecchi floppy disk tanto floppy non sono più: sono diventati rigidi e più robusti e dal formato originale a 5 pollici e un quarto si sono rimpiccioliti a 3 pollici e mezzo. Le informazioni vengono memorizzate su poliestere, ricoperto da materiale ferromagnetico su entrambi i lati: il disco viene detto perciò a doppia densità. Nonostante i tentativi per aumentarne la capacità, la registrazione magnetica sembra però insufficiente a tenere il passo con le crescenti esigenze dei computer multimediali.
La nuova frontiera dell’immagazzinamento dei dati in spazi ridotti sembra essere la registrazione olografica. Il principio, scoperto nel 1948 dall’ungherese Dennis Gabor (premio Nobel nel ’71), è quello usato per creare le minuscole etichette di sicurezza nelle carte di credito, che contengono una piccola immagine tridimensionale, detta ologramma. Questa è il risultato dell’interferenza di due fasci di luce, così che l’illuminazione con un fascio ricostruisce l’altro, creando l’immagine tridimensionale. Mentre negli ologrammi delle carte di credito l’immagine viene ricostruita con la luce ordinaria, quelli costruiti all’interno di un cristallo hanno bisogno di un laser per essere ritrovati. E proprio con il laser funziona il metodo di immagazzinamento dei dati proposto da Hans Coufal, ricercatore dell’Ibm, e da Bert Hesselink, fondatore della Optitek. La tecnologia resta digitale: come sempre, il processore del computer trasforma tutti i dati in stringhe di uno e di zero. La memoria olografica le trasforma in zone di luce o di buio all’interno di un cristallo: una grande scacchiera di ologrammi che rappresenta l’informazione, leggibile con un fascio laser. Invece della superficie piatta di un disco magnetico, si possono sfruttare le tre dimensioni del cristallo. I due ricercatori pensano che si possa immagazzinare un terabyte (cioè mille miliardi di byte) di dati dentro un cristallo non più grande di un cubetto di zucchero.
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