LA “PREISTORIA” DEL MONTAGGIO
Per parlare di montaggio al cinema si dovettero attendere le prime evoluzioni del mezzo, in quanto le prime pellicole prodotte dai fratelli Lumiere non consistevano in altro che una singola inquadratura ed erano considerate perlopiù delle “fotografie in movimento”.
Successivamente, nacque nei cineasti il desiderio di raccontare delle storie articolate e, per fare questo si iniziò a ricorrere alle didascalie tra una scena e l’altra. Queste didascalie fornivano indicazioni sulle situazioni che si andavano ad osservare permettendo così la costruzione di una narrazione basata sull’unione di diverse scene o inquadrature in un unico processo diegetico. Questo principio lo si può in qualche modo ritenere mutuato dalla struttura in atti che caratterizza, fin dalla sua nascita, lo spettacolo teatrale.
In questo lavoro, il cineasta delle origini, spesso era accompagnato da una sola macchina: la macchina da presa, oggetto quasi magico, che poteva essere adoperata sia per la registrazione che per la proiezione delle immagini sul grande schermo.
Utilizzando la manovella per la proiezione il regista tuttofare di quei tempi poteva visionare la pellicola in modo libero, rallentando, accelerando e, alla bisogna tornare indietro.
Il lavoro dopo le riprese consisteva dunque nel proiettare la pellicola per individuare le inquadrature e poi procedere al taglio visionando i singoli fotogrammi (spesso facendoli scorrere tra le dita in controluce).
La prima rivoluzione la si ebbe quando proiezione e registrazione furono assegnate a due macchine diverse e quando al posto della manovella di trascinamento si ricorse al motore elettrico. Quest’ultimo in realtà, creò non pochi problemi ai montatori, in quanto la tecnologia disponibile allora causava non pochi traumi alla pellicola a causa dei bruschi arresti.
Questi problemi di natura tecnica dettero probabilmente la spinta decisiva alla nascita di un macchinario esclusivamente dedicato al montaggio.
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