Interviewing New Media Art Didactics – Introduzione
Il progetto “Interviewing new media art didactics” nasce dall’esigenza di avere una panoramica nell’ambito della didattica che riguarda il rapporto tra arte e tecnologia, con un approccio fortemente sperimentale e consapevole delle dinamiche del contemporaneo. Seppure il termine “new media art” sembra essere quello più indicato a identificare il contesto in analisi, tengo comunque specificare che la vastità dell’area di interesse di questa ricerca sembra soffocare se relegata all’esclusività di questa definizione.
La scelta dei docenti intervistati coinvolge personalità, approcci e ricerche molto differenti tra loro, ma che condividono trasversalmente l’interesse per lo stesso campo di studio, che cercando una generalizzazione più possibilmente comprensiva, preferisco inquadrare nell’assunto: “relazione tra arte e tecnologia”. Artisti, teorici, curatori, specificità dove è forse più facile definire il background professionale che riversano nella loro attività didattica. Specificità trasversali, compenetranti e interscambiabili, che evidenziano come un ambito così interdisciplinare fluisce in attività differenti, e si emancipa da una rigida specializzazione. Essenzialmente: arte, scienze tecniche, scienze umanistiche e didattica; così come essere artista, teorico, docente; traccia una linea in uno stesso percorso dove ogni funzione non può prescindere dall’altra. Esiste dunque una separazione tra quello che è il metodo e la funzione didattica con quella che è invece una funzione di ricerca teorica e/o artistica?
Proprio questo risulta essere particolarmente interessante. L’attività didattica non può più essere intesa come una schematica proposta di contenuti, ma è la struttura e metodologia stessa a riproporre il percorso di ricerca ai propri studenti, a riproporre lo stesso atteggiamento le stesse problematiche, e il processo di costruzione del pensiero. Viceversa, quando la ricerca teorica e/o artistica, si pone l’obbiettivo di far emergere le questioni che contraddistinguono le dinamiche contemporanee, si possono facilmente intravedere le potenzialità didattiche insite nella sua natura. Una natura, che anche senza intento, mantiene imprescindibilmente le qualità della maieutica.
Per questo il metodo risulta come uno degli elementi prioritari nella trasmissione del sapere. Nella cultura interconnessa contemporanea non serve più una conoscenza mnemonica che può essere facilmente soddisfatta da un manuale o da una ricerca in rete, ma serve una conoscenza esperienziale che non pretenda di offrire verità e risposte, ma che ponga domande, e che sappia insegnare come organizzare le informazioni. E’ in questa ottica che ho provato a costruire questo ciclo di interviste. Ho cercato di assortire le domande pensando di includere un vasto target di lettori, ma soprattutto cercando di stimolare risposte che aprissero un discorso e che ponessero altre questioni.
Le interviste sono strutturate sulla base di domande fisse che si ripetono per ogni intervistato, e alcune specifiche. Partire da degli input statici, permette di evidenziare le differenti personalità che verranno ad emergere. La risposta di ciascun docente, ad una stessa domanda, porta con se l’esperienza e il punto di vista dato dal proprio percorso di ricerca. Non si tratta di portare paragoni inappropriati tra una risposta di un docente e quella di altri docenti, ma piuttosto il far emergere la specificità del docente, il differente approccio, per costruire una totalità di un argomento, composta dall’insieme di tutte le prospettive proposte dagli intervistati.
Questo è il metodo che mi sono prefissato, per avere un immagine complessiva, un istantanea del panorama italiano in questo multiforme ambito culturale. Bypassando le responsabilità istituzionali, e l’importantissima influenza e base costitutiva composta dagli studenti, l’altro elemento fondante della funzione didattica è chiaramente la docenza, e il carico esperienziale che porta con se, a costituire di fatto l’offerta formativa.
Andrea Balzola
Andrea Balzola si occupa, in qualità di studioso, drammaturgo e sceneggiatore, dei nuovi linguaggi multimediali, negli anni ’80 inizia la sua attività di pubblicista nel campo della critica d’arte e cinematografica, realizza cortometraggi fiction e videoritratti monografici su alcuni artisti, filmati e opere multimediali. Svolge attività didattica alle Università di Roma, Torino, Firenze, Palermo e in corsi di specializzazione per la Regione Piemonte e Toscana. Dal 1999 al 2003 crea e dirige il corso sperimentale di “Arti multimediali” all’Accademia di belle arti di Carrara, dal 2003 insegna “Drammaturgia multimediale” e “Culture digitali” all’Accademia di Brera a Milano, nel corso di “Nuove tecnologie dell’arte”. Fonda con Mauro Lupone e Anna Maria Monteverdi la compagnia “Xlabfactory” con la quale realizza diversi progetti crossmediali, in collaborazione con gli artisti Theo Eshetu, Tullio Brunone e con la compagnia Verdastro-Della Monica. Il lavoro ventennale, teorico, artistico e didattico, di Balzola sui linguaggi artistici multimediali sfocia nel volume (con A.M.Monteverdi) “Le arti multimediali digitali”, che raccoglie i contributi dei maggiori studiosi italiani e stranieri su “storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche delle arti del nuovo millennio”, All’inizio del 2009 esce il volume Una drammaturgia multimediale. Testi e immagini per un nuovo teatro, che raccoglie alcuni suoi testi di spettacoli multimediali rappresentati.
Da quanti anni insegna nell’ambito delle culture e arti tecnologiche? In questi anni ha visto dei cambiamenti nelle nuove generazioni di studenti?
Insegno dalla seconda metà degli anni Ottanta, prima all’Università come cultore della materia e contrattista, poi all’Accademia di Belle Arti come docente di ruolo. Dal 2000 al 2003 ho creato e diretto il corso sperimentale di Arti multimediali nell’Accademia di Carrara e dal 2003 insegno Drammaturgia multimediale (laurea primo livello) e Culture digitali (laurea secondo livello), nel Corso di Nuove tecnologie dell’arte a Brera. Nell’arco di questi 10 anni c’è stato sicuramente un incremento di interesse (verificabile anche nel continuo aumento delle iscrizioni nei corsi di arti multimediali), di conoscenze acquisite e una maggiore consapevolezza di come le tecnologie stiano cambiando la società, e di conseguenza i linguaggi artistici. Anche il rapporto fra formazione artistica in questo ambito e mondo del lavoro, nonostante la crisi generale, sta dando risultati positivi, sicuramente superiori a quelli delle discipline artistiche più tradizionali.
Solo recentemente in Italia si sta assistendo ad un forte interesse verso le tematiche riguardanti le arti tecnologiche. Secondo lei, siamo pronti a competere a livello internazionale da un punto di vista quantitativo e qualitativo dei progetti?
L’Italia è stata all’avanguardia nell’ambito tecnologico e anche nelle ricerche artistiche legate alle nuove tecnologie negli anni Ottanta, ma poi la mancanza di investimenti adeguati, di lungimiranza e di maturità culturale nel saper cogliere le prospettive evolutive nei diversi settori di applicazione delle tecnologie (infrastrutture, trasporti, telecomunicazione, etc) ha portato a un progressivo arretramento.
Anche nel campo delle arti, ha prevalso il conservatorismo e le nuove ricerche dell’arte digitale e interattiva sono state fortemente penalizzate da mancanza di fondi, scarsa comunicazione e da un sostegno pubblico praticamente assente. C’è una carenza cronica di capacità promozionale del lavori degli artisti tecnologici nostrani all’estero, basta vedere le pubblicazioni straniere di settore dove gli italiani sono assenti. Eppure questa assenza dalla ribalta internazionale non corrisponde alla realtà, abbiamo molti talenti, giovani e non, che possono rilanciare sul piano qualitativo e quantitativo la creatività italiana, ma è necessario un sostegno convinto delle istituzioni pubbliche, delle fondazioni private e di una nuova generazione più dinamica di critici-curator.
Viviamo in un paese ricco di tradizione artistica. Il peso della cultura che ci trasciniamo è un limite per l’innovazione e la ricerca tecnica e artistica, o può essere un punto da sfruttare a favore?
La cultura e l’arte tradizionale in sé sono un patrimonio utile anche all’innovazione, io non credo nella contrapposizione fra tradizione e innovazione e mi piace ricordare la frase di Picasso: “Tutti i grandi artisti del passato sono miei contemporanei.” Anche la pratica del disegno, ad esempio, resta fondamentale nella progettazione di molte installazioni tecnologiche, nella previsualizzazione delle opere video e un senso estetico maturato nella relazione con le belle arti della tradizione è fondamentale anche per la creazione di un’opera d’arte tecnologica contemporanea. Il problema è che invece sopravvive in Italia un pregiudizio da parte di molti artisti e docenti di discipline artistiche, critici e curator, nei confronti delle arti tecnologiche, fondamentalmente basato sull’ignoranza e sul timore di inadeguatezza, come se l’arte tecnologica invece che essere un naturale sviluppo della ricerca artistica fosse un suo snaturamento. Molti, all’interno delle accademie ma anche fuori, pensano ancora alle tecnologie come uno strumento di servizio e non si sono accorti che invece da molti decenni ormai è nato e si sviluppato un nuovo linguaggio espressivo: quello delle arti multimediali (o intermediali, come alcuni preferiscono).
Le istituzioni deputate all’istruzione e alla ricerca sono all’altezza del proprio ruolo? Sono insufficienti, o addirittura ostacolo per svolgere una buona attività formativa?
Come spesso accade in Italia, tutto dipende dall’iniziativa dei singoli, di per sé le Istituzioni sono poco attente e sensibili a una realtà in continuo divenire come quella tecnologica e del suo uso artistico, capita spesso che le declaratorie delle nuove materie e i nomi stessi dati ai corsi e ai dipartimenti siano decisi dal Ministero con grande approssimazione e senza coinvolgere gli esperti, che pure esistono tra i docenti stessi. Ci sono alcuni Direttori delle accademie (pochi) e alcuni docenti che, sulla base delle proprie competenze, delle proprie esperienze professionali e di una personale volontà innovativa, scontrandosi con molte resistenze interne, cercano di aprire la formazione artistica a nuovi orizzonti, aggiornandola anche grazie al coinvolgimento di professionisti esterni mediante gli insegnamenti a contratto, che oggi nell’ambito dell’arte tecnologica sono la maggioranza sia nelle accademie sia nelle università.
Quali motivazioni vede nella maggior parte dei suoi alunni? Sono generalmente spinti da intenti di carattere artistico, sociale, espressivo , filosofico, o professionale?
Le motivazioni degli studenti sono piuttosto e sempre più aleatorie e confuse, sono attirati dalla tecnologia e dai media (video, computer multimediale, software, Rete web) ma hanno una formazione di base, quella ricevuta nelle scuole secondarie, assai scarsa e un’apatia di fondo che richiede da parte dei docenti un faticoso lavoro di costante sollecitazione. Da una parte c’è un approccio ludico di intrattenimento, dall’altra parte la preoccupazione centrale per gli studenti è sicuramente quella di conseguire una formazione che apra prospettive concrete di lavoro, di conseguenza prediligono gli aspetti tecnici dell’apprendimento rispetto a quelli artistici e teorici. Nonostante questo quadro di partenza poco incoraggiante, se il corpo docente riesce, in modo più interdisciplinare e rigoroso possibile, a orientarli, interessarli e guidarli, si possono ottenere buoni risultati, a volte sorprendenti, anche sul piano espressivo.
In un ambito di insegnamento artistico e/o professionale, è giusto imporre un metodo/visione totalizzante, oppure è preferibile dare una certa libertà intervenendo solo con suggerimenti?
Dal mio punto di vista, l’insegnamento non deve mai essere “indottrinamento”, il compito dell’insegnante è “aprire la mente” degli allievi, fornendo stimoli culturali, strumenti teorici e metodologie di lavoro in grado di far evolvere ciascun individuo secondo le sue personali caratteristiche ed aspirazioni e non secondo dei modelli precostituiti. Questo vale in particolar modo per l’insegnamento artistico, dove è fondamentale l’emersione della personalità creativa di ciascun allievo, il vecchio modello dei Maestri che producevano cloni di se stessi ha fatto molti danni e oggi è diventato completamente anacronistico nel campo dell’arte che usa le tecnologie. La modalità di lavoro oggi richiede una capacità di relazione non gerarchica tra i ruoli e le competenze professionali, anche in ambito formativo quello che bisogna creare è un team di lavoro, basato sulla dialettica creativa delle differenze, piuttosto che una scuola con un modello unico.
Su cosa si basano in particolar modo le sue valutazioni didattiche (esami, prove, ecc. …)? Nelle conoscenze acquisite, nella capacità di ragionamento, nell’esposizione formale delle competenze, nella sensibilità artistica, o cos’altro?
Un primo problema che si presenta nell’insegnamento oggi, e che si riflette anche nei criteri di valutazione, è la necessità di trasmettere il senso dell’autodisciplina, gli studenti, anche quelli che hanno talento e volontà, arrivano senza una cognizione della necessità di un metodo e di un’organizzazione del lavoro – c’è anche il vecchio e stupido luogo comune che l’artista o il creativo fa quello che gli pare, quando gli pare, a modo suo, genio e sregolatezza insomma – Questo è il primo ostacolo da debellare per far crescere gli studenti in una direzione professionale. Il secondo punto è trovare un equilibrio tra l’apprendimento storico-teorico (necessario per scongiurare un’ignoranza che limita ogni processo di crescita) e la pratica laboratoriale. Anche qui il mito dell’artista che non ha bisogno di cultura, anzi che meno sa più è “puro”, va sfatato alla radice e la formazione deve mirare a creare soggetti creativi dotati di consapevolezza culturale, estetica ed etica.
Quali consigli darebbe a chi vuole iniziare a studiare in ambito artistico/culturale i new media e le nuove tecnologie?
In seguito alle mie esperienze professionali artistiche, ai miei studi teorici e alla lunga pratica dell’insegnamento nel campo dei mass media e new media, ho maturato l’idea della necessità di acquisire e preservare una memoria storica dei linguaggi espressivi e dell’evoluzione tecnologica. La qualità dell’artista è quella di saper trasformare la tecnica in linguaggio, ma per far questo deve avere memoria e consapevolezza di quanto è accaduto prima di lui, è bello farsi affascinare dalla novità tecnologica ma senza un’idea forte e una consapevolezza culturale all’interno dell’opera prevale la novità tecnica sulla novità espressiva. Spesso accade di vedere opere d’arte o presunte tali che usano tecnologie d’avanguardia ma che sono superficiali o arretrate sul piano dell’idea, della capacità di creare con un nuovo medium un nuovo linguaggio. Per questo ho scritto (con AM:Monteverdi e il contributo di molti esperti del settore) il volume “Le arti multimediali digitali” (Garzanti, 2004, 2007) che affronta il tema attuale dell’arte tecnologica partendo dai precursori, da quell’utopia ottocentesca e novecentesca della sintesi dei linguaggi, che oggi la multimedialità digitale realizza sul piano tecnologico. Questo volume è destinato soprattutto alla formazione perché credo che il primo approccio allo studio di queste materie debba partire da lontano, cercare di andare alle origini dei nuovi media, quali idee li hanno creati e come gli artisti di diverse generazioni hanno interpretato il rapporto con la tecnologia. Sul piano più pratico il consiglio è quello di – come si dice in gergo – “smanettare” il più possibile, sperimentare direttamente i software, per evitare fin da subito una scollatura fra teoria e pratica.
Quanto è importante insegnare agli studenti il metodo? Per metodo intendo progettuale, e cognitivo nell’approccio alla teoria. Quale metodologia e/o deontologia professa?
Il metodo è ovviamente fondamentale, tenendo presente ed esplicitando anche la relatività del metodo stesso. Essendo drammaturgo e sceneggiatore, il metodo che insegno focalizza il processo di ideazione e costruzione di una narrazione, tale narrazione però non è necessariamente lineare ma, in conformità con i nuovi media digitali e le rivoluzioni estetiche, può assumere il carattere dell’”opera aperta”, essere ipertestuale e interattiva, essere capace di nomadismo tra i diversi linguaggi che compongono l’universo multimediale, o intermediale.
Come struttura generalmente il suo programma didattico? Quali metodi didattici utilizza per le sue lezioni?
Le materie che insegno sono costituite di una parte teorica, che solitamente svolgo con l’ausilio di schematiche dispense multimediali e il supporto di proiezioni audiovisive o di collegamenti alla Rete, mentre la parte pratica si configura come un laboratorio dove vengono proposti, discussi ed elaborati singoli progetti artistici multimediali, sia in ambito video sia in ambito tecno-performativo. L’idea fondamentale è quella di creare un team di lavoro che si avvicini metodologicamente ai modelli professionali ma con la libertà garantita dal contesto formativo.
Nel mondo della rete, ma non solo, si sta assistendo alla consacrazione del prosumatore (produttore/consumatore di contenuti). Tutti siamo artisti, tutti partecipiamo all’attività produttiva. Da un punto di vista professionale e/o artistico come si dovrebbe rapportare a ciò uno studente? Quali strumenti gli vengono offerti per distinguersi nel proprio lavoro?
La mia risposta si ricollega a quanto precedentemente detto sulla necessità di una solida formazione culturale. Oggi infatti la tecnologia è diventata molto più facile e divertente (friendly) rispetto al passato. Oggi è diventato quasi impossibile fare una brutta fotografia con una macchina digitale, con un minimo di pratica si possono fare singolari fotomontaggi con programmi di grafica come Photoshop o montaggi video con effetti, o animazioni 2D e 3D. Questa facilità presenta due pericoli, che vanno ampiamente sottolineati in ambito formativo: la confusione della creazione artistica con l’intrattenimento creativo, la dominanza dell’hardware o del software sulla personalità espressiva di chi li usa. La relativa facilità nell’ottenere un risultato comunque piacevole incoraggia la pigrizia creativa e può inibire un comportamento più esplorativo e trasgressivo che sono invece attitudini proprie della ricerca artistica,; l’adesione alle funzioni e ai modelli operativi dell’hardware e del software portano spesso a una standardizzazione dei prodotti, un esempio tipico viene dalle animazioni 2D fatte con Flash o da quelle 3D di Maya che si assomigliano tra loro perché è troppo riconoscibile il software rispetto alla personalità espressiva di chi li usa, ad es.l’uso delle texture del programma omogeneizza il lavoro di modellazione.
Le generazioni che sono nate in una cultura fortemente “televisiva” soffrono generalmente di una incapacità critica nei confronti dei contenuti e delle forme che gli vengono proposte. Ha notato anche Lei questo, nei suoi studenti? Il metodo educativo dovrebbe contrastare o adattarsi a questa situazione?
Lo dicevo all’inizio, in effetti si registra un crescente effetto “lobotomizzante” dei media nei giovani che trascorrono molta parte del loro tempo davanti agli schermi della tv o del PC, di conseguenza essi hanno interiorizzato, quasi sempre senza esserne consapevoli, dei modelli estetici serializzati e stereotipati. Questo vuol dire che il primo lavoro del docente è quello di rendere consapevoli i giovani dei modelli mediatici che pilotano il loro gusto e poi di destrutturare tali modelli sollecitandoli con una molteplicità di stimoli differenti, a loro ignoti perché non veicolati a livello di massa. La funzione educativa dovrebbe quindi essere fondamentalmente quella di contrasto, ma non frontale, si tratta insomma di sviluppare in loro un senso critico che è innanzi tutto cognizione della molteplicità e della complessità, occorre aprire i loro orizzonti a un nuovo universo di possibilità, magari partendo da una rielaborazione personale e questa volta consapevole dei modelli introiettati.
Nei corsi che riguardano le arti tecnologiche approdano studenti che provengono dai percorsi di formazione più disparati. Come si riescono a gestire queste eterogeneità? Quali meccanismi vengono predisposti per fare fronte a lacune tecniche o teoriche?
Noi a Brera in effetti sperimentiamo origini formative assai disparate dei nostri studenti, ma purtroppo sono accomunati da un livello molto basso di preparazione culturale e artistica, quindi abbiamo deciso di creare un piano di studi piuttosto blindato nei primi due anni, equilibrato fra la parte teorica e quella laboratoriale, che fornisca loro le basi culturali e metodologiche fondamentali per successivi approfondimenti.
Recentemente la forma di workshop viene molto utilizzata sia in accademie e istituzioni sia in altri contesti, ma non è ancora molto chiaro il vero ruolo e funzionamento. Cosa è e cosa dovrebbe essere secondo lei un workshop? Quali aspetti positivi e quali aspetti negativi offre?
Il workshop è uno strumento molto utile e funziona se però ha un contesto adeguato nel quale inserirsi. L’incontro con un artista e una full immersion nel suo lavoro per alcune ore o giornate da risultati notevoli se viene preparata da vari dispositivi formativi, gli studenti devono sapere prima chi è il personaggio che incontrano, a quale contesto d’arte e di pensiero appartiene, allora svilupperanno delle aspettative più mirate e una partecipazione più concentrata e consapevole. Inoltre sarebbe interessante stabilire delle relazioni tra i diversi workshop, in modo da creare un percorso più coerente e complesso. Altrimenti c’è il rischio di accumulare nel percorso formativo dello studente una serie di episodi effimeri ed eterogenei che non hanno sufficiente possibilità di deposito nella loro esperienza.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, la funzione artistica nel panorama contemporaneo?
E’ evidente, le tecnologie hanno mutato e stanno mutando radicalmente i nostri comportamenti, le nostre modalità di comunicazione e le nostre abitudini, e questo sta accadendo a una velocità accelerata, senza quasi lasciar tempo di metabolizzare i cambiamenti, di capire in quale direzione ci portano, ponendoci degli interrogativi etici che ci spiazzano e che non hanno precedenti nella storia (basti pensare a tutte le tematiche della ricerca e della produzione biotecnologica, alla manipolazione genetica, al prolungamento artificiale della vita). In questo contesto, l’arte può svolgere una funzione molto importante nel momento in cui si confronta con la trasformazione in atto e sperimenta l’innovazione tecnologica, una funzione non solo estetica ma anche etica, di orientamento della mente collettiva. Infatti gli artisti che sperimentano le stesse tecnologie che sono usate con scopi militari, scientifici o di sicurezza, possono scoprirne le potenzialità di linguaggio e di comunicazione (così come avevano fatto con la fotografia, il cinema, il video, media non nati per l’arte ma che l’arte ha convertito in potenti macchine dell’immaginario collettivo), creare degli scenari futuribili e porre delle domande sul senso che ha o può avere lo “sviluppo tecnologico”, cercando di trasformare, almeno idealmente – come proponeva il sapiente Pannikar – la tecnocrazia in una tecnicultura, ecologicamente sostenibile e di servizio per l’uomo piuttosto che macchina di consumo. In questo modo l’arte può, e deve recuperare la funzione sociale che aveva perso nel secondo Novecento a favore dei mass media, e l’artista essere protagonista “responsabile” della trasformazione antropologica in atto. Ma questo significa cambiare le regole del gioco, uscire da una fruizione elitaria e bloccata dei fenomeni artistici, dalle vecchie mitologie dell’artista egocentrico e narcisista, dai meccanismi asfittici della distribuzione e del mercato dell’arte, inventare nuove modalità di relazione tra pubblico e opera (cosa che l’arte interattiva già sta praticando), creare nuove reti e nuovi circuiti sia reali sia virtuali per gli eventi creativi, lavorare sul territorio facendo convergere diverse competenze, integrando etica ed estetica, riconnettendo l’azione dell’arte al pensiero filosofico e alla ricerca scientifica, ripensando al senso anche spirituale del divenire tecnologico.
L’autoformazione è una pratica che nasce dall’esigenza di avere una struttura formativa che non sia istituzionalizzata, e estranea a determinati meccanismi centralizzati. Potrebbe anche essere considerata una reazione di sfiducia nei confronti delle istituzioni educative. Anche in ambito artistico esistono questo genere di realtà (il S.A.L.E. di Venezia, ad esempio). Lei cosa pensa di questa alternativa forma didattica? Quali aspetti positivi e/o negativi si porta?
Non vedo incompatibilità, ma al contrario credo nella complementarità tra formazione e autoformazione, una non può fare a meno dell’altra. L’autoformazione ha un valore di personalizzazione dei percorsi e anche di trasgressione rispetto a modelli formativi sclerotizzati e totalizzanti, ma rischia la dispersione, l’improvvisazione e la frammentazione se non incrocia metodi formativi consolidati nell’esperienza. Nello stesso tempo, la formazione istituzionale è sempre tendenzialmente conservatrice e filtrata da meccanismi burocratici che ne inibiscono la vitalità e l’aggiornamento. Io penso perciò a una struttura formativa pubblica – perché continuo a pensare che il diritto allo studio per tutti sia un valore sociale irrinunciabile – che sia aperta al territorio, alle germinazioni spontanee che in esso si manifestano, capace di sollecitare gli studenti ad autoformarsi, può sembrare un paradosso ma non lo è. L’istituzione formativa è da considerarsi incompiuta, eppure necessaria, come una stazione di servizio che garantisce al viaggiatore il carburante necessario per trovare la sua personale sorgente di energia.
Nel 1999 lei ha creato il corso sperimentale di Arti Multimediali presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara, ed è stato tra i primi ad essere attivati in Italia. Da dove è venuta l’esigenza di creare questi corsi? Quale è stato il rapporto con le istituzioni inizialmente?
L’esigenza era sorta fin da quando, nell’Accademia di Torino, io avevo iniziato la mia attività di docente per la materia di Teoria e metodo dei mass-media. Io non avevo in mente di fare l’insegnante, mi ero appena laureato in Storia del cinema, mi dedicavo alla scrittura e al cinema come autore, e per una serie di circostanze fortuite mi sono trovato nel ruolo dell’insegnante, e mi sono subito domandato quale fosse stata nella storia dell’arte contemporanea la relazione tra le arti visive e i mass-media (fotografia, cinema e televisione). Lo avevo studiato ma non abbastanza approfondito, man mano che mi immergevo in quel mondo, dalle avanguardie artistiche storiche fino alla video arte e alla nascente computer art, mi rendevo conto quale ricchezza straordinaria di ricerche e di inediti risultati espressivi si erano generati da quell’incontro tra media e arte. Eppure nell’insegnamento delle accademie di Belle arti italiane (diversamente accadeva all’estero) di tutto questo universo non c’era traccia, l’idea stessa di usare a lezione un televisore e mostrare film e video d’artista negli anni Ottanta era una specie di eresia, a me sembrava assurdo perché la video arte era nata negli Sessanta e nelle mostre internazionali si vedeva spesso. Ho quindi iniziato, insieme ad alcuni altri colleghi sparsi nelle accademie italiane, a centrare il mio programma didattico su questo terreno, aprendo l’insegnamento teorico anche a una parte pratica di progettazione e realizzazione di video. Ma con il passare del tempo e l’incalzare dell’innovazione tecnologica, soprattutto il computer multimediale e la Rete, diventò lampante che una materia soltanto non poteva far fronte alla complessità e varietà di discipline che stavano formando la cosiddetta New Media Art. Di qui la mia proposta al Direttore Carlo Bordoni dell’Accademia di Carrara, dove avevo ottenuto la cattedra di ruolo, di creare un corso sperimentale di Arti Multimediali, utilizzando alcuni docenti di ruolo o supplenti competenti in materia e poi coinvolgendo come docenti a contratto alcuni validissimi artisti (in particolare furono miei complici nell’impresa Fabio Amerio, Davide Bini, Federico Bucalossi, Theo Eshetu, Mauro Lupone, Gilberto Pellizzola, Tommaso Tozzi, Giacomo Verde). Il Direttore Bordoni fu lungimirante e mi sostenne in quest’impresa pionieristica che però partiva da zero, senza spazi adeguati, con pochissime attrezzature, una forte precarietà istituzionale e una grande ostilità di molti docenti locali legati alla tradizione della scultura. Da parte mia invece avevo l’inesorabile affermarsi delle arti elettroniche e digitali che attiravano ogni anno più studenti al nuovo corso di Carrara, fino a farlo diventare una realtà consistente, vitale e irreversibile; poi ulteriormente consolidata dal coordinamento di Tozzi, quando io mi trasferii a Brera nel 2003, su invito di Paolo Rosa, per insegnare nel corso di Nuovo tecnologie dell’arte (omologo a quello di arti multimediali). A Milano ho trovato una realtà più strutturata e attrezzata, ma anche lì una forte diffidenza, e talvolta ostilità, da parte di molti colleghi e dell’amministrazione verso un corso, ormai istituzionale, che ha raggiunto le dimensioni di una piccola accademia e raccoglie un corpo prestigioso di docenti. Un conservatorismo anacronistico, che rivela anche la condizione provinciale della formazione artistica in Italia rispetto al resto d’Europa, e che riflette l’ignoranza e l’incomprensione degli stessi vertici ministeriali verso il settore che più di ogni altro può rappresentare il presente e il futuro della formazione artistica.
Drammaturgia Multimediale è uno dei corsi che lei insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Come può essere definita la drammaturgia multimediale? Quali sono secondo lei, le caratteristiche più interessanti delle nuove tecnologie su una costruzione drammaturgica?
“Drammaturgia multimediale” è una definizione che ho inventato io in ambito accademico, nominando così il primo corso italiano che unisce la scrittura creativa e performativa alla tecnologia e al linguaggio multimediali. Poi, con l’istituzionalizzazione dei corsi sperimentali multimediali, la definizione è stata acquisita a livello ministeriale ed è entrata a far parte delle aree disciplinari delle nuove declaratorie. Sono arrivato a questa scelta partendo dalla mia esperienza artistica come autore di testi teatrali, per lo più concepiti in funzione di spettacoli multimediali, sceneggiature cinematografiche, video e graphic novel, in particolare la creazione del primo ipertesto teatrale italiano (“Storie Mandaliche”, regia e narrazione di Giacomo Verde, 1998) mi ha portato a ripensare il senso e la funzione della drammaturgia contemporanea che si relaziona ai nuovi media (cfr. il capitolo “Verso una drammaturgia multimediale” in A.Balzola, A.M.Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Garzanti, 2004) . Cambiano radicalmente le modalità , i ruoli dello sceneggiatore e del drammaturgo si mescolano, l’autore è coinvolto in tutto il processo produttivo e quando non diventa lui stesso il regista dell’opera multimediale, partecipa comunque alla fase realizzativa rielaborando in tempo reale la sua scrittura in funzione delle esigenze specifiche della messa in scena. La drammaturgia multimediale, più in dettaglio, è una pratica artistica di ideazione e progettazione che estende il suo campo d’intervento a tutte le forme espressive (teatro, cinema, video, fumetto, animazione, arti visive) che utilizzano le tecnologie digitali dei new media secondo modalità narrative e /o performative.
Gli aspetti innovativi fondamentali della drammaturgia multimediale sono l’ipertestualità, cioè la creazione di narrazioni non lineari e di partiture che insieme a sequenze narrative scritte contengono il progetto di sequenze visive (story-board e clip video) e di sequenze sonore (tracce musicali e/o di sound-designer), e l’interattività, una condizione che può riguardare sia il performer (che interagisce in tempo reale con le sequenze narrative, visive e sonore) sia il pubblico (che può intervenire sulle modalità e sullo sviluppo delle sequenze narrative, visive e sonore). Un’altra caratteristica di questa “tecno-opera aperta” è l’essere un work in progress, che subisce molteplici mutazioni proprio in virtù delle molteplici possibilità di sviluppo che contiene al proprio interno. Il teatro è potenzialmente e può essere concepito come un laboratorio antropologico. La sperimentazione drammaturgica multimediale si muove oggi in questa direzione, non solo per elaborare nuove forme espressive ma per disegnare una mappa delle mutazioni in atto e a venire dell’uomo e del suo habitat: intervenendo sulla qualità e sulla struttura dell’evento scenico, segnando il passaggio da un testo lineare a un ipertesto polimorfo e il passaggio dal teatro spettacolo allo spettacolo laboratorio, dove il drammaturgo si trova a scrivere eventi performativi polisensoriali in tempo reale.
In una comunicazione dominata dall’ipertesto e il meta-dato, quale tipo di narratività può emergere? In quale modo nasce la strutturazione del significato?
Come ho accennato nella risposta precedente, nell’era digitale al testo iperstrutturato, compiuto e con un carattere ancora spiccatamente letterario, tende a subentrare una sequenza narrativa ipertestuale e sinestetica, mutante e variamente ricombinabile nella scrittura scenica multimediale. La narrazione diventa più sintetica e metalinguistica, si associa all’immagine e al suono fin dal suo concepimento più che – come accade nel teatro tradizionale – essere messa in scena a posteriori. Nella performance interattiva, il senso si dispiega sinesteticamente, cioè attraverso la pluralità dei sensi, e, aprendo il campo a una varietà di scelte sia performative sia fruitive, si presenta come una mappa di differenti percorsi possibili. In questo senso l’intuizione concettuale del rizoma, di Deleuze-Guattari, che è applicabile, in termini macro, alla Rete, si coniuga perfettamente, a livello micro, con le nuove modalità di strutturazione del significato nel linguaggio multimediale digitale. E forse sarebbe meglio parlare di un superamento dell’idea di struttura a vantaggio di un processo metamorfico del significato, molto più simile alla sequenza biogenetica
Paolo Rigamonti
Paolo Rigamonti (1963) nasce a Milano, città dove vive e lavora.
Ha lavorato per diversi anni nel campo della progettazione di edifici residenziali e per il terziario, locali pubblici, interni, graphic e industrial design.
Dal 1998 si dedica completamente a progetti di design legati alle nuove tecnologie, come consulente di alcune fra le principali aziende del settore.
Nel 2000 è fondatore, con Silvio Mondino, di Limiteazero, gruppo di ricerca sperimentale sulle potenzialità dei nuovi media, dapprima interno alla agenzia di comunicazione BGS D’Arcy (oggi Leo Burnett) e dal 2002 come studio indipendente, con un percorso che si sviluppa parallelamente sulla produzione di progetti sperimentali e sulla elaborazione di progetti su commissione.
Il lavoro di Limiteazero è stato più volte recensito ed esposto in diverse occasioni sia Italia che all’estero
Dal 2005 è ideatore e direttore artistico di MixedMedia, evento di cultura elettronica svoltosi presso l’Hangar Bicocca a Milano. E’ docente di mediascape design all’interno del Master in Digital Environmental Design presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Da quanti anni insegna nell’ambito delle culture e arti tecnologiche? In questi anni ha visto dei cambiamenti nelle nuove generazioni di studenti?
Insegno al master di NABA da soli tre anni, per cui direi che la mia esperienza è troppo breve per poter constatare differenze sostanziali. In ogni caso ho la sensazione che vi sia uno spostamento verso una richiesta di una maggior pragmatismo da parte degli studente e una generale preoccupazione per gli effettivi sbocchi professionali del percorso formativo, domanda alla quale, in effetti, e sempre più difficile rispondere.
Solo in Italia si sta assistendo ad un forte interesse verso le tematiche riguardanti le arti tecnologiche. Secondo lei, siamo pronti a competere a livello internazionale da un punto di vista quantitativo e qualitativo dei progetti?
Direi che oggettivamente questo non sembra uno scenario molto probabile. Le esperienze Italiane sono ancora molto poche e, indipendentemente dal livello qualitativo del lavoro svolto, mi sembrano molto scoordinate e quasi per nulla accomunate da relazioni fra di loro. Penso che questa difficoltà di aggregazione e networking sia il primo ostacolo e comunque la mancanza di qualunque punto di riferimento (museo, fondazione, galleria, etc..) sia un secondo elemento di difficoltà oggettiva. Inoltre mi sembra di avertire l’arrivo di un epoca meno sensibile alla tecnologia e credo che anche in Italia, prima o poi, si sentirà questa distanza.
Viviamo in un paese ricco di tradizione artistica. Il peso della cultura che ci trasciniamo è un limite per l’innovazione e la ricerca tecnica e artistica, o può essere un punto da sfruttare a favore?
Potrebbe essere anche uno stimolo, in realtà, se non vi fosse un condizionamento economico che determina a sua volta un ostacolo culturale.
Gli stanziamenti di fondi dell’arte in questo paese sono distribuiti fra il teatro e il restauro di opere del patrimonio storico, in un contesto che tende peraltro a svolgere solo un ruolo di valorizzazione ( o sfruttamento?) dell’esistente senza dedicarsi in modo sistematico alla ricerca e alle nuove forme espressive. La scarsità di spazi pubblici per l’arte contemporanea mi sembra già in se un segno evidente.
Ovviamente occorrerebbe un salto culturale, la capacità di vedere oltre la propria eredità e individuare nuove frontiere, ma anche le tendenze degli ultimi anni non sembrano incoraggianti in questo senso,
Le istituzioni deputate all’istruzione e alla ricerca sono all’altezza del proprio ruolo? Sono insufficienti, o addirittura ostacolo per svolgere una buona attività formativa?
Perlomeno in tema di ricerca sui nuovi media non mi risulta vi sia nulla in Italia e, a quanto pare, sia rimasto ben poco anche per altri settori.
Sul tema della formazione invece, assistiamo ad una sempre maggior offerta, soprattutto in ambito privato, che tende a porsi come punto di riferimento sulla trasformazione del mondo professionale. Ovviamente, nel momento in cui si tende a definire in un sistema rigido un modello per natura in continua mutazione come i nuovi media, occorre effettuare semplificazioni e schematismi, e ciò rimanda inevitabilmente ad una natura di obsolescenza intrinseca in questo tipo di offerta formativa.
Non credo quindi che ciò sia particolarmente dannoso, ma se non altro che possa spesso comportare l’effetto di iscriversi ad un corso che sarà già “superato” nel momento in cui lo finisci.
Quali motivazioni vede nella maggior parte dei suoi alunni? Sono generalmente spinti da intenti di carattere artistico, sociale, espressivo , filosofico, o professionale?
Ovviamente la casistica è piuttosto ampia e le motivazioni molto diverse fra loro. In generale ho la sensazione che vi sia uno spostamento sempre più evidente verso una percezione sempre più professionale, anche se vedo molta confusione rispetto alle proiezioni di reali possibilità di applicazione delle proprie competenze.
La figura professionale del media designer è ancora piuttosto fuori fuoco, non ben definita nelle competenze e nelle modalità di applicazione, per cui anche gli studenti tendono a delineare durante il corso quali potranno essere i punti per loro più interessanti.
In genarale è raro che si arrivi a questo tipo di formazione con una vocazione precisa. Osservo che spesso si tratta di studenti che cercano una direzione e tentano una strada da cui sembrano affascinati, ma è durante il percorso formativo che avviene una sorta di selezione darwiniana naturale.
In un ambito di insegnamento artistico e/o professionale, è giusto imporre un metodo/visione totalizzante, oppure è preferibile dare una certa libertà intervenendo solo con suggerimenti?
Come sempre la virtù sarebbe al centro. Provenendo dal mondo della professione tendo ad un approccio più indirizzato ad una dinamica di trasferimento che di condivisione.
Non si tratta di imporre, quanto piuttosto di travasare una visione e un metodo, cercando poi di individuare le capacità degli studenti di assimilare quegli input per trasformali in un patrimonio proprio. Una volta attivato questo passaggio si interviene per correzioni e suggerimenti ma, come sempre, è la maturità individuale la vera discriminante.
Su cosa si basano in particolar modo le sue valutazioni didattiche (esami, prove, ecc. …)? Nelle conoscenze acquisite, nella capacità di ragionamento, nell’esposizione formale delle competenze, nella sensibilità artistica, o cos’altro?
Credo che la capacità di analisi e la maturazione di un pensiero critico siano gli aspetti che tento a valutare con più attenzione.
Cerco sempre di stimolare la dilatazione del pensiero, di incoraggiare lo sviluppo di una capacità critica di collegamento fra le parti e, soprattutto, di imparare a staccarsi dalle risposte codificate e istintive.
Non ho mai creduto che la scuola debba essere un luogo di formazione professionale che si attiva attraverso l’insegnamento dell’uso degli strumenti, credo piuttosto che debba essere un laboratorio di sperimentazione e di educazione del pensiero.
Gli strumenti si modificheranno in tempi sempre più brevi, la capacità di analizzare e proiettare pensiero invece è un patrimonio personale che acquista valore nel tempo attraverso la sua crescita.
Quali consigli darebbe a chi vuole iniziare a studiare in ambito artistico/culturale i new media e le nuove tecnologie?
In generale credo valgano le cose più elementari e di buon senso, come quella di tendere ad una formazione aperta e ricca, costruita su solide fondamenta scientifiche e umanistiche e, nel contempo, con una struttura dinamica e velocemente ricomponibile.
L’altro aspetto è quello della visione. Occorre sempre costruirsi una proiezione, cercare di guardare ai prossimi dieci anni, cercando di imparare a differenziare le cose sostanziali e i meteoriti senza futuro. Per fare questo è importante esercitare la capacità critica, cercando di contenere l’entusiasmo per le novità e per gli effetti spettacolari che, di solito, hanno vita breve.
Per fare questo è fondamentale conoscere bene i principi di base della tecnologia per poterne sfruttare a fondo le potenzialità espressive.
Quanto è importante insegnare agli studenti il metodo? Per metodo intendo progettuale, e cognitivo nell’approccio alla teoria. Quale metodologia e/o deontologia professa?
Per quanto mi riguarda il metodo è praticamente l’unico punto che ritengo veramente importante nella mia esperienza di insegnamento.
Come dicevo poco sopra, ritengo che la formazione non possa svolgersi unicamente attraverso la tecnica, ma debba necessariamente passare della costruzione di modelli di approccio all’analisi e alla progettazione.
L’intelligenza della contemporaneità è evidentemente basata sul modello della velocità e armonia dei collegamenti fra le parti, questo non significa però il superamento tout court del modello di pensiero basato sull’approfondimento.
Tendo a proporre agli studenti il modello di pensiero che ho ereditato a mia volta dai maestri che me lo hanno trasmesso al Politecnico di Milano, e che ho cercato di trasformare e coltivare attraverso la mia esperienza.
Come struttura generalmente il suo programma didattico? Quali metodi didattici utilizza per le sue lezioni?
Cerco di alternare fra lezioni ex-cathedra ed esercitazioni di vario tipo.
Nelle lezioni propongo l’analisi di casi che mi sembrano rilevanti o paradigmatici, che consentono di individuare principi di carattere generale o temi ricorrenti che possono essere definiti e descritti.
Le lezioni sono anche l’occasione per proporre frammenti di filosofia, di matematica astratta o di filosofia della scienza, in modo da definire lo scenario più ampio di cui occorre occuparsi ed essere consapevoli.
Nelle esercitazioni tendo a proporre modelli astratti di ragionamento sullo spazio e sulla forma, cercando di formare un pensiero che si adatti sempre più al salto concettuale fra materiale e digitale, fra atomo e bit, fra spazio fisico e spazio teorico.
Usare brevi e semplici stringhe di codice per costruire composizioni formali è una delle attività che cerco di proporre con continuità, perché credo sia un modo di approcciarsi in modo elementare alla formazione di una capacità di valutazione degli elementi disponibili e alla complessità della forma.
Nel mondo della rete, ma non solo, si sta assistendo alla consacrazione del prosumatore (produttore/consumatore di contenuti). Tutti siamo artisti, tutti partecipiamo all’attività produttiva. Da un punto di vista professionale e/o artistico come si dovrebbe rapportare a ciò uno studente? Quali strumenti gli vengono offerti per distinguersi nel proprio lavoro?
Gli studenti appartengo, per la maggior parte, ad una generazione che è già appartenete a questa dinamica.
Questa appartenenza contiene in se la consapevolezza dell’importanza del network, del far parte di un sistema più grande e diffuso di cui si è parte in diverse forme.
Penso che questa lucidità sia già in se uno strumento, nel senso che contiene in se la l’idea di una identità multipla che si evolve in relazione all’evoluzione dell’intero sistema, osservandolo, attingendo, travasando e riversando nel flusso il proprio lavoro.
Le generazioni che sono nate in una cultura fortemente “televisiva” soffrono generalmente di una incapacità critica nei confronti dei contenuti e delle forme che gli vengono proposte. Ha notato anche Lei questo, nei suoi studenti? Il metodo educativo dovrebbe contrastare o adattarsi a questa situazione?
Non penso che questa debolezza critica sia così chiaramente ascrivibile alla alla televisione, mi sembra anzi che già i nuovi media in se non possano essere considerati così favorevolmente come “educativi”.
Se la “televisionizzazione” delle menti significa l’abitudine a ricevere informazione in modo passivo e indifferenziato, occorre dire che nuovi media hanno comunque portato una sorta di “wikipedizzazione”, ovvero una informazione che è si interattiva, ma frammentaria e senza approfondimento.
Suona come un linguaggio antico, ma è ovvio che la mancanza di input letterari, artistici e culturali in generale, ha generato un appiattimento delle facoltà critiche. Credo che l’unica possibilità, come dicevo a proposito del metodo, sia quella di presentare le tematiche che si propongono tracciando sempre la vastità dello scenario che le contiene, offrendo la possibilità di infinite traiettorie ed approfondimenti, seppur sempre in linea con l’idea di una intelligenza che lavora sui collegamenti.
Nei corsi che riguardano le arti tecnologiche approdano studenti che provengono dai percorsi di formazione più disparati. Come si riescono a gestire queste eterogeneità? Quali meccanismi vengono predisposti per fare fronte a lacune tecniche o teoriche?
Ad essere sincero di questo aspetto mi occupo molto poco.
Il mio metodo di insegnamento, come dicevo, comprende aspetti molto diversi che, tendenzialmente, posso adattarsi alle diverse formazioni di provenienza degli studenti.
Credo infatti che proporre un metodo che spazia dalla cultura umanistica a quella artistica e tecnica, abbia in se la potenzialità di fungere da punto di raccordo di esperienze anche molto eterogenee.
Recentemente la forma di workshop viene molto utilizzata sia in accademie e istituzioni sia in altri contesti, ma non è ancora molto chiaro il vero ruolo e funzionamento. Cosa è e cosa dovrebbe essere secondo lei un workshop? Quali aspetti positivi e quali aspetti negativi offre?
Credo dipenda molto dai casi.
In generale sono dubbioso sulla proliferazione di questo metodo, sebbene ritengo possa essere molto potente e utile alcune volte.
Un workshop credo dovrebbe sempre basarsi sul principio di un salto concettuale di pensiero molto forte, proponendo un esempio di costruzione pratica di un modello di riferimento che lo incarni.
E’ chiaro che i risultati migliori si possono ottenere quando il workshop è inserito in un programma più ampio, che accompagna a prepara all’evento, in modo da poter essere una parentesi in cui esplodono tematiche e idee già masticate.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, la funzione artistica nel panorama contemporaneo?
Non saprei. Tutto sommato credo ancora ostinatamente che l’arte sia una visione, un luogo dove si sviluppano le percezioni sul divenire, anche se l’orgia del mercato e lo star system hanno violentemente sfigurato questa immagine.
Non credo che l’arte digitale (se davvero esistesse) dovrebbe essere diversa da questo, essendo a tutti gli effetti un lavoro di indagine sulle forme della tecnologia e del suo impatto sulla persona. C’è sempre un moto antropologico nell’arte, perfino quando non ne è consapevole.
Credo che la sua essenza sia ancora quella di dare un senso e una forma alle cose che ancora non ne hanno, spinta dall’inquietudine di dare un senso all’esperienza umana.
L’autoformazione è una pratica che nasce dall’esigenza di avere una struttura formativa che non sia istituzionalizzata, e estranea a determinati meccanismi centralizzati. Potrebbe anche essere considerata una reazione di sfiducia nei confronti delle istituzioni educative. Anche in ambito artistico esistono questo genere di realtà (il S.A.L.E. di Venezia, ad esempio). Lei cosa pensa di questa alternativa forma didattica? Quali aspetti positivi e/o negativi si porta?
L’autoformazione credo sia stata soprattutto una necessità per le generazioni, come la mia, che si sono avvicinate a temi rispetto ai quali non vi era ancora un modello formativo consolidato.
La mia conoscenza delle tecnologie in effetti è avvenuta esclusivamente secondo un metodo da autodidatta, imparandomi da solo l’uso dei diversi software, l’elaborazione del codice, le componenti tecniche.
Non mi sembra però che le generazioni più giovani siano così inclini a questo metodo, cercano piuttosto di trovare un luogo dove apprendere in modo diretto e filtrato.
Leggere i manuali, ad esempio, è una pratica sempre più rara.
Nello stesso tempo, credo che l’autoformazione sia una pratica imprescindibile dalla dinamica degli eventi. La velocità di trasformazione comporta continui assestamenti e quindi alla necessità di un continuo studio.
La professionalità è liquida, tanto per citare Bauman a sproposito, e pertanto necessita di un costante adattamento e ampliamento, che la scuola non può recepire in tempi sufficientemente brevi.
Potremmo spingerci a dire che quando un tema esce dall’esigenza dell’autoformazione e si pone come sistema strutturato di formazione, è già superato.
La sua formazione proviene dall’ambito dell’architettura, e anche nei lavori che fa lei insieme a Silvio Mondino sotto il nome di Limiteazero, è molto presente un certo rigore e minimalismo. La metodologia progettuale che lei insegna è l’espressione stessa del lavoro che si deve produrre?
No, non credo che la metodologia proposta possa essere definita strettamente in questo modo.
Sicuramente l’esperienza di Limiteazero è frutto di un lavoro di studio e analisi di esperienze estetiche e metodologiche di una certa derivazione e collocazione storica, ma non ho mai pensato che questo debba essere considerato come la struttura portante del metodo, quanto piuttosto parte di esso e della sua trasmissione.
La nostra esperienza è particolare proprio per le formazioni diverse e gli ambiti disciplinari da cui proviene. Sicuramente il nostro metodo risulta peculiare, perché comprende il tentativo di mettere in connessione elementi, conoscenze e sensibilità apparentemente distanti fra loro, che cerchiamo di relazionare attraverso un linguaggio necessariamente rigoroso e minimo, nella volontà di portare in evidenza le caratteristiche di ognuna delle componenti.
Nell’insegnamento tendo a proporre questa esperienza come metodo, con tutta l’umiltà della proposta e non dell’imposizione, cercando di stimolare la sensibilità alla costruzione basata sulla “sublimazione” di processi apparentemente semplici che, durante il processo, si scoprono estremamente complessi.
Le tendenze estetiche del media design più sperimentale, sembrano dirigersi sempre più in una direzione minimale e essenziale. La semplicità può essere una soluzione al sovraccarico cognitivo nell’era dell’informazione?
Sicuramente non è un caso che il principio di “semplicità” negli ultimi anni si possa ritrovare sempre più spesso in contesti legati alla tecnologia, basti pensare a John Maeda o alla Philips.
Lavorare con la tecnologia, significa di norma dover plasmare una quantità informazione che deve essere filtrata e riportata in forma facilmente accessibile. Spesso il concetto di semplificazione si accompagna ad un’idea di minimalismo, ma non penso che questo binomio sia assoluto. Hanno il loro peso scelte linguistiche e attitudini progettuali, ognuno segue un proprio percorso cercando di comunicare una metodologia di lavoro.
Un altro aspetto molto importante dei workshop che lei tiene, è la riflessione sulle qualità estetiche e tecniche del medium che viene usato. In genere però assistiamo ad un utilizzo del digitale, ad esempio, come sostituzione delle funzioni dell’analogico, senza una particolare rielaborazione in base alle sue qualità. Sente necessario un rinnovamento nelle estetiche del contemporaneo, o sta vedendo già dei cambiamenti in questa direzione?
La tecnologia sembra fare salti enormi in tempi velocissimi, in realtà osservando più attentamente, le sue basi sono pressoché inalterate da un tempo relativamente lungo. Non cambiano le tecnologie, ma si incrementano in continuazione le se applicazioni e le sue performance.
In questo quadro mi sembra importante impadronirsi delle proprietà espressive degli elementi di base della tecnologia, comprenderne la struttura e le potenzialità per “estrarne” le qualità estetiche.
Non credo infatti che il nostro lavoro significhi trovare sempre soluzioni originali tecnologicamente avanzate, quanto piuttosto sviluppare la capacità di un uso sapiente degli strumenti elementari per riproporli in forme stra-ordinarie.
Cerco sempre di far passare questo punto nelle mie esperienze di insegnamento, in effetti, perché sono convinto che faccia parte di quella cultura di progetto che parte dall’assunto che il problema del progettista non sia l’invenzione, ma la rielaborazione e reinterpretazione di temi già dati dalle cose stesse.
Antonio Caronia
Antonio Caronia (1944) vive e lavora a Milano, dove insegna “Sociologia dei processi culturali” e “Comunicazione multimediale” all’Accademia di Belle Arti di Brera, “Estetica dei nuovi media” e “Antropologia dello spazio” alla NABA. È Director of Studies del M-Node del Planetary Collegium di Plymouth.
La sua ricerca riguarda la teoria della comunicazione, l’immaginario scientifico e tecnologico, il rapporto fra immaginario e movimenti politico-sociali. È interessato agli effetti sociali e politici dell’innovazione tecnologica e agli aspetti estetici del comportamento sociale in relazione alle nuove tecnologie.
Collabora a L’Unità, D’Ars, Cyberzone, Digimag. È autore di Il cyborg (Theoria 1985; nuova edizione ShaKe 2008), Il corpo virtuale (Muzzio 1996), Houdini e Faust. Breve storia del cyberpunk (con D. Gallo, Baldini&Castoldi 1997), Archeologie del virtuale (Ombre corte 2001), Philip K. Dick: La macchina della paranoia (con D. Gallo, X Book 2006), Universi quasi paralleli (Cut-up, 2009). Ha curato L’arte nell’epoca della producibilità digitale (con E. Livraghi e S. Pezzano, Mimesis 2006), Un’ambigua utopia. Fantascienza, radicalità e ribellione negli anni ’70 (con G. Spagnul, Mimesis 2009), Filosofie di Avatar. Immaginari, soggettività, biopolitiche (con A. Tursi, Mimesis, 2010)
Da quanti anni insegna nell’ambito delle culture e arti tecnologiche? In questi anni ha visto dei cambiamenti nelle nuove generazioni di studenti?
Insegno nelle accademie da circa nove anni. Prima di allora (sino al 1990) avevo insegnato circa diciotto anni nelle scuole secondarie superiori, ma insegnavo matematica, quindi le tematiche sono comunque molto diverse. Non mi pare di aver notato cambiamenti sostanziali nell’atteggiamento dei miei studenti nei nove anni di insegnamento nelle accademie. La maggiore “coscienza politica” che mi pare di notare negli ultimi due/tre anni è dovuta secondo me più a fattori ambientali che a un cambiamento generazionale.
Solo recentemente in Italia si sta assistendo ad un forte interesse verso le tematiche riguardanti le arti tecnologiche. Secondo lei, siamo pronti a competere a livello internazionale da un punto di vista quantitativo e qualitativo dei progetti?
Naturalmente no, come è dimostrato dai risultati. L’interesse per le arti tecnologiche è ridicolmente basso nelle scuole e in tutto il sistema formativo, nei media, nel sistema della cultura, nel mondo politico, nel sistema economico. Non abbiamo leggi che incentivino questo tipo di ricerca (come anche la ricerca in genere – è un fatto ampiamente noto). L’attenzione alle arti tecnologiche da parte dei musei di arte contemporanea (quei pochi che ci sono in Italia) è sporadica e non continuativa: le eccezioni (GAM di Gallarate, PAN di Napoli) sono poche e scarsamente influenti. Spesso quei pochi artisti e ricercatori che comunque emergono nel panorama italiano cercano all’estero condizioni più favorevoli al proprio lavoro (pensiamo a Jaromil, Bazzichelli, Molle industria, Deseriis). In parte questo è frutto di un ritardo nella diffusione delle tecnologie digitali in Italia rispetto ad altri paesi sviluppati (ritardo differenziato: è stato così per i computer, per esempio, ma non per i telefoni cellulari), ma ormai questo ritardo mi pare almeno in parte colmato. A livello del consumo di tecnologie – specie fra i giovani – siamo più o meno al livello di altri paesi. È sul terreno della ricerca e della produzione che siamo indietro. Consumiamo molta tecnologia digitale (sarebbe impossibile il contrario), ma ne produciamo pochissima. E non avendo un apprezzabile livello di ricerca tecnologica, è difficile che si sviluppi una cultura tecnologica, quindi anche una cultura delle arti tecnologiche.
Viviamo in un paese ricco di tradizione artistica. Il peso della cultura che ci trasciniamo è un limite per l’innovazione e la ricerca tecnica e artistica, o può essere un punto da sfruttare a favore?
In effetti questa a me pare una delle cause del nostro ritardo. È quasi impossibile che il sistema pubblico o privato destini risorse apprezzabili alla ricerca su arti e tecnologie quando tutto l’immaginario, i media, la stessa “opinione pubblica”, diciamo il “comune sentire” in senso lato, sono concentrati sulla salvaguardia di un patrimonio artistico del passato, che è certamente imponente, e merita ovviamente di essere salvaguardato, ma obbiettivamente sottrae attenzione alla ricerca su attività più legate al presente e alla sensibilità del contemporaneo. Ma una tale “sensibilità del contemporaneo” in Italia è confinata a gruppi ancora più ristretti e impotenti che in altri paesi.
Le istituzioni deputate all’istruzione e alla ricerca sono all’altezza del proprio ruolo? Sono insufficienti, o addirittura ostacolo per svolgere una buona attività formativa?
Vale quanto ho risposto prima. Tranne lodevoli eccezioni, le Accademie in Italia sono in mano a pittori, scultori e scenografi falliti, che trascinano stancamente gli allievi (pochi) che riescono ancora ad abbindolare in un analogo e futuro destino di fallimento. Purtroppo, anche i pochi Dipartimenti e Scuole di Nuove tecnologie o Media Design o Arte mediale nati in Italia negli ultimi dieci anni abbondano di “artisti multimediali” falliti (o mai decollati). Parlare di ”attività formativa” per la gran parte delle accademie in Italia è un ridicolo eufemismo. Paradossalmente, dalla forzata introduzione del deprecabile sistema del “3+2” e in genere del cosiddetto “processo di Bologna” nella Accademie, era nato un effetto collaterale positivo, e cioè la messa in soffitta della logica del “maestro unico”, del corso fondamentale gestito sul modello della “bottega d’arte”, dove l’allievo/a imparava con lunghe ore di pratica a introiettare lo “stile” e il modus operandi del maestro: l’esposizione dell’allievo/a a più corsi, il suo entrare in contatto con una pluralità di esperienze, punti di vista e metodologie diverse poteva attivare in lei/lui percorsi virtuosi di apertura e di conoscenza. Mi pare che tutto ciò stia per finire con le recentissime disposizioni del CNAM che reintroducono dalla finestra il “maestro di bottega” cacciato dalla porta, con l’imposizione del megacorso triennalizzato da 12 crediti.
Quali motivazioni vede nella maggior parte dei suoi alunni? Sono generalmente spinti da intenti di carattere artistico, sociale, espressivo , filosofico, o professionale?
Professionale, nella grande maggioranza dei casi. Non vedo grandi differenze tra Brera e Naba. Non è un fatto totalmente negativo, se significa l’abbandono del miraggio romantico dell’”artista”. Lo è se significa accettazione beota e supina delle “logiche di mercato”.
In un ambito di insegnamento artistico e/o professionale, è giusto imporre un metodo/visione totalizzante, oppure è preferibile dare una certa libertà intervenendo solo con suggerimenti?
Ho in orrore il termine “educazione”. Io non voglio “educare” (cioè coartare) nessuno. Quindi, nessuna imposizione di visioni totalizzanti. Al tempo stesso, però, l’insegnante non può – neppure se lo volesse – rinunciare alla parzialità del proprio punto di vista. L’unica scelta possibile (e comunque la mia) è dunque quella di esporre e sviluppare questo punto di vista, argomentandolo nel modo migliore possibile, ma mai presentandolo come l’unico possibile. No alla logica degli universali, sì alla parzialità e alla sincerità dei “saperi situati”. L’allievo/a deve essere messo/a nelle condizioni di sviluppare il proprio percorso autonomo.
Su cosa si basano in particolar modo le sue valutazioni didattiche (esami, prove, ecc. …)? Nelle conoscenze acquisite, nella capacità di ragionamento, nell’esposizione formale delle competenze, nella sensibilità artistica, o cos’altro?
Insegno delle materie teoriche. Le mie valutazioni non possono che basarsi sulla capacità di ragionamento autonomo e di argomentazione di tesi che spesso non condivido. Credo che la conquista di un’autonomia da parte dei propri allevi sia lo scopo principale a cui deve tendere un insegnante.
Quali consigli darebbe a chi vuole iniziare a studiare in ambito artistico/culturale i new media e le nuove tecnologie? Quanto è importante insegnare agli studenti il metodo? Per metodo intendo progettuale, e cognitivo nell’approccio alla teoria. Quale metodologia e/o deontologia professa? Come struttura generalmente il suo programma didattico? Quali metodi didattici utilizza per le sue lezioni?
Confesso di essere un insegnante molto tradizionale. Faccio lezioni frontali, poi sollecito dibattiti che quasi mai si realizzano. Cerco di suscitare interesse per gli argomenti che propongo con l’ampiezza dei riferimenti e la passione dell’argomentazione. Poi sta allo studente leggere, riflettere, approfondire, e se è il caso abbracciare tesi o metodi alternativi ai miei.
Nel mondo della rete, ma non solo, si sta assistendo alla consacrazione del prosumatore (produttore/consumatore di contenuti). Tutti siamo artisti, tutti partecipiamo all’attività produttiva. Da un punto di vista professionale e/o artistico come si dovrebbe rapportare a ciò uno studente? Quali strumenti gli vengono offerti per distinguersi nel proprio lavoro? Le generazioni che sono nate in una cultura fortemente “televisiva” soffrono generalmente di una incapacità critica nei confronti dei contenuti e delle forme che gli vengono proposte. Ha notato anche Lei questo, nei suoi studenti? Il metodo educativo dovrebbe contrastare o adattarsi a questa situazione?
L’affermazione è vera solo in parte. L’avvento di Internet ha un po’ trasformato questa situazione, senza però correggere del tutto la fiducia acritica nelle fonti. Alle lezioni, quando c’è una connessione, spesso diversi studenti controllano in tempo reale le affermazioni dell’insegnante cercando riscontri sulla rete. Wikipedia si è trasformato in un generatore di standard informativi, senza spesso – però – averne l’autorevolezza. Se l’atteggiamento di sottoporre a verifica le affermazioni del professore è sano e utile, non lo è altrettanto l’abitudine di considerare oro colato la prima affermazione che si trova in rete. Io mi sforzo di suggerire il metodo della verifica, della collazione e del vaglio delle informazioni.
Nei corsi che riguardano le arti tecnologiche approdano studenti che provengono dai percorsi di formazione più disparati. Come si riescono a gestire queste eterogeneità? Quali meccanismi vengono predisposti per fare fronte a lacune tecniche o teoriche?
È un grosso problema. Non credo ci siano soluzioni valide universalmente. Si perde un sacco di tempo a cercare di recuperare scarti di cognizioni, metodi ed esperienze fra gli studenti e le studentesse. Una soluzione starebbe forse nel favorire gli scambi fra gli studenti stessi. Creare gruppi di lavoro in cui gli studenti che vengono da filosofia spieghino Platone a quelli che hanno fatto l’artistico, e chi sa programmare lo insegni a quelli che vengono da lettere.
Recentemente la forma di workshop viene molto utilizzata sia in accademie e istituzioni sia in altri contesti, ma non è ancora molto chiaro il vero ruolo e funzionamento. Cosa è e cosa dovrebbe essere secondo lei un workshop? Quali aspetti positivi e quali aspetti negativi offre?
Un workshop è una forma di insegnamento/apprendimento tramite esperienza. Lo trovo molto utile. Da anni vagheggio la possibilità di mettere in piedi dei “workshop di teoria”, ma forse il compito è troppo difficile anche per me.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, la funzione artistica nel panorama contemporaneo?
Dissolversi nel sociale. Diventare “artivismo”.
L’autoformazione è una pratica che nasce dall’esigenza di avere una struttura formativa che non sia istituzionalizzata, e estranea a determinati meccanismi centralizzati. Potrebbe anche essere considerata una reazione di sfiducia nei confronti delle istituzioni educative. Anche in ambito artistico esistono questo genere di realtà (il S.A.L.E. di Venezia, ad esempio). Lei cosa pensa di questa alternativa forma didattica? Quali aspetti positivi e/o negativi si porta?
Ne penso tutto il bene possibile. Infatti partecipo attivamente alle attività di autoformazione degli studenti di Nuove Tecnologie di Brera. Gli aspetti negativi sono ampiamente compensati da quelli positivi.
Lei insegna sia in un’accademia pubblica che in una privata. Per loro natura presentano notevole differenze sotto molti aspetti. Quali sono i punti a favore di una, e quali dell’altra?
A favore di Brera: l’informalità del contesto, la maggiore vivacità dell’ambiente studentesco, la presenza di esperienze e punti di vista politici in conflitto. La libertà è più “sostanziale” che in Naba.
A favore di Naba: la migliore organizzazione, e il programma più ampio di conoscenze e contatti con esperienze esterne che offre.
Una delle conclusioni a cui sembra si arrivi, nelle sue lezioni, è l’impossibilità per l’uomo di arrivare ad una conoscenza onnicomprensiva della realtà. E’ il linguaggio, o l’intento conoscitivo stesso, a determinare i paradigmi del nostro modo di concepire la realtà. La funzione linguistica è quindi la materia base. Pensando a questo, quale metodologia didattica può risultare più efficace? Quale forma di “linguaggio” dovrebbe essere strutturale nel trasmettere le conoscenze?
La parola, ovviamente. La parola viva, che sia capace di esporre se stessa a tutti i rischi e le differenze di cui è portatrice. Anche in una scuola d’arte. Naturalmente, per me questo deriva dal fatto che non sono un artista visivo.
Francesco Monico
Francesco Monico è Direttore fondatore del Triennio di Media & New Media Art e del Biennio di Specializzazione in Film & New Media della Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, NABA, presso la quale detiene la Cattedra in Teoria e Metodo dei Mass Media.
Specializzatosi nei Media Studies con il prof. Derrick de Kerckhove, è Senior Fellow del McLuhan Program in Culture & Technology presso l’Università di Toronto. Con Roy Ascott come direttore di ricerca ha sviluppato il suo PhD dal titolo: Outline of a Subversive Technopoetic: for a libertarian pedagogy, una ricerca sull’utilizzo dell’arte come metodologia di esplorazione ermeneutica dei nuovi concetti del contemporaneo.
Studia la cultura Technoetica e il fenomeno dell’Arte Sincretica. Per l’University of Plymouth è direttore del Programma di ricerca Ph.D Planetary Collegium M-Node (www.m-node.org). E’ stato membro del consiglio scientifico del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano Leonardo da Vinci. E’ membro del Comitato Scientifico di Milano in Digitale. Ha scritto per diverse testate nazionali tra cui l’International Herald Tribune/Italy Daily, e Wired/it. Per Meltemi Editore ha scritto Il dramma televisivo, l’autore e l’estetica del mezzo (2006), e per il Quaderno di Comunicazione, La variazione technoetica (2008). Figura eclettica che rispecchia la formazione anglosassone e l’influenza della scuola di Ascott, interpreta il suo ruolo di professore e direttore didattico di un’istituzione dell’Alta Formazione, la dimensione di direttore di un programma di ricerca PhD, quella di artista e curatore, come parte di un’unica ricerca artistica e di senso. Come curatore ha portato in Italia la Bioarte con l’exhibit Monstre Sacrée di Brandon Ballengee. Come artista è considerato uno dei primi bioartisti italiani, è autore di opere quali The Artist Formerly Known As Vanda (2007-2010), un’installazione tech-noetica che esplora il concetto di alterità, e Is There Love in The Technoetic Narcissus?/C’è amore nel Narciso Technoetico? che propone il nuovo concetto di Narcisismo Culturale Umano.
Da quanti anni insegna nell’ambito delle culture e arti tecnologiche? In questi anni ha visto dei cambiamenti nelle nuove generazioni di studenti?
Ho iniziato a insegnare nel 1995, avevo ventisei anni e lavoravo al progetto di una City TV, era una cosa molto innovativa. I cambiamenti son sempre difficili da notare, Marshall McLuhan parlava della “sindrome dello specchietto retrovisore”, ovvero che la psicologia umana guarda sempre al passato, perché la nostra psiche taglia le innovazioni. Oggi gli studenti sono ‘nativi digitali’, ovvero sono nati nella tecnologia e per loro è una cosa normale. Il problema una volta era spiegargli la tecnologia, oggi è fargli capire quanto è centrale nella generazione delle ontologie, perché per loro è una cosa normale, ma il vero argomento è la questione del rapporto dell’uomo con la macchina-tecnica, ed è una questione che va oltre la dimensione dello studente, è un problema culturale di visione del mondo.
Solo recentemente in Italia si sta assistendo ad un forte interesse verso le tematiche riguardanti le arti tecnologiche. Secondo lei, siamo pronti a competere a livello internazionale da un punto di vista quantitativo e qualitativo dei progetti?
Le arti tecnologiche sono tradizionalmente marginali in un paese dove impera la separazione delle due culture, un’eredità crociana di cui dovremmo liberarci. Inoltre l’innovazione-progresso e la tecnica-macchina sono state celebrate nel primo novecento dalla destra e quindi la tecnologia, in un paese idealista-cattolico contro la destra e profondamente politico, non sembra trovare un terreno fertile. E’ tipico della politica interessarsi solo delle cose che fanno certi ‘numeri’, ovvero che raggiungono una massa critica per avere degli ‘effetti’. E oggi, che l’innovazione è necessaria, e la tecnologia ormai preme per essere rappresentata, vedremo il fiorire di tutta una schiera di esperti, professori, critici e curatori; ecco dal loro livello di preparazione e serietà dipende il livello competitivo che potremo assumere a livello internazionale.
Viviamo in un paese ricco di tradizione artistica. Il peso della cultura che ci trasciniamo è un limite per l’innovazione e la ricerca tecnica e artistica, o può essere un punto da sfruttare a favore?
Non credo che sia un limite, la tradizione artistica dell’Italia è legata a particolari epoche e particolari correnti. Il problema vero resta liberare la tecnologia da quella visione negativa, o alla meno peggio non interessata, che il mondo cattolico le riserva. Se la società italiana riuscirà ad essere più laica, non vedo alcun problema legato all’innovazione e alla ricerca tecnica. Attenzione però che la tecnologia e l’innovazione non devono avere priorità su tutto. Se pensiamo a tutte le sperimentazioni animali che la scienza e tutte le tecnologie hanno implicato, la diffusione massiccia e i numeri astronomici che ha raggiunto, allora la tecnica chiama a gran voce un limite. Ma anche qui rientra in campo la tradizione cattolica, che storicamente non considera la natura che un sottoprodotto divino a uso e consumo dell’uomo. E’ un paradosso, da un lato questa cultura nega la tecnica, dall’altro, una volta accettata dà via libera ai sui aspetti più deleteri. Bisognerebbe recuperare San Francesco. Ecco immaginare un San Francesco tecnologico, o meglio una santa Chiara, infatti sulle donne da sempre la tecnologia impatta in maniera molto più pervasiva, basti pensare alla cosmesi, alle mode, agli anticoncezionali chimici.
Le istituzioni deputate all’istruzione e alla ricerca sono all’altezza del proprio ruolo? Sono insufficienti, o addirittura ostacolo per svolgere una buona attività formativa?
In Italia ci sono istituzioni di eccellenza e istituzioni di pessimo livello. La lottizzazione e i corpi intermedi hanno praticamente annullato la tradizione delle Accademie delle Belle Arti su tutto il territorio nazionale; carriere fatte a suon di ricorsi al TAR, concorsi non trasparenti, logiche sindacalizzate fino al parossismo, hanno impedito all’Accademia di rinnovarsi e restare allineata con i tempi. Assistiamo a una crisi dell’università di massa. Tuttavia in questo scenario ci sono realtà di eccellenza, che svolgono un lavoro di produzione culturale di alto livello, sono guidate da personaggi di grande spessore e serietà come Tommaso Tozzi, Paolo Rosa, Stefano Bettega, professori che all’estero ci invidiano come Pier Luigi Capucci, Antonio Caronia, Alessandro Ludovico, Paolo Atzori, Andrea Lissoni, Domenico Quaranta, Lorenzo Tajuti, Lorenzo Imbesi, Mario Canali, Marco Mancuso, Amos Bianchi, Stefano Sansavini, Antonio Glessi, Franco Bifo Berardi, Ermanno Gomma Guarnieri…. Tolte le accademie ‘dormienti’ ci sono in Italia realtà in cui i direttori e il corpo docente cercano di svolgere al meglio il loro lavoro e queste realtà stanno svolgendo un lavoro molto interessante di innovazione didattica, che è anche riconosciuto all’estero. Nel campo del media design e delle arti multimediali la vera sperimentazione l’hanno portata avanti le scuole di Nuove Tecnologie dell’Arte come quella dell’Accademia di Carrara diretta da Tommaso Tozzi, quella della Naba diretta da me, quella di Brera diretta da Ezio Cuoghi e Paolo Rosa.
Quali motivazioni vede nella maggior parte dei suoi alunni? Sono generalmente spinti da intenti di carattere artistico, sociale, espressivo, filosofico, o professionale?
Vedo sopratutto una ricerca di identità. Cosa comprensibile per altro in questo post-post modernismo caratterizzato dalle eteronimie e dalle identità multiple. E’ un’epoca sincretica in cui siamo chiamati a unire gli opposti, a conciliare gli inconciliabili, se è già difficile per noi adulti, figuriamoci per i giovani. Inoltre siamo passati da una società costruita sui ‘mezzi di produzione’ a una società che è costruita dai ‘mezzi di comunicazione’; i genitori utilizzano la televisione come baby-sitter economica, e i ragazzi sono cresciuti con un immaginario televisivo, questo nega una dimensione culturalmente organica. Tuttavia è anche vero che i ragazzi arrivano all’accademia proprio perché alla ricerca di un percorso critico, e hanno già sviluppato una tensione critica verso i media. Ecco la società attuale potrebbe essere vista con dei caratteri simili alla società del XVIII secolo, provate a pensare alle avventure del romanzo di Henry Fielding Tom Jones. Oggi i giovani critici sono tutti figli illegittimi della tecnologia tipografica, hanno di fronte un compito molto difficile: cresciuti nel benessere e nella quieta sequenzialità ordinata della stampa, si trovano proiettati in un mondo complesso, mutevole, stratificato, ostile, e senza aiuti. Come il Tom Jones del bellissimo film di Tony Richardson.
In un ambito di insegnamento artistico e/o professionale, è giusto imporre un metodo/visione totalizzante, oppure è preferibile dare una certa libertà intervenendo solo con suggerimenti?
Credo che un metodo ci voglia sempre. Poi ci voglia abbandono. Karl Popper in ‘Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico’ scriveva:«Ogniqualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere.» I punti di vista son sempre totalizzanti, quello che è importante è capirlo. Nel mio corso di Mass Media noto lo stupore degli studenti quando circa a fine anno accademico dico che tutta la teoria-visione che abbiamo affrontato assieme in aula è solo una delle possibili ecologie. Ha sempre funzionato, e io credo che la cosa più importante non sia insegnare la verità, ma comunicare la falsificazione, per capire che viviamo immersi in un mondo di simulacri. E poi è sempre bene ricordare Paul Valery quando sosteneva che ‘tutto quello che è semplice è falso, e tutto quello che è complesso è inutilizzabile’.
Su cosa si basano in particolar modo le sue valutazioni didattiche (esami, prove, ecc. …)? Nelle conoscenze acquisite, nella capacità di ragionamento, nell’esposizione formale delle competenze, nella sensibilità artistica, o cos’altro?
Su tutti questi elementi citati. Un individuo è un’ecologia, è assurdo immaginare di pesarla, ma se proprio deve esserlo deve essere fatto in modo ecologico. Poi il professore è un individuo a sua volta.
Quali consigli darebbe a chi vuole iniziare a studiare in ambito artistico/culturale i new media e le nuove tecnologie?
Di accettare l’importanza di un metodo, di formarsi delle solide basi filosofiche, di studiare il problema della tecnica, di imparare bene l’inglese, e di aprirsi a un discorso sincretico tra arte, scienza, tecnologia e discipline umanistiche.
Quanto è importante insegnare agli studenti il metodo? Per metodo intendo progettuale, e cognitivo nell’approccio alla teoria. Quale metodologia e/o deontologia professa?
Oggi viene alla luce una chiara problematica: la società informazionale definisce nuovi modelli di generazione del sapere. Henry Jenkins, del Convergence Culture Consortium (C3) MIT, con il suo lavoro intende descrivere l’enorme quantità di informazione che passa attraverso i flussi dell’audience, che si spostano lungo i canali mediatici alla ricerca di diverse forme di comunicazione. Un contenuto ancora in parte definito e imposto dall’alto, ma in ampia parte attualizzato dai desideri e dalle aspettative dell’audience. In questo senso l’espressione ‘participatory culture’ cerca di dare un’alternativa alla comunicazione. Quelli che un tempo venivano distinti in produttori e consumatori nel sistema dei media attuale, possono essere ridefiniti come partecipanti in interazione reciproca in base a nuove regole. Questa interazione reciproca è codificata nel concetto di ‘intelligenza collettiva’ che sottolinea la necessità di riunire e far collaborare la molteplicità di competenze di cui ogni individuo è portatore. L’intelligenza collettiva, così come descritta da Tom Atlee, Douglas Engelbart, Cliff Joslyn, Ron Dembo ed altri teorici, è un particolare modo di funzionamento dell’intelligenza che supera tanto il pensiero di gruppo (e le relative tendenze al conformismo) quanto la cognizione individuale, permettendo a una comunità di cooperare mantenendo prestazioni intellettuali affidabili. In questo senso, essa è un metodo efficace di formazione del consenso e potrebbe essere considerata come oggetto di studio della sociologia. Un altro pioniere dell’intelligenza collettiva è stato George Pór, autore nel 1995 di ‘The Quest for Cognitive Intelligence’. Egli ha definito questo fenomeno nel suo blog come la capacità di una comunità umana di evolvere verso una capacità superiore di risolvere problemi di pensiero e di integrazione, attraverso la collaborazione e l’innovazione. Questi concetti si innestano in un sistema caratterizzato da information overload (sovraccarico informativo), in cui per non è più possibile gestire singolarmente l’enorme quantità di input. Manuel Castells sostiene che la società dell’informazione è caratterizzata da un’enorme potenza di calcolo data dai processori matematici e dalla nuova tecnologia dell’iperlink, che crea nuove ed inaspettate connessioni semantiche. La comunità accademica passa dal modello dell’indice tipografico, basato sullo spazio tempo del libro concreto, a un indice ricombinatorio che ci obbliga a gestire un’emergenza semantica attuando un ‘controllo dell’esplosione combinatoria”. Con questo termine si intende che il sistema (uomo) deve essere in grado di rendersi conto quando ha una conoscenza sufficiente di un particolare oggetto, e quando invece sta percorrendo vie che lo porteranno ad una amplificazione eccessiva della conoscenza necessaria per risolvere un certo problema. Per far ciò il sistema (uomo) deve venire in possesso di metodologie-critiche. Ma dove trovare tali strumenti critici? Il fatto che lo stesso problema esisteva prima dell’avvento e della diffusione della stampa a caratteri mobili con le sue pagine e i suoi indici ordinati, e con la sua scienza e il suo metodo, prima dell’avvento del libro stampato il problema era fare ordine tra i vari manoscritti, le varie versioni, i vari testi sparsi nei monasteri, nelle biblioteche e nei luoghi di studio, e allora si ricorreva a metodologie critiche che permettevano di definire dei percorsi, dei patterns, delle strutture della conoscenza. Ecco in sintesi perché oggi è fondamentale insegnare un metodo critico di generazione del sapere.
Come struttura generalmente il suo programma didattico? Quali metodi didattici utilizza per le sue lezioni?
Bisogna distinguere tra programma della Scuola di Media Design & Arti Multimediali e programma del corso di Teoria e Metodo dei Mass Media. Quando ho progettato la scuola, venendo da una carriera nella televisione broadcast (Rai, Mediaset, Tele+…), tutti si aspettavano un programma improntato sulla pratica. Al contrario presentai un corso che ricercava delle basi teoriche e metodologiche. Io vengo da studi in storia moderna e contemporanea, da esperienze estere in Canada e in Inghilterra che mi hanno dato una solida impronta. La storia delle cose, fornisce un ambiente di informazioni condiviso, poi serve una metodologia che ha origini filosofiche, il pensiero anglosassone mi ha dato un approccio pragmatico che trovo meglio adatto in un epoca di cambiamento come questa. Insomma da un lato non bisogna dimenticare la tradizione, dall’altro bisogna saper guardare al di fuori dei nostri confini nazionali. L’Università anglosassone è molto simile all’Università medievale e mi sembra rappresenti un modello adatto, per com’é a cavallo tra teoria, autorità e pragmatica. Inoltre l’Università medievale era molto legata ai network della conoscenza, si rifaceva a grandi maestri che facevano da caposcuola. Oggi con le possibilità della società informazionale non possiamo ignorare i grandi personaggi che hanno fatto le cose, basta invitarli e magari organizzare un pò di lezioni via telematica. Riguardo al mio corso, che è teorico, fra tutti i metodi che la prassi pedagogica ha proposto penso che il più valido resti la lezione ‘ex catedra’, ovvero la lezione frontale, tenuta dal docente ai discenti, con una solida bibliografia. Poi chiedo una parte pratica, solo per l’esame. Parlo delle lezioni teoriche, perché gli insegnamenti pratici, condividono una parte laboratoriale di pari peso.
Nel mondo della rete, ma non solo, si sta assistendo alla consacrazione del prosumatore (produttore/consumatore di contenuti). Tutti siamo artisti, tutti partecipiamo all’attività produttiva. Da un punto di vista professionale e/o artistico come si dovrebbe rapportare a ciò uno studente? Quali strumenti gli vengono offerti per distinguersi nel proprio lavoro?
Il problema non resta vincolato solo agli strumenti, ma oggi diventa sostanzialmente un problema di qualità. L’audiovisivo e le New Media art portano a convergere in un’unica nebulosa immaginale-narrativa parecchi autori, molti dei quali la stanno esplorando dai primi anni ottanta. In genere realizzano brevi video, documentari e opere di New Media art, producono quelli che Wu Ming 1 ha definito “oggetti narrativi non-identificati”. La quantità delle loro opere sta riempiendo la rete di video (l’accumulare il materiale video sembra più rispondere a una bulimia tecno-narrativa che alla ricerca di una qualche qualità o canone), e molti possono essere definiti ‘Garage media’- Il Garage media è un modo diffuso di fare media, avviene nei computer degli utenti, i soggetti sono le vacanze e le passeggiate romantiche, così come le mostre d’arte. Non formano una generazione in senso anagrafico, perché hanno età diverse, ma sono una generazione che condivide segmenti di poetiche, brandelli di mappe mentali e un desiderio feroce che ogni volta li riporta agli archivi, o per strada, o dove archivi e strada coincidono.(In quest’ottica Genova 2001 si pone come spartiacque).Questo potrebbe avvenire anche sul fronte delle installazioni e dare vita a una “garage art”. Tutti oggi possono essere artisti. Quindi oggi il problema non è più un problema di quantità, quanti artisti ci sono, ma è un problema di qualità. Ovvero quanto sono valide le opere che producono. E gli studenti devono diventare consapevoli di questo. Non serve sapere filmare, programmare, montare, assemblare, serve sapere cosa si sta facendo. Bisogna utilizzare il medium artistico come un dispositivo di ricerca, che permette di vedere l’uomo inserito nel contemporaneo, ed essere consapevoli di questo. Oggi esiste una grammatica, retorica e dialettica dei media che ogni artista consapevole dovrebbe fa propria, e accompagnare con una riflessione sulla conoscenza.
Le generazioni che sono nate in una cultura fortemente “televisiva” soffrono generalmente di una incapacità critica nei confronti dei contenuti e delle forme che gli vengono proposte. Ha notato anche Lei questo, nei suoi studenti? Il metodo educativo dovrebbe contrastare o adattarsi a questa situazione?
Come l’oggetto dell’imitazione poetica, anche il contenuto della televisione è caratterizzato dalla verosimiglianza; inoltre possiamo ipotizzare che la televisione, in quanto principale forma di comunicazione del secondo novecento, è anche il più importante fenomeno socioculturale della tarda modernità. Essa esce come puro mezzo e diventa processo ermeneutico che si genera nella descrizione di quello stesso mondo che cerca di rappresentare, mentre il flusso continuo e sintagmatico della televisione appare ancora più reale della vita concretamente vissuta. Esso organizza le informazioni utilizzando le categorie del tempo, e genera storie ed epiche, scompone la realtà in sequenze il cui senso viene dato per associazione semplice. Le sequenze generano associazioni fondate su verosimiglianze e non sul vero, ma si basano sul probabile e su quello che probabilmente pensa il pubblico; la televisione introduce una supremazia dell’entinema, ovvero del sillogismo per somiglianza a scapito del pensiero dimostrativo. Il criterio del verosimile diventa la regola e l’emozione diventa la guida del processo di verità. Il mondo conosciuto attraverso la verosimiglianza dello schermo mina alla base il concetto di esperienza. L’esperienza è alla base del concetto di esperimento, ed è nella cultura occidentale, sia la fonte del sapere che il filtro attraverso cui discernere le conoscenze acquisite. In televisione il binomio conoscenza/esperimento viene meno e la televisione perde lo spazio delle dialettiche alla base dei processi culturali del Destino e del Tragico. Il pensiero del tragico (del conoscere, nda) ha costituito per l’uomo fin dal V secolo a.C. un orizzonte assiologico che trovava nel suo irrisolvibile dualismo tra realtà e idealità la regola e il canone delle speculazioni umane, la televisione non riesce ad elaborare queste tensioni dialettiche riducendo tutto a notorietà. Il concetto di destino esprime una tensione dialettica irrisolvibile tra quella parte dell’uomo che accade e quella parte dell’uomo che codifica e che assegna dei sensi, valori e significati alle cose. Questo campo magnetico ‘del noto’ si pone come ‘mondo’ e tende a rappresentare la realtà. La televisione diventa norma e realizza un nuovo orizzonte assiologico, una nuova paidea che ha le dimensioni del sequenziale, del ritmico, del minimo comun denominatore, del patetico, del riproducibile ma che è zoppa della tensione del destino e dell’idea di tragico. La televisione esclude le dimensioni che sono state fondative nella storia della cultura umana; come il senso tragico della conoscenza umana (il sapere di non sapere, l’impossibilità di conoscere realmente), che oggi è irriducibile all’estetica del mezzo e questo è il dramma televisivo. Il metodo educativo non deve né contrastare, ne adattarsi, deve permettere la consapevolezza e poi il singolo individuo deciderà lui se adottare una strategia ontologia di adattamento o di contrasto. Noi siamo essere ecologici, siamo il confine tra la figura e lo sfondo, immaginate lo sfondo mediatico attuale, e immaginate la figura come il riflesso dei processi mediatici che ci percorrono, come le forme della comunicazione che ci comunicano.
Nei corsi che riguardano le arti tecnologiche approdano studenti che provengono dai percorsi di formazione più disparati. Come si riescono a gestire queste eterogeneità? Quali meccanismi vengono predisposti per fare fronte a lacune tecniche o teoriche?
Credo che gestire il sapere sia una questione di metodo. Si nota la maggior facilità con cui gli studenti provenienti dal liceo classico e scientifico gestiscono il sapere. E’, credo, una questione di metodo oltre che di visioni-nozioni. Il fatto di studiare al classico il greco antico e la filosofia rappresenta un’ottima preparazione, così come studiare allo scientifico matematica, lingua e letteratura comparata. Prendiamo la letteratura comparata, non possiamo capire l’800 se non studiamo la letteratura francese di quel secolo, e studiando Victor Hugo che capiamo i vari socialismi, e relativizziamo la letteratura italiana, e comprendiamo i glocalismi, ovvero come le culture locali si sono sempre riferite a culture globali e dominanti. Nel ‘Gentiluomo’ Moliere parla di un tipo di sapere, quello di chi pur non sapendo nulla specialisticamente, ha la preparazione per avere un’opinione su tutto. Ecco questi licei sembrano preparare molto bene gli studenti in questo senso. Penso che anche se può sembrare passatista, una buona preparazione classica sia la migliore delle preparazioni primarie e secondarie. Un’ottima preparazione la forniscono anche i licei cosi detti sperimentali, che hanno inserita l’informatica nei loro programmi. Sono convinto che, al contrario di quello che si pensi, la conclusione che si possa trarre da queste esperienze è che la preparazione generalista, non specializzata, ma attenta al metodo critico sia la migliore. E credo che questo valga anche per gli studi accademici di primo e secondo livello.
Recentemente la forma di workshop viene molto utilizzata sia in accademie e istituzioni sia in altri contesti, ma non è ancora molto chiaro il vero ruolo e funzionamento. Cosa è e cosa dovrebbe essere secondo lei un workshop? Quali aspetti positivi e quali aspetti negativi offre?
Il workshop si fonda su un concetto di didattica come luogo dove si forma il metodo adottato nella pratica professionale, ma questo approccio sembra essere riduttivo, infatti gli aspetti fenomenologici della vita richiedono una scrittura diversa che emerge meglio nell’insegnamento sul medio-lungo periodo. La prassi sembra superare tutto e manca il momento della riflessione. Ad esempio oggi si è generata una storia (critica) dei nuovi media e bisogna ricostruire una cultura del progetto associando le basi dell’analisi critica dei media con il progetto. Paolo Rigamonti di Limite a Zero, ha fatto in quest’ottica una relazione a New media Art Education & Research 2008 che ho trovato molto interessante. Sosteneva che il workshop progettuale è un “modello evanescente”, in quanto assemblare prototipi fa venir fuori sempre gli stessi progetti, si esauriscono alla fine del workshop. Io sono d’accordo, quando ero a Fabrica (quella diretta da Toscani) fui testimone di una pedagogia incentrata molto sui workshop, e mi convinsi dell’insufficienza del modello da un punto di vista didattico e formativo. Invitavamo dei grandi nomi del media design, questi venivano, lavoravano, producevano degli oggetti interessanti, e quando andavano via nessuno aveva ben colto la cosa. Ovvero poi tutto svaniva. Con il workshop progettuale sembra anche verificarsi un livellamento delle competenze, mentre bisogna giocare sulle differenze. Quella di Rigamonti è una bella definizione, che mi sento di sposare, il workshop è un “modello evanescente”, è portare di una debolezza metodologica per eccesso di pragmatismo, serve a quelli che in gergo chiamiamo “smanettoni evoluti”, serve a creare ‘garage media’. Il workshop sembra esprimere una ‘verosimiglianza del sapere’, e attacca l’essere. Il concetto di ‘sapere’ esprime una tensione dialettica irrisolvibile tra quella parte dell’uomo che accade (l’esperimento) e quella parte dell’uomo che codifica e che assegna dei sensi, valori e significati alle cose; anch’esso è un concetto che emerge da una tensione dialettica e che il workshop non riesce a veicolare e rappresentare. Così il livello del sapere è determinato dal livello di essere-destino, che per definizione ha bisogno di esperienze che si sviluppino in un certo ‘arco di tempo’. Tuttavia il workshop di prototipizzazione appaga gli studenti, e produce comunicazione, per questo molte istituzioni lo adottano. Alcune note scuole di design ci hanno costruito la loro fortuna su questo sistema, perché permette di fare comunicazione sulla comunicazione. Poco sforzo, grandi nomi da esporre come visiting professor, comunicazione, prodotti da mostrare. Credo che piuttosto che tanti oggetti da mostrare una scuola di nuovi media deve avere una proposta critica di ricerca da sviluppare.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, la funzione artistica nel panorama contemporaneo?
Il novecento è stato un secolo segnato dalle conseguenze degli enormi sviluppi tecnologici avviati dalla rivoluzione industriale. Nel 1906 Lee de Forest inventa la valvola termoionica, un componente che, grazie ad una fonte esterna di energia, è in grado di innalzare la potenza di un segnale posto al suo ingresso; è il primo componente elettronico “attivo” realizzato dall’uomo, e da molti è considerata l’invenzione più importante del novecento perché rappresenta il punto di partenza dell’elettronica. La seconda metà del novecento e il primo decennio del terzo millennio sono caratterizzati dall’avvento della scienza computazionale dell’informatica, dalla cibernetica e da una incredibile e decisa accelerazione tecnologica. Grazie all’elettronica e al principio di feedback i mezzi di informazione e di riproduzione tecnica riversano sulla società umana un continuo flusso di messaggi, esperienze, stimoli. Nasce tuttavia un problema, quello della crescita e del predominio di un sistema anonimo all’insegna della scienza e della tecnica. Questo problema mette in questione l’intera struttura della conoscenza umana. La scienza infatti è una creazione dell’età moderna che ha avuto inizio con Galileo Galilei: un complesso organico di conoscenze ottenuto con un processo sistematico di acquisizione delle stesse allo scopo di giungere ad una descrizione precisa della realtà fattuale delle cose, e in ultima analisi di una verità condivisa. Il metodo scientifico si impone e si basa sulla descrizione matematica dell’evento. Dopo Galileo l’ingegno umano impara a riprodurre artificialmente gli oggetti e arriva a superare la semplice riproduzione della natura attraverso la costruzione di nuove realtà. Il metodo scientifico diventa la nuova forma atta a dominare la natura, che viene ridotta a campo da dominare e non viene più considerata come causa formale della stessa vita. E’ un processo di acquisizione di conoscenze ed abilità che espande l’insieme dei beni in astratto producibili. Dopo l’avvento del calcolo computazionale la scienza utilizza le nuove simulazioni computerizzate per descrivere gli eventi e darne valore di verità. Un progresso straordinario che tuttavia, secondo Hans Georg Gadamer è destinato a produrre lentamente il predominio delle scienze nella vita umana. Che ne è stato dell’arte e di Dioniso? Infatti la mente ha prodotto un’incredibile capacità di adattamento ma anche un imperativo ontologico. L’arte si contrappone all’empirismo scientifico in quanto è l’unica vera attività metafisica di questa vita, laddove l’aggettivo metafisico definisce la facoltà di imporre un senso all’esistenza, che ci è sopportabile anche in quanto fenomeno estetico. Infatti se non avessimo questo culto del non vero, il riconoscimento dell’illusione e dell’errore come condizioni dell’esistenza conoscitiva e sensibile, non sarebbero affatto sopportabili. La domanda è allora romantica, ovvero se esiste quindi la possibilità di affiancare al sapere scientifico la dimensione estetica come la grande creatrice della possibilità di vivere, perché appare che solamente attraverso questa visione prospettica l’uomo può dire di si alla vita nella sua totalità. L’arte, intesa come metafisica del reale, come costruzione di una verità, come materializzazione di una idea e sua manifestazione in quanto elemento metafisico laico, si oppone alla metafisica giudaica, cristiana e islamica e diventa elemento antinichilistico per eccellenza avendo la possibilità oggi di superare la barriera antropocentrica e di aprire l’antinichilismo a tutta la biosfera, spostando l’attenzione dall’uomo a tutto il biologico e il tecnologico. L’arte, in quanto metafisica, stimola la vita psicologicamente e fisiologicamente, creando un sistema di verità in cui vengono continuamente definite e ridefinite le sempre nuove proporzioni dell’essere umano, proporzioni legate alla natura, alla vita, e alla tecnologia. L’arte per definizione è antiideologica, è il processo stesso della vita sia che essa sia animata, biologica, wet, umida,sia che essa sia inanimata, ovvero dry, secca, tecnologica. Essa è codificata in una tecnologizzazione moist, emulsione tra tecnologico e biologico, ma ci riporta a stati di vigore animale, essa è testimone della domanda se la causa della creazione sia il desiderio di fissare in forme immutabili, d’eternizzare, d’essere, oppure invece il desiderio di distruzione, di mutamento, d’innovazione, di avvenire, di divenire. Attenzione che sostenendo che l’arte è il vero elemento antinichilisto e la vera metafisica del reale, non intendo sostenere che allora è antigiudaica, anticristiana, antislamica. Intendo sostenere che deve avere pari dignità. Infatti le visioni religiose sono prodotto della tendenza all’enteogenesi dell’uomo, così come la filosofia sembra essere un prodotto della teknè linguistica, e la scienza un prodotto della visione empirista. Sono tre visioni ontologiche che hanno differenti modalità: la religione agisce attraverso la rivelazione, la filosofia tramite dimostrazione, la scienza tramite sperimentazione (e oggi tramite simulazione). Questi tre processi ontologici devono avere pari opportunità e diritti (questo è importantissimo). Tutte sono di fronte all’accelerazione binaria del codice informatico, in un momento in cui l’omeostasi non è possibile. Ma questa stessa accelerazione ci obbliga a essere artisti e a creare e ‘performare’ opere d’arte come nuovi concetti. Marshall McLuhan sosteneva che “nell’epoca della velocità elettrica tutti devono essere artisti”, sostenendo con questo che l’arte è l’unica forma di rituale culturale che riesce a stare dietro alla velocità dei “limen” del contemporaneo, in quanto non opera all’interno di categorie estetiche predefinite, ovvero create dalla codifica linguistica (sempre rivolta al passato per sua stessa struttura), bensì manipola l’esistente con la perfomance del presente, ovvero con un non-ancora esistente. Ecco quindi che l’arte oggi è una vera e propria strategia ontologica e deve assumere pari dignità della religione, della filosofia e della scienza. Oggi l’arte è l’arte dopo la religione, dopo la filosofia e dopo la scienza, ed è importantissimo che queste quattro ontologie dialoghino tra loro, a pari livello in maniera sincretica, ovvero senza distruggere le rispettive differenze. Ecco, la funzione artistica oggi è quella di generare ontologie del contemporaneo.
L’autoformazione è una pratica che nasce dall’esigenza di avere una struttura formativa che non sia istituzionalizzata, e estranea a determinati meccanismi centralizzati. Potrebbe anche essere considerata una reazione di sfiducia nei confronti delle istituzioni educative. Anche in ambito artistico esistono questo genere di realtà (il S.A.L.E. di Venezia, ad esempio). Lei cosa pensa di questa alternativa forma didattica? Quali aspetti positivi e/o negativi si porta?
E’ un’ottima cosa perché credo che l’autoformazione esista in ogni luogo e in ogni classe accademica. Non serve a nulla andare di fronte al docente a ascoltare pedissequamente, bisogna leggere, informarsi, autoformarsi. Io ho una certa idea di istituzionalizzare una sorta di autoformazione nel dipartimento che dirigo. Gli studenti, coloro che vogliono, dovrebbero fare lezioni ai colleghi su temi in cui dimostrano un grande interesse. Tuttavia è vero che gli esperimenti che abbiamo fatto in questo senso non hanno dato risultati del tutto positivi. Non bisogna dimenticare che l’Accademia è un ‘limen’, ovvero uno spazio ‘liminale’, dove lo studente si pone al confine tra un sé passato e un sé futuro, dove non è più ciò che era senza essere ciò che sarà. Appunto perché vuole imparare. Ma questo processo, la liminalità, ha bisogno di una liturgia, di un processo. Nel tempo questo processo si è codificato, perché ha funzionato come esperienza, nella relazione docente discente. Il docente viene investito di un’identità che va ben oltre la propria, egli agisce all’interno di una ‘macchina pedagogica’ molto potente, che è il risultato di un secolo di scuola dell’obbligo e di circa settanta anni di università diffusa. Tutto questo discorso attiva i processi liminali. Non so se il rapporto docente-discente possa esaurirsi in uno schema paritetico di soli studenti. A me interessa molto il concetto di università di flusso, di network e flow academy, che poi è una riedizione del sistema dell’Università medievale. Un’università dove al centro c’erano i professori e gli studenti e dove l’istituzione forniva solo delle logistiche. In questa direzione ho fatto nel 2008 un intervento proprio a S.A.L.E. In effetti dirigendo programmi formativi ci si rende conto del costo spropositato dell’istituzione, e ritengo corretto porsi la domanda da cosa tale costo sia giustificato.
In una sua affermazione, lei aveva detto che considera il suo lavoro di insegnamento come la sua massima attività artistica. Perché? E’ forse la condivisione dei saperi uno dei più alti valori della nostra contemporaneità?
L’arte oggi in un’epoca elettrica assume il ruolo di sperimentazione filosofica. Per definizione noi siamo dotati di fantasia. E oggi l’arte sta facendo una filosofia creativa. E’ una cosa in cui credo. La vita è un fatto di passione, l’arte è un fatto di vita. Non possiamo insegnare senza passione. Secondo me l’arte oggi è una vera e propria forma di ‘filosofia vaga’, e proprio questa vaghezza gli permette di cogliere quel contemporaneo che la filosofia non sembra più essere in grado di cogliere. L’arte sembra essere una corretta forma di esplorazione-sperimentazione del contemporaneo, e oggi, in un epoca di incredibile accelerazione tecnologica, e di spostamento dei confini, può essere presa come modello di conoscenza. La New Media art, così legata alle tecnologie, unisce una conoscenza emotivo-introspettiva a una conoscenza pratica. Nel celebre motto dell’oracolo di Delfi e di Socrate, ‘conosci te stesso’, vi è un riferimento alla continuità e all’attenzione’ dello sguardo introspettivo, ma la conoscenza si può intendere anche come attività puramente pratica. Ad esempio è conoscenza la capacità di far funzionare un meccanismo o di usare un utensile: anche il fatto di conoscere una lingua si può considerare come una capacità operativa e tecnologica, priva di qualsiasi astrazione. L’arte è esperienza del mondo esterno: se diciamo di conoscere una regione vogliamo intendere che lì abbiamo condotto un’esplorazione diretta. Il termine esperienza indica lo sperimentare un aspetto della realtà che nella tradizione filosofica ha un significato molto specifico, ristretto alla conoscenza ottenuta dal solo mondo fisico, intesa come separata dalla ragione, indica cioè quel tipo di conoscenza che parte dell’attività dei sensi. Nel linguaggio comune, il termine ha però usi più vari e indica in modo generico la conoscenza del mondo ottenuta attraverso la vita quotidiana. Molto più complesso è invece il significato di esperienza nell’ambito della logica e della scienza contemporanee: nella scienza del nostro secolo vengono condotti esperimenti in cui i fenomeni non sono osservati direttamente, ma derivano da operazioni molto complesse che comportano calcoli matematici, deduzioni, astrazioni. Pensiamo ad esempio alle prove che sostengono le diverse teorie sulla struttura dell’atomo condotte su grandezze soltanto ipotizzate perché non osservabili. Pensiamo alle immagini dei radio-telescopi che ‘vedono’ una stella pulsar che, per definizione, non è rappresentabile.( e che solo ‘artisticamente’ è rappresentabile). La cosa da rimarcare è allora il fatto che per l’uomo del nostro tempo il confine tra la sfera dell’esperienza e quella del pensiero o della razionalità non può essere più tracciato con nettezza. Così anche il confine tra l’insegnare e l’imparare non è più tracciabile, io spesso trovo studenti che ne sanno più di me su specifiche tecniche e argomenti, il fenomeno dello ‘studente sapiente’ è una realtà. Ecco che nelle mie lezioni sono il primo studente che impara da coloro che affollano la classe. Credo profondamente in questo meccanismo, quando vado in aula a far lezione in realtà vado a cercare i feedback degli allievi (e infatti la mia ricerca di PhD utilizza come campo sperimentale proprio il corso e gli studenti). E anche l’arte che faccio mi serve per esplorare un problema, un tema, per rifletterci e per sottoporlo a un processo di condivisione feedback con i pubblici, dei critici, degli appassionati, degli studenti, degli individui in generale. L’arte mi serve per cercare dei feedback e riesce a dare risposta al problema dell’unione delle due sfere esperienza-pensiero. Ecco per questo considero il mio lavoro di insegnamento come la mia massima attività artistica. Infine la condivisione sta nel DNA di questa era: dalla società industriale siamo passati alla knowledge society, la massa è diventata ‘pubblico’ e poi gente, in questa mutazione ha perso un parametro di coesione e si è sfaldata in mille differenti sotto categorie, c’è un ritorno del volgo e delle elites, mentre il discorso politico passa dai mezzi di produzione ai mezzi di informazione. L’azione politica si sviluppa a livello mediatico e la consapevolezza diventa una forma di politica attiva. Io credo che oggi essere consapevoli rappresenti un atteggiamento politico, e io cerco di condividere il mio sapere, per quello che ho detto appena sopra e per la mia idea di politica.
Lei è direttore/fondatore della scuola di Nuove tecnologie dell’arte e Media Design presso la NABA di Milano. Come nasce questo corso?
Nei primi anni 2000 si sentiva l’esigenza di una istituzione didattica che si occupasse di teorie media. All’estero erano nate varie esperienze come lo ZKM Zentrum für Kunst und Medientechnologie, Karlsruhe diretto da Peter Weibel, l’Institute for Unstable Media di Rotterdam, lo KHM, Academy of Media Art di Colonia, manifestazioni e festival come ISEA, Siggraph e Ars Electronica di Linz in Austria. Queste nuove scuole e centri di ricerca si interrogavano sulle ricadute culturali, sociali e politiche dei media e delle tecnologie digitali, in Italia non esistevano esperienze in questo senso. Io venivo da un’esperienza a Fabrica con Oliviero Toscani, mi interessava la parte critica sui media, all’epoca sembrava tutto troppo avanti. Ma si percepiva l’importanza che tale cultura stava via via assumendo e come tutta una galassia di esperienze, concetti, teorie, ipotesi, analisi e discorsi, si stesse strutturando in un vero e proprio discorso. Mi fu chiesto di progettare un Triennio in Media Design. Il primo anno rifiutai, ero molto impegnato a lavorare sulla ricerca e sviluppo della Televisione interattiva per una società di sviluppo digitale, poi nel 2003 consegnata la ricerca al cliente (Raiclick, ndr), e visto che la crisi della New Economy stava lasciando a casa tante persone di valore, che queste stesse persone potevano portare i loro saperi in accademia, pensai che era arrivato il momento corretto. E così presi la mia liquidazione e praticamente lavorai gratis il primo anno. Chiamai per le materie pratiche dei veri professionisti che ricoprivano posizioni in aziende di alta qualità. E cercai in Università i professori delle materie teoriche. Quello che stupì tutti, fu che presentai un programma basato su un approccio critico-teorico, che ricercava l’introduzione di un metodo, che voleva agganciarsi a ‘discorsi’ delle media teories. E questo non era atteso, ma ha dato ottimi frutti. il primo anno siamo partiti con sei studenti, il secondo 12, il terzo 25, fino a una Scuola attuale di oltre un centinaio che produce diplomati che vengono selezionati a premi internazionali di prestigio, ad esempio quest’anno un diplomato del Triennio è stato selezionato al Festival del Cinema di Locarno, altri a festival di videoarte e arti multimediali, uno studente è stato preso alla prestigiosissima UCLA di Los Angeles, vuol dire che la scuola sta funzionando.
Nelle sue lezioni lascia molto spazio all’arte biotecnologica, e lei stesso produce opere in questa direzione. Come è possibile far entrare questo contesto, nell’ambito accademico in Italia? Quale competenza tecnica è indispensabile per lavorare nella bioarte?
Innazitutto vedo la bioarte come naturale prosecuzione delle New Media art. Infatti il termine media sta per supporto, e nell’arte rappresenta il supporto con cui gli artisti ricercano di immaginare, elaborare, le nuove proporzioni umane. Oggi i supporti sono biologici, wet, sono vivi, la vita è la nuova tela su cui gli artisti lavorano. E’ in questo senso una ri-mediazione ovvero una rappresentazione di un medium in un altro medium. Infatti per de-scrivere nuove proporzioni umane dobbiamo partire da quelle vecchie de-scritte dal vecchio medium. La vita ha un ruolo centrale nei processi chiave della conoscenza, e oggi la vita è diventata un medium. Poi la vita ha una forza senza eguali nel metterci di fronte all’evidente. Prendiamo la bioetica, ricca come è di vita, essa ha avuto un ruolo fondamentale nello svegliare la filosofia dal torpore in cui si trova, concentrata come era su questioni linguistiche e autorefernziali. La filosofia ha perso il ruolo di luogo della elaborazione dei nuovi concetti e verità umane. La bioetica ponendo problemi concreti, ha obbligato i filosofi etici e morali ha confrontarsi pragmaticamente con il reale, e anzi, con la realtà contemporanea. Per questo oggi filosofi molto interessanti sono Tristam Engelhardt, Peter Singer, e avviene un recupero di Jeremy Bentham, Kennet Goodpaster, filosfi etici. Terzo come sostiene Jens Hauser la bio arte, nell’accezione bio, cioè vita, ha un elemento concreto che implica un hic et nunc deciso che trasforma ogni opera in una performance in cui si percepisce la presenza del reale. Questo hic et nunc e la presenza della vita nell’opera trasformano quasi ogni opera in un processo liminale di soglia, molto interessante. La teoria media si basa sul concetto che i media hanno un ruolo centrale nella generazione delle ontologie, ebbene oggi le nuove tecnologie biologiche, genetiche, biomolecolari ci portano diritti verso nuovi supporti se non vivi, almeno semivivi, moist, che in quanto media de-scriveranno un uomo dalle nuove proporzioni.
Come tutto questo possa entrare nel contesto accademico italiano è difficile da immaginare. Lo scorso inverno mi sono trovato a Venezia con Roy Ascott e Jens Hauser a discutere di un evento di bioarte. Eravamo stati invitati da una prestigiosa istituzione cittadina, tuttavia si percepiva prima di tutto un’estraneità al tema e alle sue implicazioni, poi un sospetto e una difficoltà a gestire il tema. Qualche d’uno pensa che il tema Bioarte si sia esaurito con la mostra a Nantes del 2003, ma è in effetti una disciplina ancora di frontiera, e in Italia siamo ancora in una fase di riconoscimento delle frontiere. Fase aggravata dal tradizionale sospetto del mondo cattolico verso la manipolazione del materiale vivente. Per lavorare nella bioarte serve una conoscenza della biologia e dei metodi della scienza. Accanto bisogna avere una certa domestichezza con autori come Edward O. Wilson, Richard Dawkins, Daniel Dennett, Stephen Jay Gould, ma anche come Teillhard de Chardin, Paul Valery, Karl Popper, e testi chiave come ‘Primavera Silenziosa’ di Rachel Carson, le ‘Due Culture’ di Percy Snow, ‘La Rivolta di Gaia’ di James Lovelock, ma poi penso anche che basterebbe leggere ‘Viaggio di un Naturalista intorno al mondo’ di Charles Darwin. Tecnicamente basta avere un profondo rispetto per la vita, cosa che dovremmo imparare con semplicità dai buddisti tibetani.
Lei è program director dell’M-Node, un dottorato di ricerca, l’unico in Italia che riguarda arte e scienza. Quali sono gli obiettivi che si pone questo percorso?
Gli obiettivi sono quelli di formare una nuova prima generazione di professori e accademici che insegnano il complesso fenomeno dell’arte, delle teorie media, degli impatti tra arte, media e tecnologie. Oggi molti artisti si stanno integrando con le strutture dell’Università internazionale. Il PhD abilita all’insegnamento universitario, a livello internazionale ne è conditio sine qua non, e fino all’istituzione del Planetary Collegium, non esistevano molte possibilità per chi aveva questi interessi di ottenerlo. Per cui i concorsi erano vinti da storici, letterati, scienziati, addirittura musicisti, perché avevano avuto la possibiltà di fare ricerca certificata all’interno del mondo accademico. Roy Ascott, dopo le esperienze del ‘groundcourse’ (all’incirca l’equivalente del nostro triennio), dei vari MA (all’incirca le nostre specialistiche), ha ideato e realizzato questo programma. Ha messo a punto una metodologia, un processo e ha diplomato personaggi del calibro di Peter Anders, che si occupa di ciber-architetture, Donna Cox esperta di visualizzazioni scientifiche e artistiche, la coniatrice del termine ‘Renaissance Teams’, e che ha brevettato per un sistema di coreografie in realtà virtuale, Laurent Mignonneau e Christa Sommerer che con le loro opere esplorano il rapporto tra arte e vita, Char Davies, riconosciuta a livello internazionale per le sue opere di Realtà Virtuale, Edoardo Kac forse il più noto bioartista insignito quest’anno del Golden Nika a Ars Electronica, Marcos Novak ideatore e d esploratore delle architetture liquide, Joseph Nevchatal artista generativo che lavora sui virus digitali, Miroslaw Rogala artista impegnata sugli ambienti virtuali, Victoria Vesna artista che fa coppia con Jim Jimgewsky, scienziato, nel cui lavoro discipline artistiche, umanistiche e tecnologie si incontrano per rispondersi e generare nuove realtà. Oggi vi partecipano artisti come Laura Beloff, che con le sue opere esplora le nuove relazioni dell’antropotecnica, Margaret Jarmahn fondatrice di Ludic Society, una strategia ‘dadaista’ di ricerca sui videogiochi, Brandon Ballengee, americano biologo e bioartista affermato, Honor Harger, studiosa dei media e ideatrice di Radioqualia, Isabelle Choiniere, coreografa canadese, Shaun Murray, architetto che studia le bioforme, Jaromil hacker artista che ha dato un contributo sostanziale allo sviluppo di linux, e molti altri. Sono molto affascinato dalle teorie di Roy Ascott, e mi sono messo a lavorare con lui. Pensavo che avevamo bisogno di un programma di questo tipo, che aprisse gli ‘orizzonti’ dei ricercatori italiani, che utilizzasse la contaminazione tra i saperi, e che rappresentasse un’opportunità di vera ricerca. Ho verificato le opportunità, fatto un budget. Per aprire il nodo avevo bisogno di un’istituzione legalmente riconosciuta dal MIUR, su cui appoggiare il nodo. Quindi ho trovato nella Direttrice della Naba Elisabetta Galasso una appoggio convinto, e anche in Marco Cabassi, che rappresentava la proprietà. Sono stati coraggiosi e molto lungimiranti, era all’inizio, stavamo ancora costruendo molto in accademia e in Italia non si dà molto peso e priorità alla ricerca pura. A quel punto ho chiamato dei professori di eccellenza come Antonio Caronia, Derrick de Kerckhove e Antonio Somaini, cui oggi ha preso il posto Pier Luigi Capucci. Ed è una grande soddisfazione.
Pier Luigi Capucci
Pier Luigi Capucci si occupa di sistemi e linguaggi di comunicazione e, dai primi anni Ottanta, di relazioni tra tecnologie, cultura e società e tra forme artistiche, scienze e tecnologie. Ha insegnato all’Università di Roma “La Sapienza”, all’Università di Bologna, all’Università di Firenze e alla SUPSI – University of Applied Sciences and Arts of Southern Switzerland. Attualmente insegna all’Università di Urbino, alla NABA a Milano e all’Accademia di Belle Arti di Carrara. Dal 2008 è tra i supervisor del PhD Research Program del M-Node del Planetary Collegium dell’Università di Plymouth.
Ha pubblicato i libri Realtà del virtuale (1993); Il corpo tecnologico (1994); Arte e tecnologie (1996). Ha all’attivo numerose pubblicazioni in libri, riviste, e atti di convegni in Italia e all’estero. Nel Marzo ’94 ha fondato e diretto NetMagazine, poi divenuto MagNet, progetto di ricerca sulle relazioni fra cultura e tecnologie, tra i primi magazine online in Italia. Ha organizzato mostre, curato progetti e partecipato a convegni e conferenze in ambito nazionale e internazionale. Nel 2000 ha fondato Noema, magazine sulle relazioni tra tecnologie, cultura e società, di cui cura la direzione, selezionato nel 2003 da RAI International come miglior sito italiano.
Ha lavorato a vari progetti europei sulle tecnologie di comunicazione. Dal 2004 al 2007, e poi nel 2009 ha fatto parte dell’International Advisory Board di Ars Electronica per la categoria Net Communities.
Da quanti anni insegna nell’ambito delle culture e arti tecnologiche? In questi anni ha visto dei cambiamenti nelle nuove generazioni di studenti?
Ho iniziato all’Università di Bologna, nel 1985, con un seminario pochi mesi dopo la laurea. Negli studenti non ho visto dei cambiamenti nelle capacità. Certamente, invece, ci sono stati dei grandi cambiamenti negli strumenti di uso quotidiano, che hanno influito anche sull’apprendimento. Per esempio nei primi anni’90 all’inizio del corso ero solito chiedere quanti studenti usassero il computer. Fino alla fine degli anni ’90 c’erano poche mani alzate, ma dal 2000 questa domanda non ha avuto più senso. Qualcosa di analogo vale per i telefoni cellulari, che oggi sono molto di più che dei semplici dispositivi per la telefonia mobile.
Solo recentemente in Italia si sta assistendo ad un forte interesse verso le tematiche riguardanti le arti tecnologiche. Secondo lei, siamo pronti a competere a livello internazionale da un punto di vista quantitativo e qualitativo dei progetti?
In Italia dal punto di vista qualitativo senza dubbio esistono delle individualità di spicco che realizzano progetti eccellenti anche in ambito internazionale. Dal punto di vista quantitativo credo che scontiamo carenze, formative, culturali ed economiche, e dunque, tranne poche eccezioni, fatichiamo a proporre e a sostenere queste forme artistiche.
Viviamo in un paese ricco di tradizione artistica. Il peso della cultura che ci trasciniamo è un limite per l’innovazione e la ricerca tecnica e artistica, o può essere un punto da sfruttare a favore?
Io non penso mai che il bagaglio culturale di una nazione possa costituire un ostacolo o un peso per l’innovazione: al contrario, penso che possa e debba costituire un’opportunità. La sensibilità al nuovo, la capacità di innovare, riguardano l’intenzione di una cultura e di una società di interrogarsi sul presente e sul futuro, che significa anche declinare al futuro la propria tradizione, il proprio passato.
Le istituzioni deputate all’istruzione e alla ricerca sono all’altezza del proprio ruolo? Sono insufficienti, o addirittura ostacolo per svolgere una buona attività formativa?
Credo che spesso le istituzioni preposte a formare nell’ambito degli argomenti che sono oggetto delle sue domande manchino di una visione, non dico del futuro, ma persino del presente. Negli anni ‘80, cito a memoria, Umberto Eco affermava, con ragione, che se l’università avesse mantenuto rispetto alla società un vantaggio di vent’anni avrebbe assolto alla sua funzione. Oggi mi pare che, al contrario, la formazione cerchi di inseguire l’evoluzione della società, lentamente e confusamente. Mi sembra inoltre che la formazione e direi anche la ricerca più interessanti su questi argomenti non avvengano più all’interno delle università ma delle accademie, di un certo numero di accademie. Sia perché le accademie per loro natura sono in grado di fornire un complemento pratico, concreto e laboratoriale fondamentale alla formazione, sia perché hanno compreso l’importanza della dimensione teorica in questi argomenti, introducendola o rafforzandola nei curricula didattici.
Quali motivazioni vede nella maggior parte dei suoi alunni? Sono generalmente spinti da intenti di carattere artistico, sociale, espressivo, filosofico, o professionale?
Avendo insegnato e insegnando in varie istituzioni e a vari livelli mi sono trovato e mi trovo davanti a motivazioni molto diverse. Ma motivazioni e obiettivi molto diversi possono esserci anche negli studenti dello stesso corso. Quando insegnavo al DAMS di Bologna nel mio corso avevo studenti di cinema, arte, musica, teatro, ma anche di lingue, informatica, ingegneria, dato che in vari corsi di laurea la mia materia poteva essere scelta tra tutte quelle dell’ateneo: dunque, evidentemente, le motivazioni e gli obiettivi degli studenti erano molto diversi. Bisogna quindi fare dei distinguo. In linea più generale, nell’ambito delle lauree di primo livello penso che le spinte, le pulsioni, oltre che molto varie, spesso non siano chiare e consapevoli. Abbastanza chiara è una direzione generale, un insieme talvolta confuso e inconsapevole di attitudini e passioni, ma tutto questo può condurre in molti rivoli diversi. Qui la formazione deve essere capace di portare alla luce ciò che è ancora sommerso, deve rendere consapevoli. A livelli formativi successivi (lauree specialistiche, master…) la consapevolezza è più chiara, e dunque diversi dovrebbero essere anche gli intenti e gli strumenti formativi.
In un ambito di insegnamento artistico e/o professionale, è giusto imporre un metodo/visione totalizzante, oppure è preferibile dare una certa libertà intervenendo solo con suggerimenti?
Non penso che l’insegnamento debba imporre alcunché. Al di là di questo credo che debba esistere una grande variabilità, che dipende dalla natura della materia insegnata (teorica o pratica), dall’istituzione (università, accademia), dal livello dei corsi (triennale, specialistica, master…), dagli obiettivi da raggiungere, dalle attitudini del docente, dalle caratteristiche degli studenti, dal loro numero, dalle dotazioni tecniche… e così via. L’ideale sarebbe una formazione individualizzata o a piccoli gruppi, ma questo di rado è possibile. Si può in parte sopperire con l’impiego di strumenti net-based, come learning systems, social networks, ecc.
Su cosa si basano in particolar modo le sue valutazioni didattiche (esami, prove, ecc. …)? Nelle conoscenze acquisite, nella capacità di ragionamento, nell’esposizione formale delle competenze, nella sensibilità artistica, o cos’altro?
Tutte le cose che indica sono importanti, anche se non allo stesso modo, per tutti i miei insegnamenti. A quelle che elenca aggiungerei l’impegno e la passione.
Quali consigli darebbe a chi vuole iniziare a studiare in ambito artistico/culturale i new media e le nuove tecnologie?
In primo luogo di scegliere bene l’istituzione. Non è facile, sia perché in chi inizia non sempre sono chiari gli obiettivi, sia perché la possibilità di essere informati su questi argomenti è scarsa. Dentro Noema abbiamo fatto partire da poco un progetto collaborativo, edu.List (http://edulist.noemalab.org), co-prodotto da Yasmin, un network di artisti, scienziati, docenti, istituzioni di tutto il mondo che promuove nella regione mediterranea la conoscenza e la collaborazione tra arti, tecnologie e scienze. edu.List, cha sarà ampliato per divenire uno strumento più completo, elenca istituzioni e corsi nazionali e internazionali su questi argomenti, ed è nato proprio grazie alla richiesta di informazioni da parte dei miei studenti.
Quanto è importante insegnare agli studenti il metodo? Per metodo intendo progettuale, e cognitivo nell’approccio alla teoria. Quale metodologia e/o deontologia professa?
Più che un metodo direi una forma mentis. Non bisogna adagiarsi sul quel che recitano i media, i mass media e i new media, perché spesso è troppo semplice, fuorviante o interessato: è necessario interpretare, magari utilizzando punti di vista e strumenti diversi. Nelle discipline che insegno ci sono delle parti che richiedono letteralmente di immergersi all’interno di modalità di pensiero e di prospettive complesse e anche impopolari. Lasciare i pregiudizi, essere aperti e nel contempo critici è fondamentale. Per farlo è necessario che si stabilisca una fiducia reciproca, un’empatia, che entrino in gioco la passione, l’ascolto, la disponibilità.
Come struttura generalmente il suo programma didattico? Quali metodi didattici utilizza per le sue lezioni?
Ci sono varie fasi. C’è un’idea di partenza con dei contenuti. Il primo passo è armonizzarli con gli obiettivi istituzionali (Università, Accademia, Corso di Laurea, Indirizzo…). Poi bisogna strutturare contenuti e obiettivi in lezioni, dare loro una forma chiara, didatticamente completa e accessibile. Infine, e a questo servono le prime lezioni, è necessario un lavoro fine per adeguare i contenuti alla classe, dato che da un anno all’altro ci possono essere delle differenze rilevanti negli studenti. In genere il programma didattico è composto, anche se non sempre in maniera esplicita, da tre parti, spesso compresenti: una, diciamo così, storica, per mostrare le fondamenta degli argomenti, una teorica, per mostrarne la provenienza e le possibili destinazioni teoriche, e una pragmatica, per mostrarne le applicazioni e comprendere meglio la teoria. L’ultima parte può anche essere pratica e svolgersi in laboratorio.
Proiettare diapositive e audiovisivi durante le lezioni costituisce un buon ausilio didattico, lo faccio dalla metà degli anni ‘90. Fuori dell’aula uso un learning system, anche per distribuire agli studenti i contenuti delle lezioni e gli approfondimenti e per seguirli meglio: ognuno di loro, in genere nello stesso giorno della lezione, può scaricare i file delle lezioni, essere aggiornato sugli argomenti trattati, può approfondirli, porre domande… Spesso questo strumento contribuisce a creare una comunità, ad amalgamare meglio la classe. Ho iniziato nel 2002: prima usavo un forum dedicato ma dal 2003 uso Moodle, che è Open Source e gratuito, anche all’interno dell’e-learning.lab (http://elearning.noemalab.org/), il progetto didattico di Noema.
Nel mondo della rete, ma non solo, si sta assistendo alla consacrazione del prosumatore (produttore/consumatore di contenuti). Tutti siamo artisti, tutti partecipiamo all’attività produttiva. Da un punto di vista professionale e/o artistico come si dovrebbe rapportare a ciò uno studente? Quali strumenti gli vengono offerti per distinguersi nel proprio lavoro?
Partecipare all’“attività produttiva” non significa necessariamente essere artisti. Fino alla diffusione di massa della fotografia la possibilità – ma anche il potere – di produrre immagini era nelle mani dei pochi che avevano le capacità tecniche, sostanzialmente fondate sull’abilità manuale, per farlo. Oggi tutti possono produrre immagini senza bisogno di alcuna abilità manuale e con strumenti economici, come i computer, le fotocamere e le videocamere digitali, i telefoni cellulari… Ma se oggi è possibile disporre di strumenti economici o gratuiti per fare video, immagini, musica, testi, ecc., e per comunicarli e condividerli a livello planetario, ciò non significa essere automaticamente degli artisti. Certo, c’è una maggiore probabilità rispetto al passato che un costrutto, anche non realizzato con finalità artistiche, possa venire riconosciuto e considerato come arte, tuttavia penso che la discriminante resti la forza delle idee, la visionarietà, l’interdisciplinarietà, la capacità innovativa e progettuale… In parte è una storia nota, con la differenza che oggi l’arte opera nel campo delle comunicazioni di massa, flirta con esse.
Le generazioni che sono nate in una cultura fortemente “televisiva” soffrono generalmente di una incapacità critica nei confronti dei contenuti e delle forme che gli vengono proposte. Ha notato anche Lei questo, nei suoi studenti? Il metodo educativo dovrebbe contrastare o adattarsi a questa situazione?
Direi di no, almeno nelle istituzioni in cui insegno: la posizione degli studenti è spesso fortemente critica, talvolta al limiti del pregiudizio, nei confronti della TV e dei mass media in genere. Il problema è che questa critica spesso non ha una base solida, si nutre di luoghi comuni… Il compito è dunque quello di aiutare a costruire delle fondamenta, in negativo ma anche in positivo.
Nei corsi che riguardano le arti tecnologiche approdano studenti che provengono dai percorsi di formazione più disparati. Come si riescono a gestire queste eterogeneità? Quali meccanismi vengono predisposti per fare fronte a lacune tecniche o teoriche?
In varie istituzioni gli studenti che hanno dei debiti formativi o delle lacune vengono indirizzati a corsi introduttivi ad hoc o hanno l’obbligo di seguire corsi propedeutici, anche ufficiali, o seminari. Ma in molti casi sono i docenti a farsi carico di questi problemi, il che incide, evidentemente, sulla didattica. Si può consigliare agli studenti in debito di leggere dei libri propedeutici su determinati argomenti, o dedicarvi la prima parte del corso… Ma penso che la soluzione più efficace sia quella di cercare un’integrazione all’interno dei corsi stessi, magari anche con workshop o seminari a latere. Resto comunque convinto che si possa parlare e discutere di digitale – come di qualunque altro argomento – senza essere né troppo semplici né troppo difficili né banali.
Recentemente la forma di workshop viene molto utilizzata sia in accademie e istituzioni sia in altri contesti, ma non è ancora molto chiaro il vero ruolo e funzionamento. Cosa è e cosa dovrebbe essere secondo lei un workshop? Quali aspetti positivi e quali aspetti negativi offre?
Mi pare che spesso quello di “workshop” sia un concetto interpretato in modi diversi: laboratorio… seminario… qualcosa che comprende l’uno o l’altro… o entrambi… pratico… teorico… sia teorico che pratico… In linea generale il workshop dovrebbe essere focalizzato su un argomento, circoscritto: dunque tipicamente dovrebbe approfondire il particolare a discapito del generale, il che costituisce il suo pregio e nel contempo il suo limite. La sua efficacia didattica ovviamente dipende dalle situazioni.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, la funzione artistica nel panorama contemporaneo?
Io penso che l’arte dovrebbe avere varie funzioni nella società contemporanea. In particolare, nel mondo occidentale, tra le funzioni più importanti certamente vi sono quella cognitiva e quella critica.
L’autoformazione è una pratica che nasce dall’esigenza di avere una struttura formativa che non sia istituzionalizzata, e estranea a determinati meccanismi centralizzati. Potrebbe anche essere considerata una reazione di sfiducia nei confronti delle istituzioni educative. Anche in ambito artistico esistono questo genere di realtà (il S.A.L.E. di Venezia, ad esempio). Lei cosa pensa di questa alternativa forma didattica? Quali aspetti positivi e/o negativi si porta?
In linea di principio, fatta salva la serietà di queste offerte formative, sono favorevole a situazioni didattiche che cercano strade diverse rispetto alle istituzioni. Perché nascono dall’accertamento di insufficienze presenti nelle istituzioni e perché possono essere di stimolo alle istituzioni stesse, che spesso devono sottostare a vincoli e limiti, burocratici, economici, didattici, formativi, culturali…
Ho apprezzato in particolar modo le sue lezioni per il modo in cui spinge i suoi studenti a ragionamenti su tematiche molto complesse, usando metafore e linguaggi molto semplici. Sembra, in qualche modo, seguire i presupposti della maieutica tramite uno scambio di feedback. Questo è il metodo che predilige? E’ dunque più importante il processo di ragionamento piuttosto che una conoscenza statica e mnemonica?
La ringrazio molto dei complimenti… In effetti quello di affrontare argomenti teorici anche molto complessi e profondamente interdisciplinari, come sono quelli della contemporaneità, non solo artistica, mediante metafore, esempi e un linguaggio comprensibile senza sacrificare la scientificità è un metodo che uso da lungo tempo, e che nonostante mi venga abbastanza naturale, forse anche per formazione, ha dovuto essere affinato nel tempo. Lo ritengo molto efficace, anche mediante l’ausilio di slides e altri strumenti e materiali. Il feedback degli studenti è fondamentale non solo per farli entrare all’interno delle problematiche, ma anche per rendersi conto di quali aspetti sono di maggiore difficoltà, operando di conseguenza.
E sì, naturalmente sono convinto che sia molto più importante il processo di ragionamento che la dimensione mnemonica. La conoscenza è sempre un processo dinamico, un declinare e collegare dei saperi che non si può imporre ma deve essere condiviso, discusso. Tra l’altro mediante questo processo gli studenti si rendono anche conto facilmente di quali conoscenze sono loro necessarie, andandole a cercare, se non le posseggono, anche in maniera autonoma, all’interno di un quadro definito.
Un aspetto giustamente imprescindibile che riguarda l’ambito scientifico/tecnologico, è la visione orientata sempre verso il futuro. E’ anche vero che l’uomo per sua natura agisce in funzione di una proiezione di se stesso verso il futuro (dal breve al lungo termine). Con questa tendenza non si rischia però di dimenticarsi del presente e delle sue priorità?
La “visione orientata al futuro” non riguarda solo l’ambito scientifico-tecnologico, ma direi tutta la sfera esistenziale umana. Chiedo spesso ai miei studenti perché sono iscritti all’istituzione di cui seguono i corsi… Per il passato? Per il presente? O perché pensano – più o meno consapevolmente – che le lezioni delle discipline che seguono possano prepararli al futuro? Ma, se ci pensiamo, tutti noi abbiamo già un piede nel futuro, tutte le nostre attività sono rivolte al futuro. La stessa etimologia di “progetto” è “gettare al di là”. Ma “al di là” di che cosa? Certamente al di là delle difficoltà, dei problemi, ma soprattutto al di là del tempo. E’ grazie a questa incessante attività rivolta al futuro che cerchiamo di dare forma a quello che poi diventerà il presente. Quando affermiamo di “trascurare” il presente implicitamente ammettiamo che nel momento in cui lo abbiamo progettato come futuro abbiamo tralasciato – per incapacità, ignoranza, risorse insufficienti, incuria, dolo… – delle variabili significative. Tutto ciò non significa affatto dimenticarsi del presente o trascurarlo, al contrario: riflettere sul presente, lasciarci riempire da esso, viverlo fino in fondo, analizzarne le mancanze, i limiti, è il motore più potente per migliorare quel futuro che sarà il presente di domani.
Dall’anno accademico 2007/2008, lei ha iniziato il corso di “Sistemi Interattivi” presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara che svolge in videoconferenza. Come si è rivelata questa esperienza? Quali limiti e quali potenzialità offre questo genere di tele-didattica?
Dall’anno accademico 2007/08, anno in cui ho accettato l’incarico, svolgo il corso di “Sistemi interattivi” in teleconferenza (non in videoconferenza, dunque trasmettendo solo la voce) per il 50% circa delle lezioni. Credo che si tratti di una delle prime esperienze in Italia, che devo principalmente alla sensibilità nei confronti delle innovazioni e alla fiducia del direttore della scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte, Tommaso Tozzi. Naturalmente prima di iniziare la cosa è stata studiata bene, dal punto di vista dei contenuti, tecnico, della fattibilità, dell’organizzazione… La teleconferenza presenta dei vantaggi: quello più evidente è che non è necessario che gli studenti siano in aula (anche se c’è un’aula appositamente attrezzata), ma solo che siano temporalmente compresenti. A Carrara alcuni studenti non potevano venire a lezione perché impegnati in Erasmus all’estero, perché lavoravano o per impedimenti di altro tipo. Lo svantaggio principale è che la compresenza spaziale e l’interazione diretta per molte occorrenze sono – per varie ragioni che non sto ad elencare – fondamentali: per questo una metà del mio corso prevede la modalità didattica più tradizionale. Penso che questa forma di insegnamento misto, che tecnicamente si chiama blended learning, se si appoggia a un learning system appropriato e in condizioni logistiche adeguate sia molto interessante per l’insegnamento delle mie materie. Dato il riscontro molto positivo ho intenzione di ripetere l’esperienza.
Isabella Bordoni
Isabella Bordoni (1962) è poeta, autrice, performer, artista visiva e sonora, impegnata artisticamente dalla metà degli anni Ottanta. Attenta alla relazione tra parola, voce, suono e scena, tra paesaggio e tempo, tra tecnologia e natura. Dal 1985 cura la drammaturgia, la regia e la direzione di lavori per il teatro, la radio, i media, ricevendo commissioni da enti radiofonici europei, presente in festival e rassegne di teatro, poesia, arte.
Nell’ambito delle arti visive progetta e realizza installazioni anche con utilizzo di tecnologie interattive.
Conclusa l’esperienza artistica con Giardini Pensili, che ha co-fondato nel 1985, ha dato vita a “Progetto per le Arti/IB_project for the arts”, una piattaforma nomade e di ricerca nella relazione tra arti, luoghi, media. Dal 2006 è direttrice artistica di “SolaPoesia, giornate di poesia&critica”.
Dal 2004 al 2007 è stata docente di videoarte, videoinstallazione, regia, presso l’Accademia di Belle Arti di Rimini, dove attualmente è incaricata per la docenza al corso Applicazioni digitali arti visive. Dal 2006 è docente di “poetry.scapes/storytelling” al master Digital Environment Design presso la NABA di Milano.
Da quanti anni insegna nell’ambito delle culture e arti tecnologiche? In questi anni ha visto dei cambiamenti nelle nuove generazioni di studenti?
Il mio esordio come insegnante è abbastanza recente. Sono stata chiamata a collaborare con le Accademie dove insegno sulla base di un percorso artistico anagraficamente maturo e credo sia indispensabile sottolineare il fatto che il mio lavoro di artista (e anche di docente) si innesta e cresce lungo percorsi della tecnica e della tecnologia ma parte dalla parola, dalla scena performativa e teatrale, dallo spazio pubblico, per farne luogo poetico. Sono quindi portatrice di un metodo dove l’esperienza dell’arte incontra l’esperienza dei media e le due esperienze compongono una comune drammaturgia, una “drammaturgia poetica” dei media. Grazie a questo innesto scelgo di muovermi con gli studenti in uno spazio di libertà, una libertà che accoglie criticamente il rischio di esplorare, conoscere, sperimentare le culture e le arti tecnologiche attraversando la poesia e la filosofia ed è grazie a questa libertà che interpreto l’ampia esperienza d’insegnamento come un progetto artistico, che dal 2004 si declina anche in percorsi didattici. In merito a questi percorsi non ho dati sufficienti per storicizzare un’esperienza che dura da pochi anni, né per potere distinguere tra generazioni gli studenti che ho incontrato. Posso invece considerare che l’insegnamento più di altre pratiche, vive di reciprocità e si innesta in presa diretta sul contemporaneo. Si serve della comunicazione come materia fluida e come mezzo altrettanto fluido. Nel flusso di materia e mezzo, gli studenti come i docenti sono immersi nelle tensioni, nelle afasie, nelle dislessie, nelle alterazioni e nella complessità del contemporaneo. Se la nostra epoca soffre di nuovi totalitarismi, ne portano i segni privativi l’arte, la ricerca, la scuola, gli studenti e gli stessi docenti. Come spesso accade la privazione mette in evidenza un vuoto e ne fa sentire il peso e le conseguenze. Talvolta questa è la via per arrivare a una nuova consapevolezza e credo che sia proprio questa consapevolezza la via sulla quale le generazioni di studenti (e di docenti) di oggi possono mettersi in gioco.
Solo recentemente in Italia si sta assistendo ad un forte interesse verso le tematiche riguardanti le arti tecnologiche. Secondo lei, siamo pronti a competere a livello internazionale da un punto di vista quantitativo e qualitativo dei progetti?
Mi sono avvicinata alle nuove tecnologie sul finire degli anni ’80, grazie alla frequentazione con una comunità artistica e scientifica europea che dalla metà degli anni ’90, con il passaggio della direzione dell’Ars Electronica Center a Gerfried Stocker, aveva in Linz un punto di riferimento. In quegli anni e a lungo, in Italia la ricerca intorno alle arti tecnologiche e interattive e allo studio dell’interfaccia uomo-macchina, si svolgeva nei laboratori di ingegneria e informatica ed erano ancora rare le applicazioni sceniche. Ricordo il lavoro di Antonio Camurri al DIST (Dipartimento di Informatica, Sistemistica e Telematica) della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Genova, dove nel 1984 fondò l’InfoMus Lab, o l’esperienza di Tempo Reale, il Centro di produzione, ricerca e didattica musicale di Firenze fondato da Luciano Berio nel 1987 per investigare le possibilità di interazione tra strumenti acustici e sistemi digitali, le esperienze di interazione tra suono e spazio. Da qui provengono oggi alcune delle esperienze artistiche che apprezzo maggiormente, la cui radicalità espressiva è dettata certo dal sapere tecnologico ma altresì dalle personalità artistiche che le muovono: penso al lavoro di Virgilio Sieni o di David Moss nell’incontro con la ricerca intorno alla dinamica della voce, del gesto, del corpo, dove la priorità non è certamente quella di “dimostrare” le possibilità tecnologiche quanto raggiungere un obiettivo linguistico.
Naturalmente nel corso di quasi venticinque anni ciò che era “eccezione” è divenuto “norma” e oggi è “normale” l’applicazione delle tecnologie digitali nelle arti sceniche, ma questa stessa normalità ne segna anche l’omologazione e la superficialità. Oggi usare tecnologie audiovisive e/o interattive in un progetto creativo è perfino un atto di consenso se e quando strizza l’occhio ad un appagamento che è funzionale all’economia, ovvero alla possibilità di comprendere immediatamente un evento e immediatamente valutare un processo creativo in virtù del suo farsi prodotto più o meno consumabile sul mercato, anche sul mercato delle idee. Credo dunque che il discorso intorno alle arti tecnologiche sia piuttosto complesso e il suo terreno di riflessione non sia esattamente quello della sua competitività tecnica sul piano internazionale, quanto la capacità di comporre drammaturgie poetiche dei media. Quando dico “drammaturgie poetiche” o anche solo con il termine “poetiche” intendo la volontà di includere il tempo nell’elaborazione e nella percezione dell’atto creativo. Questo significa darsi non l’immediatezza come parametro di conoscenza, ma un altro ordine di tempo. Direi dunque che ciò che a me sta a cuore è la possibilità di comporre, con i media, drammaturgie poetiche e temporali, ovvero piccole dimore del pensiero.
Viviamo in un paese ricco di tradizione artistica. Il peso della cultura che ci trasciniamo è un limite per l’innovazione e la ricerca tecnica e artistica, o può essere un punto da sfruttare a favore?
Credo che fare i conti con la storia e nel caso dell’Italia anche con la bellezza, per ciò che esse donano e per ciò che esse sottraggono, sia un passaggio importante per ogni formazione. Personalmente sostengo il valore della memoria ma credo anche nella dimenticanza. Oggi in particolare che intorno alla “memoria”, alla “coscienza” si creano nuovi business dell’”etica”, è ancora di più un equilibrio complesso quello tra memoria e oblio, e nel considerare entrambi occorre fare distinzione se ci si riferisce ad essi come patrimonio del singolo atto/gesto creativo o come patrimonio della collettività e della formazione in genere. Credo comunque che grandi passaggi e crescite accadano in stato di smemoratezza. Lo stato di smemoratezza non ha nulla a che vedere con l’ignoranza, al contrario, piuttosto con una esposizione alla conoscenza. Come scrive Nietzsche nelle seconda delle sue Considerazioni inattuali intorno all’utilità e al danno della storia per la vita per ogni agire ci vuole oblio. Penso potremmo parlare di una filosofia del ricordo e pensare a quella dottrina del risveglio con la quale Benjamin dice che «il risveglio è una “tecnica” del congedo dal passato», l’attraversamento di una soglia intesa come zona e non confine. Spazio di attraversamento, caso esemplare del rammemorare.
Le istituzioni deputate all’istruzione e alla ricerca sono all’altezza del proprio ruolo? Sono insufficienti, o addirittura ostacolo per svolgere una buona attività formativa?
E’ evidente che sul piano legislativo esiste in Italia una volontà di livellamento al basso. Occorre ritagliarsi spazi di eccellenza con grande caparbietà assumendosene il rischio a livello di direzione delle singole Accademie o di altre istituzioni, ma anche a livello di docenti e di studenti. Nel senso che la strada per l’emancipazione è una scelta personale che nessuna istituzione ti favorisce. Esistono spazi di autonomia che occorre mettere a profitto facendo rete. Ho esperienza continuativa in due Accademie di Belle Arti in Italia, la Naba di Milano e la Laba di Rimini, quest’ultima succursale della casa madre di Brescia. Ho poi collaborazioni più episodiche con Università in Italia e a volte anche all’estero. Si tratta di realtà talvolta molto diverse tra loro, collocate in contesti ambientali, urbani e amministrativi differenti ed è bene quando ciascuna realtà si ritaglia una propria eccellenza anche in ragione della propria natura geografica nonché ovviamente, delle risorse economiche di cui dispone.
Essere un luogo di alta formazione artistica e tecnologica a Milano può consentire relazioni con il Nord Europa, allora penso a Ars Electronica di Linz, alla Scuola dei Media di Colonia, allo ZKM di Karlsruhe, mondi con i quali è possibile dialogare in forma permanente, non tanto per “piazzare” il lavoro di un corso dentro a un festival, quanto per stabilire sistemi di collaborazione duratura su progettualità e ricerca.
Diversamente, essere un centro di alta formazione artistica a Rimini potrebbe volere dire – ad esempio – decidere di muoversi nelle reti del Mediterraneo, tra Nordafrica e paesi dell’Est Europeo, Medio Oriente, creare piattaforme di scambio, workshop gemelli tra paesi, sistemi di ospitalità, tanto più in una città di costa come Rimini che cerca una nuova vocazione di «turismo culturale», termine peraltro piuttosto ambiguo che forse è bene declinare in ospitalità culturale, forma che a me suona meno opportunistica e meno vandalica.
Comunque è proprio prendendo atto di una mancanza e quindi della necessità di costruire uno spazio di formazione ad ampio raggio, che abbiamo creato il progetto d’arte, di critica e di formazione permanente LIBERTA’ COME BENE SUPREMO.
Quando dico la necessità di assumersi responsabilità dico anche questo, ovvero mettersi al lavoro insieme, per colmare dei vuoti e progettare la formazione. Il vuoto che io sento più stringente è un vuoto di democrazia anche nell’ambito della formazione, troppo vincolato a sistemi di dipendenza diretta tra accessibilità e denaro.
Per questo con gli enti partner del progetto (la Biblioteca G.Battarra e il teatro CorTe di Coriano, nella provincia di Rimini) abbiamo lavorato per dare alle giornate di LIBERTA’ COME BENE SUPREMO un profilo formativo alto e l’accesso gratuito, perché insieme all’opportunità della formazione occorre anche dare l’opportunità di spezzare il pregiudizio economico. Credo che anche in ambito culturale dovremo stabilire economie di scambio non basare esclusivamente sul denaro, come segno di civiltà e di democrazia.
In un ambito di insegnamento artistico e/o professionale, è giusto imporre un metodo/visione totalizzante, oppure è preferibile dare una certa libertà intervenendo solo con suggerimenti?
Premetto che tra le due, sono contraria al totalitarismo e favorevole alla libertà. Ma se intendo bene la tua domanda direi che esiste una terza via. Personalmente seguo questa terza via che io chiamo il patto della fiducia. Quando inizio una nuova avventura di insegnamento sto e chiedo di stare nel patto della fiducia reciproca, questo consente di transitare nelle zone d’ombra, fissare delle impronte dove i passaggi sono meno ovvi. Insieme a una preparazione quanto più possibile approfondita e critica, invito alla presa di responsabilità e l’assunzione di un rischio teorico, critico, espressivo, compositivo, da parte di ciascun studente. Quando questo patto funziona – e spesso funziona – accadono piccoli miracoli.
Su cosa si basano in particolar modo le sue valutazioni didattiche (esami, prove, ecc. …)? Nelle conoscenze acquisite, nella capacità di ragionamento, nell’esposizione formale delle competenze, nella sensibilità artistica, o cos’altro?
Gli studenti sono singoli individui e ciascuno ha capacità e predisposizioni proprie. Ci sono ragazze e ragazzi capaci di stare in maniera critica nel linguaggio, capaci di elaborare un percorso estetico se non autonomo comunque originale, altri invece con eccezionali intuizioni creative. Occorre rispettare ciascuno nel gesto che a loro è congeniale cercando di completarne il percorso nelle diverse zone mancanti, fare da argine alla dispersione ma accogliere la molteplicità. Se durante il corso di insegnamento si tende a questa complessità, in sede di esame e di tesi chiedo di darne voce.
Quali consigli darebbe a chi vuole iniziare a studiare in ambito artistico/culturale i new media e le nuove tecnologie?
Di coltivare la curiosità, farsi attraversare dalle domande, muoversi oltre gli steccati culturali, oltre le identità e i territori, oltre le tendenze, oltre la competizione. L’Europa, l’occidente, sono solo una parte del mondo, anche del mondo dei new media.
Nel mondo della rete, ma non solo, si sta assistendo alla consacrazione del prosumatore (produttore/consumatore di contenuti). Tutti siamo artisti, tutti partecipiamo all’attività produttiva. Da un punto di vista professionale e/o artistico come si dovrebbe rapportare a ciò uno studente? Quali strumenti gli vengono offerti per distinguersi nel proprio lavoro?
Sappiamo che la techné designa contemporaneamente l’artista e il tecnico accomunati dal loro saper fare. È fuori dubbio che tutti noi produciamo e consumiamo contenuti, ma nelle declinazioni del linguaggio contemporaneo dove produzione e consumo rimandano ad un sistema economico-commerciale, tenderei a esprimermi con un linguaggio meno aziendale. L’arte che mi interessa abita e alimenta una zona di resistenza che può spartire il proprio presente con il consumo, ma non il proprio fine.
Le generazioni che sono nate in una cultura fortemente televisiva soffrono generalmente di una incapacità critica nei confronti dei contenuti e delle forme che gli vengono proposte. Ha notato anche Lei questo, nei suoi studenti? Il metodo educativo dovrebbe contrastare o adattarsi a questa situazione?
Ho incontrato tra i miei studenti persone molto vivaci intellettualmente. Può darsi che la televisione li abbia accompagnati in parte della loro crescita come mezzo di intrattenimento o formazione, ma credo che loro abbiano saputo trarne il meglio, l’agilità di spostare il punto di vista, per esempio.
Credo nei giovani, ne ho stima e penso che il mondo abbia un grande bisogno di loro. I giovani o i meno giovani che scelgono di impegnarsi nello studio – delle arti e delle culture digitali, ma direi dello studio in genere – sono già dei privilegiati perché hanno un progetto; a volte può essere esile, ma ce l’hanno.
I giovani a rischio di impermeabilità critica non sono loro. Ma soprattutto credo che scippare i giovani del loro futuro sia il gesto più colpevole della politica del nostro tempo. Siamo noi, i quarantenni e i cinquantenni di oggi che abbiamo il dovere e la responsabilità di una presa di posizione e di una capacità critica.
Nei corsi che riguardano le arti tecnologiche approdano studenti che provengono dai percorsi di formazione più disparati. Come si riescono a gestire queste eterogeneità? Quali meccanismi vengono predisposti per fare fronte a lacune tecniche o teoriche?
Sempre di più ci muoviamo nelle diversità. La diversità è una ricchezza. Capito questo, è possibile stabilire forme di collaborazione interne al gruppo classe, sistemi di auto formazione e formazione reciproca per affrontare temporanee lacune.
Recentemente la forma di workshop viene molto utilizzata sia in accademie e istituzioni sia in altri contesti, ma non è ancora molto chiaro il vero ruolo e funzionamento. Cosa è e cosa dovrebbe essere secondo lei un workshop? Quali aspetti positivi e quali aspetti negativi offre?
Un workshop va studiato nel ritmo, nei tempi interni, è un’esperienza che richiede di essere condotta come una partitura musicale, su pulsazioni corporee e sul battito del pensiero dei partecipanti per mettere al mondo un mondo. Vi si concentrano spesso così tante elaborazioni teoriche ed emotive da creare spazi eterotopici e tempi eterocronici. Personalmente investo parecchie energie in questa forma/evento, capace di generare apprendimento ed espressione formidabili.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, la funzione artistica nel panorama contemporaneo?
L’arte, l’artista, hanno una funzione sociale di risveglio. L’arte è figlia del proprio tempo ma è anche anticipatrice rispetto ad esso. Coglie il mondo sensibile e il germogliare delle idee; per questo credo esista nell’arte una zona inappropriabile, di irriconoscibilità, perché in parte ancora estranea al presente.
L’autoformazione è una pratica che nasce dall’esigenza di avere una struttura formativa che non sia istituzionalizzata, e estranea a determinati meccanismi centralizzati. Potrebbe anche essere considerata una reazione di sfiducia nei confronti delle istituzioni educative. Anche in ambito artistico esistono questo genere di realtà (il S.A.L.E. di Venezia, ad esempio). Lei cosa pensa di questa alternativa forma didattica? Quali aspetti positivi e/o negativi si porta?
Pratico l’auto formazione anche all’interno dei miei corsi accademici quando le competenze di qualcuno vengono messe a disposizione di tutti. Quando espressa al di fuori delle istituzioni scolastiche, vedo nell’auto formazione una precisa pratica politica per l’accesso e la distribuzione democratica dei saperi e non posso che sostenerla. L’esperienza di LIBERTA’ COME BENE SUPREMO sebbene diversamente va comunque in questa direzione. Se questo apre spazi di conflittualità con la formazione accademica, ben vengano, possono essere lo stimolo a fare di più e meglio da parte di tutti. Ma di fatto non credo nell’opposizione tra auto formazione e formazione istituzionalizzata, credo anzi sia importante favorire percorsi di integrazione tra l’una e l’altra, elaborare strategie partecipative di intelligenza collettiva.
Le sue lezioni sono fuori dall’ordinario. Sembrano dedicate a stimolare il lato sensibile degli studenti creando situazioni di forte empatia. Quale è l’obbiettivo che si pone con il suo metodo?
In Differenza e ripetizione Deleuze ci dice che «Non è altri a essere un altro Io, ma l’Io un altro, un Io incrinato. Non c’è amore che non cominci con la rivelazione di un mondo possibile in quanto tale, involto in altri che lo esprime». Credo che il processo della creazione artistica più di altri abbia bisogno di una parola che spesso è tabù, soprattutto nel mondo della scuola, la parola amore. Non c’è amore che non cominci con la rivelazione di un mondo possibile in quanto tale, e non c’è rivelazione che non chieda amore. Amore del dubbio, delle zone di esitazione che appartengono a ciascuno, dunque amore per qeulla creatura che è una e unica. Se sono i corpi il luogo dell’esistenza, se sono i corpi e le città, amore dei luoghi allora, così torniamo alla risposta della tua prima domanda, torniamo al luogo poetico. C’è un frammento bellissimo di Jean-Luc Nancy da Corpus che dice: «Non sappiamo quali scritture o quali escrizioni verranno da questi luoghi. Quali diagrammi, quali reticoli, quali innesti topologici, quali geografie delle moltitudini. È venuto il momento di scrivere e di pensare questo corpo nella lontananza infinita che lo fa nostro, che ce lo fa venire da lontano, da più lontano di tutti i nostri pensieri: il corpo esposto alla popolazione del mondo». Ecco credo che l’obiettivo del mio lavoro di insegnante sia dare voce a delle piccole epifanie dell’Io, qualche metafora del corpo.
Le esperienze che lei offre aiutano fortemente a creare il gruppo/classe. Quali aspetti del suo insegnamento risultano più importanti a tessere i rapporti?
Lavoro sul gruppo e sul singolo contemporaneamente, quindi sull’individualità ma anche sulle relazioni. Evito la leadership ma valorizzo ciascuno. E rischio. Porto gli studenti su terreni sdruccioli perché conto molto sulla loro intelligenza e sulla loro sensibilità. E’ il patto della fiducia di cui parlavo all’inizio.
Si parla spesso di tecnologie, di società, comunicazione ecc. … Dove si può trovare la poesia nelle sperimentazioni della tecnica? Quale approccio propone ai suoi studenti in questo?
Mi pare che oggi viviamo contemporaneamente due orizzonti, l’uno è quello della centralità della progressione tecnologica che si esprime per esempio con sistemi di controllo sociale sempre più capillari, l’altro è la parabola decrescente della tecnologia nelle forme del mito. Trovo che questa doppiezza sia interessante e che ci chieda di tornare a pensare una tecnica che stia nella natura. In questo senso mi approssimo anche io al pensiero di Deleuze e Guattari che sostengono come il pensare non sia né un filo teso tra un soggetto e un oggetto, né una rivoluzione dell’uno intorno all’altro. Il pensare si realizza piuttosto nel rapporto tra il territorio e la terra. L’approccio che sollecito agli studenti è dunque l’allenamento alle forme di questo pensare. Per farlo, passo attraverso i miei interessi: la parola, il linguaggio. Il corpo, lo sguardo, la visione. I sensi, l’ascolto, lo spazio, l’architettura, il movimento. Mi interessano soprattutto gli spazi intermedi che si occupano temporaneamente per raggiungerne altri, e trovo che la poesia e il cinema siano tra gli altri quelli che meglio esprimono quel luogo di esitazione prolungata. Scrive Paul Valery «La poesia, un’esitazione prolungata tra il suono e il senso»; anche il cinema è luogo di un’esitazione quando pratica la non-coincidenza grazie all’interruzione. Intendo la poesia, la filosofia, il cinema luoghi di una esitazione prolungata, una corto-circuitazione del senso da fare entrare in risonanza con la tecnologia, la società, la comunicazione. Di nuovo, torniamo a quello che dicevamo prima intorno al tempo, per comporre una drammaturgia poetica e temporale dei media.
Anna De Manincor
Anna De Manincor (1972) è artista visiva, regista e performer. Svolge la sua attività artistica, in Italia e all’estero, sia come singola che con il gruppo ZimmerFrei. Dal 1996 si occupa della regia di cortometraggi, videoclip e documentari. Realizza installazioni sonore e video installazioni, nella sua pratica artistica confluisce spesso la sua attività di performer e l’esperienza della danza.
Nel 2003 partecipa alla mostra d’Arte Internazionale della Biennale di Venezia, e dal 2004 cura eventi pubblici di arte contemporanea.
Dopo ad aver tenuto vari laboratori di realizzazione creativa (regia, video, montaggio, suono, installazioni…) dal 2005 al 2008 ha insegnato “Estetiche delle nuove tecnologie” presso il Cobaslid dell’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dal 2006 prosegue la sua attività didattica tenendo il corso di “Tecniche di Regia” alla NABA di Milano.
Da quanti anni insegna nell’ambito delle culture e arti tecnologiche? In questi anni ha visto dei cambiamenti nelle nuove generazioni di studenti?
Da tre anni insegno Estetica delle nuove tecnologie nel corso post-laurea Cobaslid all’Accademia di Belle Arti di Bologna e da due anni Tecniche di regia alla NABA di Milano. In questi tre anni ho incontrato una grande varietà di studenti e non un cambiamento unitario.
Solo recentemente in Italia si sta assistendo ad un forte interesse verso le tematiche riguardanti le arti tecnologiche. Secondo lei, siamo pronti a competere a livello internazionale da un punto di vista quantitativo e qualitativo dei progetti?
Ne abbiamo le qualità. Non so se ne abbiamo frequenti occasioni.
Viviamo in un paese ricco di tradizione artistica. Il peso della cultura che ci trasciniamo è un limite per l’innovazione e la ricerca tecnica e artistica, o può essere un punto da sfruttare a favore?
Non è affatto un limite, è una risorsa.
Le istituzioni deputate all’istruzione e alla ricerca sono all’altezza del proprio ruolo? Sono insufficienti, o addirittura ostacolo per svolgere una buona attività formativa?
L’istruzione media superiore italiana è ancora all’altezza del proprio ruolo, anche se con scarsa omogeneità. La ricerca invece è insufficiente, perché nella grande maggioranza delle istituzioni manca la visione e l’investimento nel futuro. Il morale è bassissimo anche a causa della sfiducia e non-identificazione nelle istituzioni stesse.
Le istituzioni educative sono spesso accusate di avere problemi di carattere amministrativo e organizzativo (mancanza di fondi, di strutture, eccessi burocratici ecc. …). Quali sono i problemi che lei riesce a osservare? Secondo lei, il sistema dell’istruzione, è ancora competitivo (e integrato) con le dinamiche culturali e cognitive sempre più veloci e complesse?
Non so rispondere. Non credo che il sistema dell’istruzione debba essere competitivo con le dinamiche culturali. Ne è parte, integrata o meno.
Quali motivazioni vede nella maggior parte dei suoi alunni? Sono generalmente spinti da intenti di carattere artistico, sociale, espressivo, filosofico, o professionale?
Gli studenti di Naba sono principalmente mossi da un’aspirazione artistica, espressiva o esistenziale. Gli studenti del Cobaslid contano di acquisire più competenza e più possibilità di inserimento professionale (ma molto spesso ne sono delusi).
In un ambito di insegnamento artistico e/o professionale, è giusto imporre un metodo/visione totalizzante, oppure è preferibile dare una certa libertà intervenendo solo con suggerimenti?
Credo sia importante proporre una visione a cui si aderisce, dichiarandola apertamente e riconoscendola come parziale, in modo da renderla disponibile come strumento di lavoro ma anche rendendo possibile l’emergere di punti di vista differenti ed eventuali contraddizioni.
Su cosa si basano in particolar modo le sue valutazioni didattiche (esami, prove, ecc. …)? Nelle conoscenze acquisite, nella capacità di ragionamento, nell’esposizione formale delle competenze, nella sensibilità artistica, o cos’altro?
Lucidità e passione, entusiasmo e organizzazione.
Quali consigli darebbe a chi vuole iniziare a studiare in ambito artistico/culturale i new media e le nuove tecnologie?
In questa come in tutte le altre discipline: fare almeno un’esperienza di studio o auto-formazione all’estero e non dedicarsi a una cosa sola. Lavorare in gruppo, cercare e creare occasioni di formazione ed espressione anche fuori dalle istituzioni formative.
Scegliere i propri maestri e non diventarne i discepoli.
Quanto è importante insegnare agli studenti il metodo? Per metodo intendo progettuale, e cognitivo nell’approccio alla teoria. Quale metodologia e/o deontologia professa?
Non ne professo una, ne pratico alcune. Estetica fenomenologica, cultural studies, salti repentini tra sincronicità, diacronicità e ucronia.
Ex-ducere: tirar fuori. Non si tratta di trasmettere il sapere ma di creare le condizioni per fare alcune esperienze insieme e appassionarsi a diventare maestri di se stessi.
Come struttura generalmente il suo programma didattico? Quali metodi didattici utilizza per le sue lezioni?
Visione e ascolto, analisi, discussione, proposta da parte degli studenti di altri testi/opere/oggetti/esempi. Indagare e inventare strategie comunicative. Allenamento a formulare domande.
Alcune domande classiche della “media education”: What if? What else?
Esercitazioni tecniche (riprese video, set fotografici, registrazioni sonore, scrittura per immagini e altro). Esperienze collettive (scrivere un progetto, pianificare e girare un video, fare un’intervista, inventare un finale o un incipit di un film esistente, scambiare i ruoli, inventare un dispositivo di fruizione). Un progetto individuale di carattere sperimentale e che sia compatibile con i tempi per realizzarlo.
Agli studenti svogliati o apatici propongo un contratto di sfruttamento inverso: non sono io a volere qualcosa da loro ma loro a dover pretendere qualcosa da me. Il nostro tempo (mio e loro) è la cosa più preziosa che abbiamo e che possiamo scambiare. Se si annoiano si devono arrabbiare, se si arrabbiano devono trovare delle domande, se quello che propongo non li interessa devono trovare e portare una contro-proposta (se non adesso almeno domani).
Tutte queste esperienze fanno parte della mia auto-formazione come docente.
Nel mondo della rete, ma non solo, si sta assistendo alla consacrazione del prosumatore (produttore/consumatore di contenuti). Tutti siamo artisti, tutti partecipiamo all’attività produttiva. Da un punto di vista professionale e/o artistico come si dovrebbe rapportare a ciò uno studente? Quali strumenti gli vengono offerti per distinguersi nel proprio lavoro?
E’ la proposta di cultural e visual studies di stampo anglosassone. Al centro non c’è l’artista o l’autore ma la comunità che si nutre della cultura e nutre la cultura.
Credo che uno studente (e chiunque) non debba pensare a distinguersi dagli altri ma a nutrirsi il più possibile per diventare sempre più consapevole e padrone dei propri strumenti, in modo da acquistare sempre più libertà di azione e duttilità al cambiamento e alla sorpresa di se stessi, nel frattempo coltivando delle zone di silenzio in cui condurre la propria vita di animale singolare e irripetibile.
Ovviamente, all’aumentare della consapevolezza aumentano anche le domande e le complessità, ma le domande che rimangono irrisolte a volte sono proprio le più preziose e produttive (a patto che si facciano sonni profondi e sogni d’oro).
Le generazioni che sono nate in una cultura fortemente “televisiva” soffrono generalmente di una incapacità critica nei confronti dei contenuti e delle forme che gli vengono proposte. Ha notato anche Lei questo, nei suoi studenti? Il metodo educativo dovrebbe contrastare o adattarsi a questa situazione?
… si autoselezionano. Non praticano una critica di tipo storicista o ideologica, ma adottano altre pratiche, ad esempio la “riscrittura”, “fan fiction”, si appropriano con facilità dei materiali, prima che delle teorie, si interessano agli oggetti di cui possono “farsene qualcosa”, si procurano enormi archivi audio-visivi da cui attingere al momento opportuno, non fanno distinzione (tra popolare exxxx(ispirante, forte, utile, fico…)
Nei corsi che riguardano le arti tecnologiche approdano studenti che provengono dai percorsi di formazione più disparati. Come si riescono a gestire queste eterogeneità? Quali meccanismi vengono predisposti per fare fronte a lacune tecniche o teoriche?
Non tutte le disparità devono essere uniformate, soprattutto quelle di provenienza da ambiti diversi (tra gli studenti del Cobaslid ci sono architetti e maestri elementari, scultori e decoratori, fotografi e restauratori, artisti e media-attivisti…). A NABA ci sono italiani e stranieri, figli di super-benestanti e borsisti, ragazzi con rigidi obiettivi e altri morbidamente ancora senza… Le frizioni tra tali percorsi sono spesso molto utili.
Se vengono identificate gravi lacune (ad esempio nella proprietà del linguaggio o nella cultura di base -storia, scienze, filosofia…), le stesse lacune vengono riproposte come zone da interrogare, ambiti in cui trovare potenzialità inespresse e sfide reciproche.
Molto spesso sono più utili i compagni che i docenti, e una pratica rivelatasi molto produttiva è quella di instaurare l’abitudine di dichiarare le proprie fonti: “ho letto sulla tale rivista”, “ho scaricato dalla rete”, “su youtube c’è un tutorial che fa fare passo passo tutte le prove di compressione del formato”, “ad Amsterdam ho notato”, “parlando con il tale mi è venuto in mente”, ”mi ha detto mio nonno falegname”, “l’altra sera mi è successo”…
Recentemente la forma di workshop viene molto utilizzata sia in accademie e istituzioni sia in altri contesti, ma non è ancora molto chiaro il vero ruolo e funzionamento. Cosa è e cosa dovrebbe essere secondo lei un workshop? Quali aspetti positivi e quali aspetti negativi offre?
Intendo workshop come bottega di lavoro: si viene leggeri, ci si sporca le mani con la materia e il tempo e si produce un risultato tangibile pensando al “fuori”, alla strada su cui la bottega si affaccia, alle persone che vorremmo entrassero.
Il problema è che il fare ha bisogno di molto più tempo e continuità del “parlare del fare”.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, la funzione artistica nel panorama contemporaneo?
Accipicchia (ammazza!). Provo: assorbire, interpretare e trasfigurare il presente (contenente anche il passato), aspirando alla visione e trasformazione del futuro.
In riferimento all’arte audiovisiva e performativa: proporre esperienze di conoscenza, empatia, contemplazione e sintesi che siano altro dalla parola e la scrittura. Condensati di vita e immaginazione in forma fruibile da terzi.
L’autoformazione è una pratica che nasce dall’esigenza di avere una struttura formativa che non sia istituzionalizzata, e estranea a determinati meccanismi centralizzati. Potrebbe anche essere considerata una reazione di sfiducia nei confronti delle istituzioni educative. Anche in ambito artistico esistono questo genere di realtà (il S.A.L.E. di Venezia, ad esempio). Lei cosa pensa di questa alternativa forma didattica? Quali aspetti positivi e/o negativi si porta?
La sua esperienza artistica passa trasversalmente in varie forme: danza, regia, e installazioni. Quale atteggiamento insegna ai suoi studenti, nell’approcciarsi a differenti mezzi e a differenti percezioni artistiche?
Spesso le intuizioni vengono nel considerare un ambito dal punto di vista di un altro, le innovazioni sono spesso frutto di trasfusioni, le ispirazioni sorgono dalle differenze, le idee dagli scarti e per scarto.
Ad esempio si può fare la regia di uno spazio percorribile, comporre una coreografia come se fosse un’architettura, montare un video coreografandone il movimento interno, comporre i suoni per evocare immagini, chiudere gli occhi per vedere.
Nel suo lavoro artistico, lei è passata dal video alla video installazione. Quale è l’importanza del supporto e dell’ambiente che accoglie l’opera nei suoi lavori?
Ogni opera è un dispositivo che crea le sue regole e propone le sue chiavi di accesso.
Credo che ogni opera dovrebbe considerarsi un’installazione, di più, l’opera DEVE considerare il supporto, l’ambiente, il contesto, il tempo, i fruitori.
Art is time-based.
Valentina Tanni
Critica d’arte, curatrice e docente, si interessa principalmente di new media art e di editoria multimediale. È tra i fondatori di Exibart ed Exibart.onpaper, progetti che segue dalla fine degli Anni Novanta. Nel 2000 ha fondato ExiWebArt, prima rubrica italiana dedicata alla Net Art, e nel 2001 Random Magazine, un osservatorio online sulla new media art.
Ha lavorato come consulente per Monti & Taft e come responsabile editoriale web per il Gruppo FMR. Tra le mostre curate, la sezione di Net Art di Media Connection (Palazzo delle Esposizioni, Roma e Triennale di Milano, 2001), le collettive Netizens (Sala1, Roma, 2002) e L’oading. Videogiochi Geneticamente Modificati (Galleria Civica Montevergini, Siracusa, 2003) e il progetto di residenza Mediaterrae (Avellino, 2007). Collabora con i festival di arti digitali Interferenze e Peam ed è curatore ospite di FotoGrafia. Festival Internazionale di Roma per la sezione Fotografia e Nuovi Media (edizioni 2010-2012). Nel 2009 ha fondato l’agenzia di servizi editoriali per il web Editees.
Scrive articoli e approfondimenti per testate nazionali e internazionali (Exibart, Flash Art, Gulliver, Campus, Time Out Roma, Digicult, Neural) e ha lavorato come docente per istituzioni pubbliche e private (Università degli Studi di Roma La Sapienza; Università degli Studi di Udine; IED, Accademia del Lusso, Accademia delle Arti e delle Nuove Tecnologie).
Vive a Roma.
Da quanti anni insegna nell’ambito delle culture e arti tecnologiche? In questi anni ha visto dei cambiamenti nelle nuove generazioni di studenti?
Considerando il corso Universitario, ma anche Master e Seminari organizzati da istituzioni pubbliche e private, sono circa otto anni che svolgo attività didattica in questo campo. Senz’altro ci sono stati dei cambiamenti nella sensibilità degli studenti nel corso degli anni. La dimestichezza con le nuove tecnologie è aumentata, e insieme ad essa la curiosità per le applicazioni creative ad esse connesse. Tuttavia si riscontra ancora una forte arretratezza culturale in questo campo, persino tra le giovani generazioni. Quello che manca non sono tanto le competenze tecnico-pratiche, quanto la consapevolezza nell’uso degli strumenti. Una vera e propria “cultura del digitale”.
Solo recentemente in Italia si sta assistendo ad un forte interesse verso le tematiche riguardanti le arti tecnologiche. Secondo lei, siamo pronti a competere a livello internazionale da un punto di vista quantitativo e qualitativo dei progetti?
Come accennavo poco sopra, purtroppo non mi sento di rispondere affermativamente a questa domanda. L’interesse verso le arti tecnologiche nel nostro Paese è ancora sporadico e non sostenuto da un’attività di formazione culturale adeguata. Esistono senz’altro delle punte di eccellenza, delle nicchie all’interno delle quali la sperimentazione si fa strada e prolifera, ma non penso che questo sia sufficiente per renderci competitivi a livello internazionale.
Viviamo in un paese ricco di tradizione artistica. Il peso della cultura che ci trasciniamo è un limite per l’innovazione e la ricerca tecnica e artistica, o può essere un punto da sfruttare a favore?
Potrebbe essere un vantaggio enorme. Essere figli di una cultura tanto ricca e longeva potrebbe permetterci di sviluppare un approccio al progresso tecnologico unico e differente da tutti gli altri. Il confronto tra il passato e il presente infatti è un territorio che ha sempre dato frutti straordinari, questo però a patto che non ci si adagi sulla celebrazione nostalgica di un antico mitizzato e non interiorizzato. A patto che si legga nel presente la possibilità di esprimere una cultura altrettanto potente e ricca. Purtroppo questo avviene molto di rado, e più spesso la grandezza del passato artistico italiano finisce per schiacciarci con il suo peso irrisolto.
Le istituzioni deputate all’istruzione e alla ricerca sono all’altezza del proprio ruolo? Sono insufficienti, o addirittura ostacolo per svolgere una buona attività formativa?
Da un punto di vista della qualità dei docenti e dei corsi, mi sento di dire che, in massima parte, la qualità resiste. Non posso dire altrettanto, purtroppo, per quanto riguarda le strutture, il supporto organizzativo e quello economico, che sono ancora gravemente insufficienti.
Quali motivazioni vede nella maggior parte dei suoi alunni? Sono generalmente spinti da intenti di carattere artistico, sociale, espressivo, filosofico, o professionale?
Il mio corso universitario viene frequentato perlopiù da matricole, che sono ancora all’inizio del loro percorso formativo e quindi spesso non hanno ancora un’idea precisa rispetto al loro futuro personale e professionale. Senza dubbio c’è un forte interesse storico-artistico e in alcuni casi anche espressivo. Per quanto riguarda i master post-laurea, il discorso è un po’ diverso, perché si tratta di allievi spesso già parzialmente inseriti nel mondo del lavoro.
In un ambito di insegnamento artistico e/o professionale, è giusto imporre un metodo/visione totalizzante, oppure è preferibile dare una certa libertà intervenendo solo con suggerimenti?
Un approccio totalizzante rischia di paralizzare la creatività, ma anche una serie slegata di suggerimenti può essere rischiosa, perché non offre una visione sufficientemente forte, in grado di scatenare la passione per la ricerca e la scintilla creativa. Secondo me un buon metodo consiste nell’esprimere con chiarezza la propria visione, lasciando però ampio spazio al dissenso e alla deviazione dal sentiero principale.
Su cosa si basano in particolar modo le sue valutazioni didattiche (esami, prove, ecc. …)? Nelle conoscenze acquisite, nella capacità di ragionamento, nell’esposizione formale delle competenze, nella sensibilità artistica, o cos’altro?
I criteri di valutazione sono molteplici. Sicuramente valuto le conoscenze acquisite, ma anche moltissimo la capacità di elaborazione personale di queste conoscenze.
Quali consigli darebbe a chi vuole iniziare a studiare in ambito artistico/culturale i new media e le nuove tecnologie?
Direi che le tecnologie vanno studiate e usate allo stesso tempo, per non rischiare di perdere il contatto con la realtà veleggiando solo nei mari della teoria. E poi sicuramente, di imparare l’inglese. Tutte le letture più stimolanti (libri, riviste, siti web) e tutte le persone più interessanti che lavorano in questo ambito comunicano in inglese.
Quanto è importante insegnare agli studenti il metodo? Per metodo intendo progettuale, e cognitivo nell’approccio alla teoria. Quale metodologia e/o deontologia professa?
E’ senza dubbio importante comunicare un metodo di analisi e di studio. Ma è di gran lunga più importante comunicare la passione per la materia. Tutto il resto viene di conseguenza.
Come struttura generalmente il suo programma didattico? Quali metodi didattici utilizza per le sue lezioni?
Il mio programma prevede due step. Nel primo c’è molta informatica di base, come richiesto dai piani di studio, mentre il secondo è dedicato all’approfondimento di un tema, con il supporto di testi teorici. Non ho un metodo didattico unico e immutabile, utilizzo qualsiasi mezzo mi sembri utile a comunicare i concetti. Per cui c’è la lezione frontale classica, ma anche il dibattito, la visione di materiali audiovisivi, la visita guidata a mostre ed eventi. Per quanto riguarda le verifiche, prediligo quella orale, che permette il dialogo e lo scambio di idee.
Nel mondo della rete, ma non solo, si sta assistendo alla consacrazione del prosumatore (produttore/consumatore di contenuti). Tutti siamo artisti, tutti partecipiamo all’attività produttiva. Da un punto di vista professionale e/o artistico come si dovrebbe rapportare a ciò uno studente? Quali strumenti gli vengono offerti per distinguersi nel proprio lavoro?
Se è sicuramente vero che il consumatore oggi non è passivo come una volta e ha a disposizione numerosi strumenti per interagire, questo non significa affatto che “siamo tutti artisti”. E distinguersi è sempre una faccenda di talento.
Le generazioni che sono nate in una cultura fortemente “televisiva” soffrono generalmente di una incapacità critica nei confronti dei contenuti e delle forme che gli vengono proposte. Ha notato anche Lei questo, nei suoi studenti? Il metodo educativo dovrebbe contrastare o adattarsi a questa situazione?
Si, quello della scarsa capacità critica è un problema che esiste e con cui tutti ci confrontiamo. Però non sono convinta che la causa sia la cultura “televisiva”. Credo molto di più che la causa sia la mancanza di dialogo e di stimoli alla partecipazione. E queste sono colpe che ricadono sulla famiglia, sulla società e anche sul sistema scolastico. Il metodo educativo deve senza dubbio contrastare questa tendenza, stimolando il più possibile il ragionamento critico e l’espressione personale.
Nei corsi che riguardano le arti tecnologiche approdano studenti che provengono dai percorsi di formazione più disparati. Come si riescono a gestire queste eterogeneità? Quali meccanismi vengono predisposti per fare fronte a lacune tecniche o teoriche?
Si reagisce cercando di trasformare il “problema” in una ricchezza, e quindi attivando lo scambio tra studenti con formazione e competenze differenti. In parallelo, metto sempre a disposizione ampie bibliografie e materiali di approfondimento che permettano di colmare qualsiasi genere di lacuna.
Recentemente la forma di workshop viene molto utilizzata sia in accademie e istituzioni sia in altri contesti, ma non è ancora molto chiaro il vero ruolo e funzionamento. Cosa è e cosa dovrebbe essere secondo lei un workshop? Quali aspetti positivi e quali aspetti negativi offre?
Il workshop, formula che apprezzo molto, dovrebbe essere un momento di fusione tra teoria e pratica. Un laboratorio in cui si fa e si discute allo stesso tempo. L’importante è che non si riduca ad una semplice vetrina per l’artista/docente, che presenta il suo lavoro ad un’aula che si limita ad ascoltare.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, la funzione artistica nel panorama contemporaneo?
La funzione dell’arte è sempre la stessa, da secoli. Moltiplicare i punti di vista, insinuare dubbi, aprire la mente, mostrarci universi che non avremmo immaginato esistessero.
L’autoformazione è una pratica che nasce dall’esigenza di avere una struttura formativa che non sia istituzionalizzata, e estranea a determinati meccanismi centralizzati. Potrebbe anche essere considerata una reazione di sfiducia nei confronti delle istituzioni educative. Anche in ambito artistico esistono questo genere di realtà (il S.A.L.E. di Venezia, ad esempio). Lei cosa pensa di questa alternativa forma didattica? Quali aspetti positivi e/o negativi si porta?
La formazione può avvenire ovunque. E più se ne fa, meglio è.
Le arti tecnologiche sono un ambito amplissimo che raccoglie tanti approcci differenti, e che non hanno ancora una vera e propria storicizzazione. Lei si occupa sia delle arti tecnologiche che dell’arte contemporanea. Secondo lei, quali possono essere i punti di contatto tra questi due ambiti artistici? Quale approccio delle arti tecnologiche potrebbe essere più facilmente inglobato dal sistema artistico tradizionale?
L’arte elettronica è arte contemporanea. Il cosiddetto “sistema artistico tradizionale” a volte fa fatica a comprendere alcune espressioni legate alle nuove tecnologie, un po’ per mancanza di cultura specifica, un po’ per questioni di mercato. Ma la prima cosa da fare è smettere di considerarli due ambiti artistici diversi. L’arte è una. Semmai la dicotomia sta (ed è sempre stata) tra le ragioni meramente poetiche e quelle di mercato. Una dicotomia che si risolve in rarissimi e fortunatissimi casi. La maggior parte delle volte queste due componenti non hanno una correlazione diretta.
La Net Art è stata una delle espressioni delle arti tecnologiche che ha avuto un maggior successo. Con il tempo ha preso spesso significati e forme differenti, per questo molti affermano che in realtà la Net Art oggi non esiste più. Sempre che sia lecito dare etichette, quali sono secondo lei le caratteristiche che identificano la Net Art? Quali sono le direzioni che sta prendendo attualmente questa forma artistica?
La Net Art è stata l’ultima avanguardia del Novecento! E in un certo senso è vero che non esiste più. Non esiste più come movimento, ma questo non vuol dire che la Rete abbia smesso di essere un ambiente prolifico per la sperimentazione artistica. Semplicemente, Internet è uno dei tanti mezzi che gli artisti hanno a disposizione, ma la scelta di utilizzarlo non è più “centrale” e “caratterizzante”, come succedeva negli anni Novanta.
Anna Maria Monteverdi
Anna Maria Monteverdi è esperta di Nuovi Media per il Teatro. Svolge attività di ricerca in Canada, a Québec city e Montréal (2001) presso il FTA (Festival dei Teatri delle Americhe) e EX machina. E’ stata docente di Drammaturgia dei media al Dams di Bologna (2005-2007), Teatro Multimediale all’Università di Pisa (dal 2002 al 2007), Fenomenologia del teatro d’avanguardia all’Accademia di Macerata (2005-2006) e Storia della Scenografia al Dams di Genova (dal 2004). Attualmente insegna “Forme dello spettacolo multimediale” al Dams di Genova, “Teatro contemporaneo” al Master in Digital Environment della Naba di Milano, Digital Video all’Accademia di Brera e “Analisi del repertorio multimodale” al Conservatorio di Genova.
Ha pubblicato saggi, libri e monografie su artisti teatrali e tecnologici; con Andrea Balzola ha pubblicato il volume Le arti multimediali digitali (Garzanti, Milano 2005) e Storie mandaliche-spettacolo interattivo (Pisa Nistri-Lischi). E’ autrice della voce Teatro multimediale per l’Encyclomedia di Umberto Eco. Scrive regolarmente per cataloghi di Festival, riviste specializzate e antologie su artisti video e tecnoperformer. E’ redattrice di riviste di arte, di teatro e di cultura digitale: Hystrio, ateatro.it, Digicult.it, My media, Predella.it, Cut up. Con Andrea Balzola e Mauro Lupone ha fondato il Media Lab XLABfactory, laboratorio di ricerca e sperimentazione dei nuovi media.
Da quanti anni insegna nell’ambito delle culture e arti tecnologiche? In questi anni ha visto dei cambiamenti nelle nuove generazioni di studenti?
Ho iniziato a interessarmi di Teatro tecnologico o Digital Performance all’inizio degli anni Novanta a Pisa dopo una laurea e un dottorato al Dipartimento di Storia delle Arti dove insegnavano Fernando Mastropasqua e Sandra Lischi; rimasi folgorata dal video teatro grazie al fondamentale libro “La nuova scena elettronica” di Andrea Balzola – che per fortuna verrà riedito a breve; poco dopo lo conobbi di persona in occasione di un mio contratto di insegnamento all’Accademia di Carrara. Balzola è un intellettuale di altissimo livello, una delle personalità più influenti nell’ambito dei media studies che non a caso ha dato impulso all’apertura delle sezioni Multimediali nelle Accademie in Italia ed è pioniere degli studi sulla drammaturgia multimediale che lui ha sperimentato con successo anche come autore; abbiamo collaborato sin da subito, abbiamo messo insieme una compagnia XLABFACTORY e alcune produzioni tecnoteatrali. Ma soprattutto siamo coautori del volume per Garzanti Le Arti multimediali digitali che dal 2004 ad oggi ha avuto un enorme successo (3 edizioni in pochi anni), messo in programma in moltissimi corsi universitari e d’Accademia e credo che questo libro in qualche modo sia servito come strumento per docenti e studenti. Dalla metà degli anni Novanta in poi i miei corsi sono diventati sempre più numerosi collegati spesso alla mia ricerca in Canada su Robert Lepage il cui lavoro artistico tecno teatrale credo di aver contribuito a far conoscere in Italia anche grazie alla mia monografia e a numerosi articoli e interviste apparse su Digimag e ateatro.it. Ho insegnato per 6 anni al Corso di laurea in Cinema Musica Teatro dell’Università di Pisa (Teatro Multimediale), 2 anni al Dams di Bologna (Drammaturgia dei media), 2 anni alla NABA (Teatro contemporano). Da 4 anni insegno alla Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte dell’Accademia di Brera (Digital video), da 6 al Dams di Genova (Forme dello spettacolo multimediale) e ho moltissime collaborazioni con il Dams di Messina, con il Conservatorio di Genova, con l’Accademia di Macerata oltre che con Corsi professionalizzanti, Master, Fondazioni Teatrali. Quanto alla seconda domanda dovrei rispondere che gli studenti sono cambiati perché è cambiata l’Università e l’Accademia, tra riforme, 3+2….La Legge di Riforma 508/99 e il DM 268/2002 hanno equiparato il titolo rilasciato dalle Accademie ai Diplomi di laurea di primo livello dell’Università. Una svolta che consente alle Accademie di riguadagnare un ruolo fondamentale nel contesto della formazione e della ricerca. Infine la riforma della Gelmini che ha portato la ghigliottina ai corsi di laurea e ha obbligato ad accorpare insegnamenti.
Un tempo, dopo una laurea nel settore letterario e artistico gli sbocchi forse erano più limitati, ristretti a un ambito di insegnamento di materie tradizionali nelle scuole. Oggi esistono nuove professioni legate ai new media, all’editoria in rete e di conseguenza anche le agenzie formative hanno cercato di rinnovarsi per definire nuovi corsi adatti a nuovi profili professionali sulla base delle esigenze del mercato del lavoro, conciliando l’aspetto teorico a quello pratico-applicativo attraverso stage e workshop dedicati: nascono corsi di laurea legati al web design, all’allestimento multimediale per musei e teatri, progettazione e modellazione 3D e così via.
Quello che è cambiato è anche l’apporto attivo degli studenti rispetto alla formulazione dell’offerta formativa, sono più rappresentati e quindi hanno più voce, hanno più forza, l’Onda studentesca si è costituita a livello nazionale contro le proposte di riforma del Ministro Gelmini; l’autoformazione poi è una realtà che si sta consolidando. Gli studenti oggi hanno maggiore consapevolezza e pratica dei nuovi media, ma continuano a perpetuare uno sbaglio enorme, a studiare materie come cinema e teatro e a non frequentarlo per niente! E’ un paradosso ma è così! Altrimenti, dato l’altro numero di DAMS tutti i teatri dovrebbero fare il sold out!
Solo recentemente in Italia si sta assistendo ad un forte interesse verso le tematiche riguardanti le arti tecnologiche. Secondo lei, siamo pronti a competere a livello internazionale da un punto di vista quantitativo e qualitativo dei progetti?
L’arretratezza cronica dell’Italia è sotto gli occhi di tutti soprattutto se rapportata alla produzione tecnologica che vediamo nei vari festival (vedi l’ultima edizione di Ars electronica di Linz dove la presenza degli italiani era inesistente); ma a mio avviso è dovuta più alla scarsità di pre-condizioni ideali (politiche, economiche, e l’una conseguenza dell’altra) che di motivazioni e di idee. Oggi molti artisti e molte compagnie che lavorano con i new media hanno piccoli incentivi iniziali a realizzare un primo concept, magari trovano delle brevi residenze, ma è tutto molto casuale, basato su qualche bando e qualche borsa di creazione, qualche laboratorio che difficilmente però porta a un percorso di lavoro completo, a una stabilità e a una sicurezza. A differenza dell’estero, della Francia o del Belgio per esempio vedi Le Fresnoy o Ghent, non ci sono molti centri dedicati al lavoro tecnologico che mettono a disposizione spazi attrezzati, residenze, materiali, tecnologie, know how e un investimento produttivo. Cambia la situazione per quanto riguarda il panorama dei festival dedicati alle arti elettroniche, che mi sembra stia diventando sempre più vivace; si tratta magari di situazioni autogestite e autoprodotte, che spaziano dall’hacker art al live media, e su questo Digicult parla in modo diffuso e rimando al portale per una cartografia più ragionata. In un ambito di ricerca di grande forza espressiva citerei come “capitani”, come nostra migliore rappresentanza nel settore tecnoscenico di cui mi occupo, per l’eccellenza del loro lavoro, la Socìetas Raffaello Sanzio, Studio azzurro, i Motus, Teatrino Clandestino, Roberto Latini, Giardini Pensili – che sono ormai dei “classici” – e tra quelli attuali i Santasangre, Ortographe, Mutaimago e aggiungerei anche la mia compagnia Xlabfactory. Loro hanno dimostrato di poter competere a livello internazionale, sono presenti in Festival a Barcellona, a Montréal, a Berlino, a Parigi.
Viviamo in un paese ricco di tradizione artistica. Il peso della cultura che ci trasciniamo è un limite per l’innovazione e la ricerca tecnica e artistica, o può essere un punto da sfruttare a favore?
Dipende. Lepage, liberissimo da ogni tradizione provenendo dal Nuovo Continente, ha guardato al Rinascimento italiano e alle macchine leonardesche per trovare ispirazione al suo teatro tecnologico! L’arretratezza è più mentale che strutturale. Il problema del “peso della tradizione” riguarda più che altro chi programma eventi più che chi intende lavorare sul fronte delle tecnologie. Si teme il nuovo e si teme che non ci possa essere un pubblico vasto per questo settore; quindi si privilegia l’ovvio e il banale televisivo con cui non si rischia, emarginando ogni genere di altra proposta. Non credo che sia più solo un problema di “tradizione”, ma di incapacità di “osare” cambiando la logica consumistica delle proposte culturali. Bisognerebbe che si imponesse l’idea di ospitare proposte-laboratorio dedite espressamente all’elaborazione connettiva di esperienze artistiche tecnologiche. Ovviamente ci sono eccezioni e varrebbe la pena fare una sorta di “censimento” delle buone pratiche tecno artistiche italiane; vorrei citare per esempio, il fatto assai positivo che quest’anno nei Festival teatrali di ricerca, le proposte tecnologiche sono state ampiamente rappresentate, vedi Uovo Festival, DanaE, Dro, Santarcangelo, Festival delle Colline torinesi, e in Festival musicali come MiTo era presente Ikeda. E questo fa ben sperare. Personalmente ho ospitato quest’estate un progetto di installazione interattiva molto spettacolare site specific a Portovenere ispirata al mare a firma di un mio ex studente di Brera assai in gamba, Silvio Combi. Era un’occasione unica, per la prima volta nella storia dell’antico borgo marinaro spezzino entrava l’arte digitale…. E l’appoggio non l’ho avuto affatto dall’assessorato alla cultura che proponeva appuntamenti estivi scontati e un po’ polverosi, ma dall’Ente Parco Marino di Portovenere che ha intuito l’appeal “turistico” del lavoro interattivo che esaltava in modo straordinario la bellezza del paesaggio e delle antiche architetture del luogo, sotto il vincolo della Soprintendenza ai Beni Artistici e dell’Unesco! Mi sembra che questa sia una delle possibili soluzioni per un compromesso tra luoghi ricchi di tradizione e di storia e progetti di innovazione tecnologica: trovare delle relazioni originali con il territorio, studiare dei legami forti e non invasivi con natura, cultura e ambiente. Penso che la parola chiave in questo caso sia stata “sustainability”.
Quali motivazioni vede nella maggior parte dei suoi alunni? Sono generalmente spinti da intenti di carattere artistico, sociale, espressivo , filosofico, o professionale?
Come fai a fare un discorso generale? Certamente ci sono studenti molto motivati e ricchi di intenzioni, di creatività, di passione e di curiosità legate magari ai loro percorsi formativi di provenienza, noi abbiamo il compito di farli esprimere, di trovare dei temi su cui farli lavorare e spingerli a conoscere e approfondire determinate tematiche, dargli se possibile qualche possibilità: quest’anno a MALASPINARTE al Castello di Malaspina ho ospitato 7 lavori artistici di giovani studenti di BRERA 2 – Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte. Alcuni di loro avevano già fatto esperienze di alto livello come Marco Pucci vincitore di due edizioni di Milano in Digitale e Francesco Bertocco che ha esposto delle fotografie di scena molto suggestive. L’importante è che abbiano voglia di sperimentare, di andare al di là dell’automatismo del mezzo tecnico, del conformismo, del dilettantismo. Farli riflettere sul linguaggio non sul mezzo tecnico in quanto tale è il nostro compito, far capire loro che la ricerca e la sperimentazione diventa interessante quando usi queste tecnologie in modo improprio, fuori dalla logica mass mediatica, quando ne stravolgi la loro funzione originaria e strumentale. Alcuni di loro riescono poi a conciliare benissimo lo studio con attività lavorative in qualità di fotografi, grafici, video-operatori e web designer con cui riescono a garantirsi un minimo sostegno economico.
In un ambito di insegnamento artistico e/o professionale, è giusto imporre un metodo/visione totalizzante, oppure è preferibile dare una certa libertà intervenendo solo con suggerimenti?
Non so cosa sia un metodo “totalizzante” . Oggi si distingue tra “lezioni frontali” e non, privilegiando nel secondo caso l’apporto alla lezione in forma di approfondimento da parte degli studenti stessi. Questo permette di organizzare il materiale da analizzare in modo collettivo, cercando il confronto, il dialogo, la discussione aperta a possibili nuovi inserimenti tematici non previsti in fase di formulazione del programma. Certamente non esiste una regola generale, il lavoro didattico e il livello di approfondimento delle lezioni possono anche modellarsi sulla base di suggerimenti dei frequentanti del corso .
Su cosa si basano in particolar modo le sue valutazioni didattiche (esami, prove, ecc. …)? Nelle conoscenze acquisite, nella capacità di ragionamento, nell’esposizione formale delle competenze, nella sensibilità artistica, o cos’altro?
La valutazione in corsi “non frontali” tiene conto dell’apporto attivo dello studente già durante le lezioni in forma di relazioni singole o a gruppi, della frequenza e ovviamente della capacità di sintesi e di esposizione in sede di esame rispetto sia agli argomenti affrontati sia ai volumi messi in programma. Chiaramente è apprezzata la capacità di creare collegamenti trasversali e originali con artisti/correnti/opere; spesso poi gli studenti mi sottopongono materiali artistici da loro realizzati ispirati a temi affrontati a lezione e ne discutiamo insieme, a volte mi fanno conoscere artisti dei loro Paesi di provenienza, ed è uno scambio molto proficuo. Mi piace citare l’esperienza didattica a Brera di quest’anno dove ho proposto di “documentare” un evento artistico singolare: uno spettacolo di ricerca dentro l’Arsenale Militare. Sono usciti dei “progetti” video documentativi completati anche da foto, molto interessanti che hanno concluso felicemente nella pratica, il tema affrontato a lezione del “come documentare” e “cosa documentare” di uno spettacolo teatrale. In pratica, cosa mantenere nella memoria audiovisiva di un evento effimero, dando loro come unico limite, la lunghezza massima di 7 minuti.
Quali consigli darebbe a chi vuole iniziare a studiare in ambito artistico/culturale i new media e le nuove tecnologie?
Consiglierei di fare prima molta esperienza da “spettatore attivo” nella manifestazioni dedicate al video di ricerca, d’autore, alle videoinstallazioni, di andare a scuriosare nei Festival di arte elettronica, di tenersi aggiornati sui portali di informazione sulle comunità digitali (io ne ho scoperto uno francese molto interessante: http://www.digitalarti.com/fr); poi di rinunciare a scelte estetiche preconfezionate, di privilegiare sempre la progettualità della ricerca, di lasciarsi guidare dall’intuizione, da una forte motivazione e dalla propria specificità artistica e di lasciarsi attraversare da una “necessità etica” forte in un momento in cui la tecnologia è spesso usata per manipolare la realtà e obnubilare il senso critico. E di leggere testi sui new media (anche se in Italia ne sono stati pubblicati e tradotti pochi) per acquisire una maggiore consapevolezza “est-etica” dei fenomeni tecno-artistici contemporanei, e se ne hanno la possibilità, di comprare questi cofanetti strepitosi della RARO video su Video in Italia, su Carloni e Franceschetti, Alessandro Amaducci, Romeo Castellucci, Rybczynski, quelli di Feltrinelli su Studio azzurro. Un tempo era difficile accedere ai materiali, ora con questi progetti di distribuzione editoriale e grazie alla rete è possibile avere molta documentazione a cui ispirarsi.
Quanto è importante insegnare agli studenti il metodo? Per metodo intendo progettuale, e cognitivo nell’approccio alla teoria. Quale metodologia e/o deontologia professa?
Metodo è il modo con cui ti avvicini, osservi l’oggetto della tua ricerca. Io ho usato gli strumenti della critica d’arte visuale, non testuale o semiotica, venendo da un Dipartimento di Storia delle Arti fondato da Carlo Ludovico Ragghianti, e sono rimasta legata al metodo di interpretazione purovisibilista da lui aggiornato e alla teoria estetica di Adorno. Mi sono formata sui volumi di “Arti della visione” e sui suoi straordinari critofilm: ricordo ancora con emozione la critolettura ragghiantiana di Guernica, il metodo per apprendere il senso profondo dell’immagine che implica il disvelamento di un “sottottesto”, di un senso nascosto oltre la percezione immediata. E poi aggiungerei l’ermeneutica di Gadamer, l’esperienza estetica di “Verità e metodo” e Elias Canetti, gli aspetti dell’arte e dell’uomo indagati con gli strumenti antropologici, vedi Massa e potere.
Naturalmente porto sempre come riferimento, alcuni volumi legati all’estetica delle arti digitali in particolare quelli di Maldonado, di Edmond Couchot, di Virilio, di De Kerchove, di Philippe Quéau che sono serviti come bibliografia per il volume che io e Balzola abbiamo scritto sulle “Arti multimediali digitali”.
Come struttura generalmente il suo programma didattico? Quali metodi didattici utilizza per le sue lezioni?
Sul piano didattico prediligo sempre un percorso storico-critico attraverso momenti fondamentali, opere emblematiche, cogliendo l’aspetto di innovazione linguistica di opera/autore/correnti. In alcuni casi privilegio uno o più ambiti tematici (lo spazio scenico, la drammaturgia dell’attore, l’interazione) in base al quale seleziono materiali da analizzare. Naturalmente se il tema è il teatro tecnologico non parto dalla “storia del video” ma da quel teatro che nelle prime avanguardie e poi negli anni Settanta ha previsto, preannunciato l’uso delle tecniche, con commistioni e soluzioni di vario genere (dalla fotografia, al cinema, al video, alle animazioni). Il percorso prende in considerazione il “teatro immagine”, la postavanguardia, il video teatro, fino al teatro interattivo facendo l’analisi di opere di artisti come Carmelo Bene, Robert Wilson, Robert Lepage, William Kentridge, Studio azzurro individuando nelle loro poetiche e nelle loro estetiche, il tema centrale per una riflessione sul rapporto tra teatro e tecnologia, ovvero riprendendo il titolo di un testo di Rosalind Krauss, quello della “reinvenzione linguistica del medium a teatro”.
Recentemente ho ripreso a studiare Mejerchold, il regista russo che nel 1922 per primo sperimentò il cinema a teatro; Fausto Malcovati ha recentemente tradotto integralmente il poderoso volume monografico a lui dedicato a firma di Béatrice Picon Vallin. Credo sia importante raccontare da “dove veniamo”, che debiti abbiamo nei confronti delle avanguardie, comprendere concetti fondanti come quello di “opera d’arte totale” per definire un filone di continuità ma anche di rottura.
Nel mondo della rete, ma non solo, si sta assistendo alla consacrazione del prosumatore (produttore/consumatore di contenuti). Tutti siamo artisti, tutti partecipiamo all’attività produttiva. Da un punto di vista professionale e/o artistico come si dovrebbe rapportare a ciò uno studente? Quali strumenti gli vengono offerti per distinguersi nel proprio lavoro?
Tutti siamo artisti è una frase che sinceramente mi fa un po’ sorridere (e a questa preferisco, contestualizzata all’epoca che suggeriva un chiaro indirizzo antiborghese del teatro off Broadway, la frase di Julian Beck del Living Theatre: “Ciascuno è un artista sublime”). Non credo che sia la facilità, la disponibilità del mezzo tecnico a creare l’artista, né il fatto che un’opera mi includa nella sua fase creativa (tema ampiamente esplorato dalle avanguardie), anche se sono convinta che siano epocali la nuova modalità processuale dei new media, il networking, e concetti come l’open source. Il coinvolgimento diretto dello spettatore, nel momento in cui non è pretestuoso o superficiale, ma fondamentale alla sostanza espressiva e comunicativa dell’opera, produce questa nuova figura ibrida di spettatore attore (lo spett-attore, secondo Georges Dyens) o di spettatore creativo, tipico delle migliori installazioni interattive. Come diceva Anne Marie Duguet nel suo fondamentale saggio “Dispositivi”: “L’artista è solo l’autore della proposizione, della concezione dell’opera, del suo dispositivo, del contesto della sua manifestazione. E’ responsabile della sua coerenza, della sua logica. Il visitatore esercita la proposizione, la interpreta. Ne è il performer”. Naturalmente però l’effettiva partecipazione dello spettatore dipende sia dal grado di competenza tecnologica ed estetica dello spettatore sia dal livello di complessità, interesse e dalla durata della proposta artistica. Di certo è cambiato il concetto di “esperienza estetica e il modo di essere “creatore” e “spettatore” perché si evidenzia un dialogo – da sempre implicito nell’opera – tra autore e fruitore; l’interferenza fra diversi linguaggi, l’autore collettivo, il processo artistico come laboratorio di un’esperienza comune è un fatto ormai compiuto così come è ormai consolidato il principio che l’interattività cominci ad avere una funzione cognitiva e più elaborata sul piano espressivo. Uno studente per distinguersi deve, come ricordava in un bell’intervento Andrea Balzola, proporre una progettualità artistica che connetta la straordinaria potenzialità performativa dei nuovi media interattivi con una motivazione “politica” e “filosofica” capace di spostare l’interesse dall’innovazione tecnologica di per sé, dal “mezzo” cioè, al suo “senso”. Quindi deve vivere questo momento come immensa possibilità creativa a cui porre però un vincolo (etico, sociale, politico) di “intenzionalità”. Il prosumer è l’evoluzione del consumatore di informazioni attraverso la rete, che sta diventando sempre più attivatore di notizie, lui stesso al centro di un’infinita rete di collegamenti e di connessioni sociali, potendo usufruire di aggregatori, di piattaforme peer to peer, di reti. Possono questi nuovi mezzi, questi dispositivi dare ispirazione creativa al neoartista, allo studente, al chiunque si affacci alla rete o semplicemente usi Photoshop? Dipende dal neoartista, dallo studente e da quel chiunque potenziale artista sublime e a come metterà in una “forma” (digitale, interattiva, ecc ecc) adatta al contenuto, ciò che è importante dire in questo momento.
Le generazioni che sono nate in una cultura fortemente “televisiva” soffrono generalmente di una incapacità critica nei confronti dei contenuti e delle forme che gli vengono proposte. Ha notato anche Lei questo, nei suoi studenti? Il metodo educativo dovrebbe contrastare o adattarsi a questa situazione?
Noto una tendenza a uniformarsi ai format proposti dalla televisione e all’estetica dominante del web. Ricordo ancora che mostrando un videodocumentario straordinario sul Living Theatre premiato al Tribeca film festival, uno studente di un Master privato, sollecitato a dare un giudizio mi disse che “era un video normale”…L’aggettivo era interessante, tenuto conto che stavo mostrando un’opera documentaria d’autore che aveva inserito materiali d’archivio rarissimi e aveva concepito un montaggio di una raffinata bellezza che connetteva il passato con l’attualità, un video insomma di grandissima forza visiva oltre che una documentazione eccezionale. Lo studente non aveva acquisito negli anni, nonostante la pratica, la capacità di “leggere” criticamente un’opera video nella sua strutturazione (semiotica, visiva, ecc ecc) e nel suo contesto storico, nel suo valore oltre la forma, e quindi l’unico criterio su cui si basava per dare giudizio era l’assenza di “effettistica”, quella che è facile decodificare dai clip della rete che trovi su You Tube….. Quello che dobbiamo fare è contrastare questa tendenza molto superficiale per cui di un video, di un’opera, si valuta la presenza dell’ultima tecnologia sul mercato e non la poetica.
Nei corsi che riguardano le arti tecnologiche approdano studenti che provengono dai percorsi di formazione più disparati. Come si riescono a gestire queste eterogeneità? Quali meccanismi vengono predisposti per fare fronte a lacune tecniche o teoriche?
Occorre un preliminare colloquio per non creare squilibri, ma non sono i docenti che si devono adattare o uniformare alle competenze degli allievi; ci sono delle nozioni di base che devono essere conosciute prima di frequentare il corso, ma di questo si dà notizia nei programmi che specificano i vari step formativi. Si può venire a ricevimento, parlare direttamente con il docente che suggerirà bibliografie, siti da consultare per mettersi in “pari”. In alcuni casi ci sono specifici sbarramenti che riguardano il fatto di dover sostenere prima, esami propedeutici.
Recentemente la forma di workshop viene molto utilizzata sia in accademie e istituzioni sia in altri contesti, ma non è ancora molto chiaro il vero ruolo e funzionamento. Cosa è e cosa dovrebbe essere secondo lei un workshop? Quali aspetti positivi e quali aspetti negativi offre?
I workshop servono a consolidare, nella pratica ciò che viene illustrato e spiegato a lezione nella teoria; nei workshop si affrontano alcuni segmenti molto specifici relativi a un linguaggio, servono a completare la competenza su specifici programmi e a capire il loro uso non in astratto ma nella pratica effettiva. I workshop sono in genere intensivi, full immersion, e viene messo a disposizione dello studente materiale, strumenti e programmi con cui lavorare. Nel mio corso di laurea al DAMS di Imperia privilegiamo workshop con tecno artisti che utilizzano Eyesweb, Isadora o Arkaos; lo scorso anno ho invitato per un workshop i KONIC compagnia catalana che lavora su danza e interattività e il workshop riguardava Arduino e il programma da loro creato Tierra Y Vida. E’ difficile pensare di includere nel breve tempo del workshop i ragazzi in un vero e proprio processo creativo che porta a uno spettacolo, a un’opera video; talvolta però per workshop di lunga durata questo è possibile e diventa particolarmente interessante perché permette allo studente di inserire questa esperienza già nel curriculum professionale. Gli aspetti negativi non ci sono nel senso che dipende da come sono gestiti, l’importante è che siano chiari obiettivi, il metodo, le regole, il numero di ore, le attestazioni di frequenza, e non ci siano fraintendimenti.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, la funzione artistica nel panorama contemporaneo?
Lev Manovich, Derrick De Kerchove, Edmond Couchot e Thomás Maldonado hanno riconosciuto la nuova (o forse, originaria) funzione della tecnica e dei suoi prodotti: i nuovi media che diventano alla luce del nuovo millennio, una “forma culturale”, un’“interfaccia conoscitiva dell’uomo con il mondo”, una “esteriorizzazione di fenomeni interiori”, un “risultato del pensiero”, luogo insomma, di un cambiamento socio-culturale segnalato da un nuovo paesaggio tecnologico che non abdica dalla realtà ma la modella.
L’artista lavora coi media per dar loro un senso diverso dalla finalità tecnica per cui sono state progettati e la tecnica non può prescindere da una poetica. Studio Azzurro, Robert Lepage, Dumb Type, Giardini Pensili hanno sottolineato in modalità diverse, le potenzialità espressive e drammaturgiche dei dispositivi computerizzati: una macchina “emancipata” dalla sua funzione pratica e perfettamente integrata con l’intero apparato spettacolare che è capace di reinventare nuove forme e un nuovo vocabolario narrativo.
L’autoformazione è una pratica che nasce dall’esigenza di avere una struttura formativa che non sia istituzionalizzata, e estranea a determinati meccanismi centralizzati. Potrebbe anche essere considerata una reazione di sfiducia nei confronti delle istituzioni educative. Anche in ambito artistico esistono questo genere di realtà (il S.A.L.E. di Venezia, ad esempio). Lei cosa pensa di questa alternativa forma didattica? Quali aspetti positivi e/o negativi si porta?
All’Accademia di Brera esiste su impulso degli studenti stessi della Scuola di Nuove tecnologie dell’Arte, l’autoformazione che ha riscosso molto successo; non credo debba essere un”’alternativa radicale” per il sistema didattico, ma un ausilio, una proposta aggiuntiva che dà ragione delle richieste in alcuni casi non esaudite, dei ragazzi, in riferimento a determinati ambiti della pratica artistica e tecnologica. Gli aspetti positivi e negativi: dipende da chi e da come vengono organizzati, dal programma, dalla sede, dalle strumentazioni a disposizione. Girerei la domanda agli studenti stessi circa il livello di soddisfazione dell’autoformazione
Il settore teatrale classico italiano, è pronto ad accettare i nuovi paradigmi tecnologici nella strutturazione stessa della drammaturgia? E nelle istituzioni dedite alla didattica teatrale?
Le istituzioni deputate alla programmazione teatrale sono all’altezza del proprio ruolo e hanno consapevolezza dell’eccellenza nella ricerca o semplicemente si rendono conto che il teatro è cambiato, che sta intrecciandosi con forme espressive diverse, con i nuovi media, con la rete, con il cinema? In genere no, diffondono un teatro vecchio e polveroso, che non corrisponde alla vivacità dell’”aria che tira”, del fermento artistico che ci circonda. Ci sono ovviamente onorevolissime eccezioni, il Teatro della Tosse, il teatro di Pontedera e di Scandicci, il Mercadante di Napoli, alcuni Festival ma in genere il teatro che “passa il convento”, quello delle città di provincia è uniformato al cattivo gusto televisivo, non si rischia guardando alle esigenze dei giovani, alle sperimentazioni tecnologiche, alla drammaturgia contemporanea. Oggi il teatro di ricerca come è noto, tende a una sempre maggiore prossimità e interazione con il pubblico inglobandolo in un environment immersivo, sollecitando percezioni multisensoriali collettive e percorsi narrativi non lineari trasformando l’opera in un’esperienza sempre più relazionale, partecipativa e socializzante. La dimensione di uno spazio laboratorio (piuttosto che i tradizionali spazi scenici o espositivi) più che quello di un “teatro stabile” poi è la più consona a favorire l’assimilazione e la sperimentazione delle innovazioni tecnologiche.
A fronte di questi grandi cambiamenti dell’estetica teatrale legati ai media che stravolgono anche il concetto di “spazio scenico” e di “interprete”, i teatri continuano a non essere adeguati innanzitutto architettonicamente (i teatri all’italiana dell’Ottocento con la suddivisione in palchetti e la separazione netta tra palcoscenico e platea); poi in questo settore l’autoproduzione è la regola ma le tecnologie costano e non le ammortizzi con due date! Inutile dire che le programmazioni sono in mano alle Agenzie Eventi e portano Ceccherini, Loretta Goggi e Massimo Ranieri.
Io vengo da una città, La Spezia, che ha consegnato le chiavi della cultura a una società che ha stabilito che per la comunità va benissimo la clownerie da strada…. Chi glielo spiega che La Spezia non ha alcuna tradizione circense, che non ci sono aderenze territoriali al tema, che i giovani vorrebbero creare un ambiente creativo di altro genere in cui avere una parte attiva? Criticare è inutile, la gestione pubblica è un enclave monolitica, asservita al potere politico, e questo vale per moltissime città; non è più solo quindi, una questione di “orientamento culturale”, di “tradizione teatrale”, di “pregiudizio culturale” che ostacola il sorgere di nuove proposte, riguarda interessi in ballo, economie che girano in certi settori dello spettacolo e nulla in altri, riguarda la scarsa preparazione dei dirigenti preposti alla cultura che non hanno a cuore di formare una comunità e indirizzarla verso le sfide dell’innovazione tecnologica, verso le pratiche del teatro tecnologico ma guardano al numero di biglietti venduti e al gradimento dei commercianti del posto. Sono pessimista, il panorama è sconfortante, viviamo in una società senza speranza dove gli spazi della cultura e dunque anche quelli della ricerca teatrale diminuiscono a vista d’occhio e hanno sempre meno impatto, i tagli al teatro operati dal FUS vantano onorevolissimi cultori come Baricco, vedi il suo polemico intervento su Repubblica.
Per quanto riguarda la didattica personalmente ho introdotto l’insegnamento di Teatro multimediale che prima non esisteva come corso, a Pisa, Bologna e Imperia ai CdL in Cinema Musica e Teatro già dagli anni Novanta ed erano davvero tentativi pionieristici di “svecchiamento” dell’offerta formativa. Peraltro c’era sempre la discussione se inserire i miei corsi dentro il “curricula” di Teatro o quello di Cinema e Video. Io sono stata nominata “Cultore di Teatro” a Pisa ma la materia tecnologica non era ben vista dai “teatranti” e qua entra in campo tutta l’ostinazione e l’ottusità di certi accademici a difendere il proprio “territorio” da incursioni moderne nemiche. Non amano gli “sconfinamenti” e temono di “perdere terreno” e “clienti”! In seguito l’offerta didattica, aprendosi al multimediale nei vari Dams e nelle Accademie di Belle Arti, ha poi contemplato ampiamente anche corsi legati alla Digital Performance, all’allestimento scenico in ambiente digitale, alla regia multimediale che infatti dilagano un po’ ovunque con risultati non sempre eccellenti perché spesso vengono reclutati come docenti dottorandi con scarsissima preparazione e nessun curriculum scientifico ma che “costano” poco o niente alla Facoltà. L’eccellenza nell’Università in questi nuovi settori, se c’è è un caso.
Non conosco invece l’ambito delle Accademie di Arte drammatica, da Internet vedo che sono attivati Master di secondo livello in Teoria della regia multimediale, ma non posso sapere quanto incidano nell’economia generale della Scuola. Di certo oggi, data l’estensione del fenomeno, non si può evitare in un Dams o in un’Accademia, di parlare di drammaturgia multimediale, di attore tecnologico, di spazio scenico digitale.
Quali nuove figure professionali possono nascere nei corsi di studi dedicati al teatro “tecnologico”? Quali possibilità di lavoro si stanno aprendo? Sta avvenendo, secondo lei, una ibridazione tra il ruolo del “tecnico” e quello dell’”artista”?
Certamente una delle mansioni maggiormente richieste in questa evoluzione delle professioni del teatro è la progettazione in grafica 3D delle scenografie, la modellazione dello spazio teatrale, la simulazione di effetti di luci, di cambi di scena. La cosiddetta fase di pre-production è finalizzata sempre più ad una visualizzazione grafica computerizzata dei materiali previsti per l’allestimento, al posto di o prima di allestire ingombranti maquette o costosi prototipi in scala 1:1. Se Robert Wilson crea da sempre i suoi disegni preparatori come visual book o story board, sin dagli anni Novanta si sono utilizzati programmi informatici in grado di rappresentare digitalmente lo spazio (anche quello scenico) e modellarlo tridimensionalmente – con i software di CAD – e oggi di simulare, anche in ambiente virtuale interattivo e immersivo – come CAVE (Audio Visual Experience Automatic Virtual Environment) o MQUBE (mobile multi-user mixed reality environment) – tutti gli elementi della produzione, gestendo una grande quantità di media, dalle luci al suono alla scenografia ai movimenti della scena. Storyboard digitali, programmi per creare coreografie assistite al computer (come Life Forms usato da Merce Cunnigham), story reel, animatic, metodologie di rappresentazione digitale tridimensionale e sistemi in grado di riconoscere forme attraverso marker sensibili, entrano nel processo di produzione del teatro (non necessariamente quello tecnologico). Si tratta di strumenti in grado di pre-visualizzare tutti i passaggi e le trasformazioni della scrittura e di intervenire in tempo reale sulle variabili del modello visivo e animato, cosa che avvicina sempre più il teatro alle fasi di creazione dell’attuale cinema digitale. Per quanto riguarda invece il “live”, ovviamente le professioni maggiormente richieste riguardano figure con competenze legate a specifici programmi per la gestione dal vivo del sistema audio visuale, sistemi di motion capture. In altri casi si ricostruiscono virtualmente teatri dell’Antichità, si prova a creare un tour virtuale dei teatri in rete, animazioni delle scene a partire da disegni e progetti del passato (ricordo l’animazione di Mark Reaney degli screens di Craig!) e si creano data base con materiali d’archivio del teatro (bozzetti, locandine, fogli di sala come ha fatto in maniera eccellente il Piccolo teatro di Milano). Ma qua siamo già nel campo del web designer.
Quanto al rapporto tra tecnico e artista, mi piace ricordare la frase di Corsetti: “Amo la tecnologia se dialoga col corpo dell’attore”, per fare questo il tecnico deve avere una “sensibilità artistica” e il regista deve poter avere quel minimo di competenza da potersi immaginare soluzioni tecnologiche in grado di diventare attivatrici di azioni drammatiche.
Sulla figura del nuovo artista io e Balzola abbiamo dedicato un paragrafo nell’introduzione al volume Garzanti che mi piace riproporre perché mi sembra una sintesi efficace. Esiste un tecnoartista artigiano che, in continuità con gli esperimenti delle avanguardie storiche (alla Man Ray), cerca, assembla, modifica e manipola l’hardware e crea il software (o ne converte l’uso) in funzione delle sue esigenze e dei suoi progetti; la componente artigianale di questo lavoro e la priorità delle idee sui mezzi differenzia questa figura dall’artista ingegnere o informatico, che in genere ha una solida formazione tecnologica e la cui creatività si muove esclusivamente a partire da questo ambito. Diverso anche dall’artista tecnoscientifico (Piero Gilardi), cioè quell’artista che cerca d’integrare la sua ricerca con l’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica. Un’altra dimensione che agisce meno sulla macchina e più con la macchina, è quella legata alle esperienze performative. Se dalla definizione generale di artista performer, colui che interagisce davanti al pubblico con tecnologie elettroniche o digitali, interattive e non (macchine, schermi, personaggi e ambienti virtuali), scendiamo in un’analisi più puntuale, troviamo definizioni come cybernarratore (Giacomo Verde), dove il racconto orale e la presenza dell’attore sono integrati in una macchina performativa audiovisiva digitale, o artista proceduralista (Judson Rosebush), per il quale l’arte consiste nel concentrarsi sui procedimenti del fare e sulle relazioni che si creano attraverso il fare, oppure come space-maker (Randy Walser), dove l’azione fisica e i movimenti del performer (danzatore/attore) partecipano attivamente alla creazione di ambienti (climi, atmosfere) nell’universo del cyberspazio; o, ancora, l’artista di relazioni (Paolo Rosa), dove l’artista progetta delle opere-situazioni interattive che creano relazioni tra gli spettatori, in una sorta di set collettivo che si forma nell’”ambiente sensibile” dell’opera. Un altro approccio possibile è quello dell’artista che non crea direttamente le opere, ma che lavora alla progettazione e alla realizzazione di dispositivi e contesti per la produzione di eventi artistici, come il metadesigner (Gene Youngblood), o il connettivista (Roy Ascott), il quale sviluppa dei programmi e crea dei luoghi virtuali d’interconnessione (siti web, forum, installazioni collegate on line, webcam meeting e performance, etc.), in vista della produzione di avvenimenti in Rete (o che si irradiano dalla Rete).
Quale tipo di rapporto si instaura tra le tecnologie nel teatro, e tra il teatro nelle tecnologie?
Ti potrei rispondere che la tecnologia come è usata nella maggior parte dei casi prescinde assolutamente dal senso del lavoro testuale, coreografico, scenico. E’ una parte aggiunta assolutamente inutile, un riempitivo estetizzante. La tecnologia deve al contrario essere contenuta sin dall’inizio, sin dalla prima enunciazione, nella drammaturgia, nel lavoro dell’attore. Ricordo che feci questa stessa domanda a Klaus Obermaier e lui mi diede una risposta illuminante: la progettazione tecnologica deve svilupparsi in parallelo con il concept stesso e non materializzarsi durante l’ultima fase di realizzazione. Individuare la tecnologia preventivamente è fondamentale perché questa, come ogni altro elemento della composizione scenica, modifica l’assetto stesso della creazione. Il paragone proposto da Obermaier è particolarmente pregnante: come è determinante individuare sin dall’inizio il costume per un performer, perché questo cambia radicalmente il suo modo di prepararsi, di recitare e di stare in scena, così deve essere per le tecnologie!
Non esiste comunque una ricetta valida per tutti, Il teatro tecnologico non è un settore omogeneo, ma vive di una pluralità di esperienze e di approcci; si va da una soluzione basica, l’uso del video in scena, che appare ormai arcaica, fin troppo “facile”, diffusa e invadente, a varie forme di telepresenza, dall’animazione e grafica 3D real time e dei sistemi di motion capture ad ambienti virtuali immersivi e interattivi fruibile tramiti connessione web, alle performance con processing audio-video live, console wireless che interagiscono direttamente e visibilmente con il landscape sonoro e visivo della rappresentazione. In questa prospettiva digitale il palcoscenico è solo uno dei possibili teatri dell’azione performativa: la scena può infatti estendersi (spazialmente e temporalmente) in più ambienti interconnessi, dalle piattaforme multitasking dove diverse applicazioni possono operare contemporaneamente alle community web e ai diversi network telematici, in una strategia di territorializzazione multipla che non ha evidentemente, precedenti.
Magari vi rimando ai miei testi su teatro tecnologico per digimag e sull’ateatropedia che è un data base enorme sul teatro da cui io e Oliviero abbiamo estratto gli articoli su teatro e nuovi media. Anticipo che pubblicherò a breve un volume che conterrà anche le interviste a Critical Art ensemble, Dumb Type, Giardini Pensili, Big Art Group, SantaSangre e spero che la parola degli artisti serva a dare un ulteriore sguardo sulla contemporaneità tecnologica a teatro per comprenderla a pieno.
Materiali
In occasione della conferenza “New Media Art Education & Research: Always Already New. Thinking Media, Subversing Feeling, Scaffolding Knowledge: Art and Education in the Praxis of Transformation”, Milano, Mediateca di Santa Teresa, 16 – 18 dicembre 2010, organizzata dal M-Node del PhD Program del Planetary Collegium (Università di Plymouth) e dalla Scuola di Media Design & New Media Art della NABA in collaborazione con NoemaLab e con la Mediateca di Santa Teresa, di seguito alcuni materiali sulla new media art education.
La lista che segue è un work in progress ed è largamente incompleta. E’ possibile inviare quasisasi suggerimento a conferences -/at\- noemalab.org.
Share, Share Widely (2005)
A Conference on New Media Education
Art of Free Cooperation
Libro: The Art of Free Cooperation. A cura di Trebor Scholz e Geert Lovink. Autonomedia, 2007
Media Arts Scoping Studies (2009)
The media/electronic art scoping study is an overview of the current and pioneering educators, artists and scientists who have brought about the dissolution of boundaries that have traditionally existed between the artistic and technological disciplines.
Leonardo Education and Art Forum (LEF)
The Leonardo Education and Art Forum (LEF) promotes the advancement of artistic research and academic scholarship at the intersections of art, science, and technology
Leonardo Educators and Students Program
As part of its ongoing effort to promote the advancement of scholarship in the field of art/science/technology, Leonardo has developed a series of initiatives under the Leonardo Educators and Students Program
Noema e-learning.lab
The e.lab (e-learning.lab) was born in 2002 from NoemaLab’s activities as a teaching platform to collaborate. The e.lab is online for the courses which need a learning system to share material, confront on topics and improve their teaching activities. The service is free
Noema edu.list
The edu.list is a collaborative project, co-sponsored by Yasmin (the Arts Science Mediterranean Network), which gathers information about Academic Courses and Masters worldwide on arts/sciences/technologies
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