Eternal Sunshine of a Digital Mind
[Ricerca presentata per l’esame del Corso di Produzione Multimediale (prof. Pier Luigi Capucci),
Laurea Specialistica in Cinema, televisione e produzione multimediale
Università di Bologna, A.A. 2006/2007 – Programma del corso (pdf, 76 Kb)]
Introduzione
Il cinema e la videoarte di Michel Gondry hanno da sempre sfruttato tutte le potenzialità che il digitale e la tecnologia sono stati in grado di offrire. Ciò nonostante l’iter creativo del regista francese non si è mai liberato di una concezione più artigianale e manifatturiera del cinema in senso lato e del profilmico e della scenicità in senso stretto.
In tutto ciò “L’arte del sogno” (“La science des rêves”, 2006) costituisce sia una conferma, sia una eccezione, un apparente inversione di marcia rispetto alle consuetudini del digitale, dove questo residuo di artigianalità prende il sopravvento, ma anche un esempio di coesistenza pacifica e proficua dei due statuti, come nella migliore delle tradizioni di Gondry.
Tratteremo brevemente del digitale e/o del non digitale ne “L’arte del sogno”, passando per una obbligatoria riflessione sull’opportunità di riconsiderare le tradizionali teorie circa l’ontologia ed il realismo cinematografici alla luce dell’avvento dell’immagine sintetica, analizzando il ruolo di Gondry all’interno del discorso.
In tutto si tratterà del digitale non solo come supporto, ma come filosofia di rappresentazione, come creazione di immagini altre prive di referente specifico, come sostenitore di una virtualità autoreferenziale, rispondente alla sola elaborazione creativa di una idea o di una immagine puramente mentale.
Vedremo quindi come il problema del realismo cinematografico in Gondry trovi soluzioni alternative, linee di condotta trasversali, ibridazioni fertili e concettualità rispondenti ad una poetica del tutto personale.
A qualcuno piace caldo (ma anche freddo…)
Partiamo da un saggio di Giovanni Spagnoletti, Il digitale: una nuova rivoluzione del cinema?1, cercando di evidenziare subito il perché di questa scelta. Oltre ad una ampia considerazione circa la crescente abdicazione dell’analogico, con tutto ciò che ne consegue, il brano introduce anche una interessante riflessione relativa al modo di adoperare il nuovo statuto. Qui si distinguono, infatti, due modalità di sfruttamento del digitale, due categorie mutuate a loro volta da altre due già in uso, nella fattispecie, digitale povero e digitale ricco, che nell’ottica di Spagnoletti diventano spunto per la definizione di un digitale caldo ed uno freddo. Il primo, attendendoci sempre al saggio, si delinea come un garante della credibilità dell’immagine rappresentata, un paladino del realismo strictu senso, semplicemente identificabile nell’uso più stretto possibile del mezzo artificiale finalizzato all’ottenere una maggiore agilità di ripresa. Possiamo concordare nella scelta dell’autore d’identificarlo nell’esemplare lezione del collettivo Dogma 95. Scrivono Lars Von Trier e Thomas Vinterberg nel manifesto di cui sono firmatari: “Oggi imperversa una tempesta tecnologica il cui risultato è l’elevazione della cosmesi a Dio. E ancora: “(…) attraverso l’uso della nuova tecnologia chiunque in qualsiasi momento può lavare via gli ultimi granelli di verità nell’abbraccio mortale del sensazionalismo.”2
Al risvolto positivo dato da una maggior democratizzazione dell’arte scaturita dall’economicità del mezzo digitale, si accompagna quindi il pericolo incombente di una esondazione della narrazione dagli argini del mero realismo. Per contenere il dilagante eccesso rappresentativo, il barocchismo suscitato da quella che ritengono essere una euforia, o, come minimo un colpevole eccesso di zelo di cui i registi del digitale si macchiano, gli autori raccolti in Dogma in primis rifiutano proprio questa condizione di autorialità, in seconda istanza sottoscrivono un Voto di castità ideologico che li metta al riparo da ogni tentazione di sovrabbondanza e di superbia nei confronti del rappresentato. Ci si rende strumenti atti al mero “cogliere”, curandosi del fatto che nulla, neanche la location, sia contaminata da una manipolazione, così come la narrazione dovrà seguire il proprio corso logico- un po’ come accadeva in Dreyer-, senza che possa piegarsi alle logiche di opportunità produttive. Il discorso di Dogma attorno alla crisi del reale non è però affatto isolato ne’ meramente catastrofista, ma si rifà, a ragion veduta, ad un atteggiamento visibilmente disinvolto e diffuso riscontrabile nella dilagante digitalizzazione del cinema. A tal proposito Jean Baudrillard nel suo “Violenza del virtuale e realtà integrale”3 auspica proprio un ritorno alla dialettica spettatore/spettacolo, attraverso una riconquista di quelle dinamiche relazionali che la creazione digitale ha sottomesso. Ma anche un recupero di quel reale in senso letterale, scevro da connotazioni mitizzanti di sorta, per una rinnovata valenza simbolica e trascendentale della rappresentazione.
Per quanto concerne invece il digitale freddo, va da sé che ci si riferisca proprio a quella spettacolarizzazione tanto osteggiata dai danesi di Dogma 95, a quella fantasmagoria tipica del filone Fantasy e di chi, come Peter Jackson o Gorge Lucas cavalca spesso e volentieri l’onda lunga del green screen. L’eccesso di apparente realtà di cui sopra accennato ben si confà alle produzione blockbuster, ma è soprattutto Jackson, tra i due menzionati, a proporre un iperreale che rasenta l’”ultranaturalismo”, dove l’elemento ambientale è sovradimensionato, ma anche estremamente sintetizzato e particolareggiato al contempo. La sua immagine è totalizzante, si impone come baluardo di una “utopica democrazia della fruizione dell’immagine”4, talmente particolareggiata e perfetta – nel senso di compiuta, finita – da riuscire a non deformarsi nella trasformazione del formato o del supporto. Tutto ciò ne denuncia sia l’assoluta artificialità, sia la sottomissione dell’immagine stessa ad un regime autoriale specifico che sfocia in quella che Spagnoletti chiama la figura incombente e dominante del regista-produttore. L’auto-flagellazione di Dogma si traduce così in un opposto elogio del potenziale artificiale e delle capacità di dominio che questi può garantire a colui che ne sfrutta a pieno l’offerta e le infinite risorse.
Premesso doverosamente tutto ciò, possiamo notare come in Gondry si riscontri una sovrapposizione di questi due utilizzi del mezzo – anche se in entrambi i casi in modalità comunque attenuata – una ibridazione che tende a creare ancor di più uno stile composito ed altamente distintivo. Al di là della predilezione o meno per un dato supporto, è il ricorso continuo all’effetto speciale, anche non obbligatoriamente spettacolarizzante5, a testimoniare in primis la sua passione per il tecnologico. Una lunga lista di videoclip, da Come into my world di Kylie Minogue (2002) a No one knows dei Queens of the Stone Age (2002), dimostrano come le alternative e le possibilità offerte dalla digitalizzazione siano state da sempre sondate da un Gondry pacificamente sperimentatore, non necessariamente eclatante, ma aperto alle più varie potenzialità evolutive della rappresentazione. E’ caldo il suo digitale quando si innesta senza invadere il senso narrativo e senza rendere rarefatta ed immaginifica l’immagine – ne è un esempio il video di Protection dei Massive Attack (1995), dove è l’agilità della ripresa, come nel miglior auspicio di Dogma, a prevalere sul resto.
E’ freddo quando, come nel videoclip di Joga di Bjork (1997), estremizza l’elemento naturale con una immaginifica planata attorno ad una versione virtuale del Globo, su di una crosta terrestre che si frantuma e si ricompatta, che mostra i propri ghiacci perenni affiancati a profonde fenditure infiammate di lava, ed una Bjork versione avatar che racchiude tutto il creato nel proprio petto.
E’ un misto tra i due invece quando, principalmente nella pellicola in questione, non si può arrivare a definire la propensione per l’uno o l’altro uso, e quindi non si tratta di trasposizione filmica del reale in senso stretto, ma neanche di rarefazione sintetica o di una spiccata spinta iperrealista, e il tutto ciò non a momenti alterni, ma in modo commisto all’interno di ogni sequenza e di ogni immagine, come a voler mantenere costante il tenore estetico e poetico. Questo il caso, come vedremo, sia degli episodi in cui si fa uso dell’artificio, così come dei momenti filmici in cui il sintetico viene paventato e suggerito, ma che in realtà non sussiste perché ricreato manualmente.
Ma c’è un ulteriore risvolto. Il digitale freddo nella sua definizione generica, lo abbiamo detto, è puntuale e pedissequa ricostruzione, ma al contempo – e lo vediamo bene in tutta l’opera di Gondry – anche de-strutturazione. In Eternal sunshine of a spotless mind (2004) il mondo in cui si muovono Jim Carrey e Kate Winslet è per buona parte governato e creato dal digitale, ma è sempre grazie a questo e alle capacità di cui dispone che è capace di sgretolarsi tanto facilmente e letteralmente insieme ai ricordi di Joel. La sua corsa a ritroso nella propria mente per sfuggire alla cancellazione definitiva, mostra proprio i tasselli di realtà che si smantellano sotto i suoi piedi, evidenziando la natura fittizia ed illudente del contesto. E’ lui stesso, nell’estremo atto di questa lucida allucinazione, a svanire parzialmente. Il fatto che si tratti di un viaggio mentale salva l’apparenza realistica del mondo “vero” e della sua rappresentazione, instillando però il dubbio circa l’attendibilità effettiva di ciò che stiamo osservando. Ad un livello ancora superiore questo continuo riferimento alla facilità di apparire e scomparire si configura inoltre come metafora della perpetua contrapposizione tipica dell’era digitale tra materializzazione/smaterializzazione che si trasla nella classica dicotomia del rapporto ontologico referente/rappresentazione, relazione anch’essa soggetta in ambito postmoderno a medesima reificazione/dissoluzione. Ma di questo vedremo più diffusamente in seguito.
Ma è anche rispetto all’idea di autorialità che se ne trae che L’arte del sogno può essere d’aiuto nella definizione della poetica di Gondry.
Alla luce di quanto fino ad ora detto rispetto alle prammatiche di Dogma e del cinema blockbuster hollywoodiano, il suo procedere si pone ancora una volta trasversalmente. L’approccio artigianale anche rispetto al sintetico lo avvicina maggiormente a certe figure scrupolose del cinema pionieristico- i suoi manufatti di cartapesta finiscono per assomigliare a quelli della cinematografia attrazione di Melies- così come, al contempo, la rielaborazione di questi stessi prodotti artigianali secondo procedimenti digitalizzanti non ne fa’ certo un detrattore della tecnologia da intendersi come produttrice di effetti spettacolarizzanti. E’ “autore” nella ludica e manuale elaborazione di un analogico creativo, così com’è “produttore”6 nell’uso a tratti e saltuariamente magnificante della potenza digitale. Ma è anche semplice relatore al servizio della narrazione per immagini , pur senza giungere alla stessa severa disciplina di Dogma, in molte delle sue creazioni. Ma sempre, le tre cose, in modo commisto e mai settario.
E’ un personale manifesto non scritto, ma vastamente impiegato, quello di Gondry, manifesto che, come stiamo per vedere, sfrutta le antitesi come punti di forza e gli eccessi in modo tanto eclatante da renderli talvolta grotteschi – quindi non chiusi in una pomposa autocelebrazione – talvolta monumentali punti nodali per una rappresentazione poetica ancora più ampia.
Il dogma di Gondry
Con l’approdo al digitale e la conseguente virata iperrealista il rapporto tra rappresentato e rappresentante muta radicalmente. Principalmente si pone una distanza tangibile dal referente, distanza che si intuisce anche senza decodificarla e giustificarla con un effettivo distacco tra soggetto ed oggetto che lo rappresenta. Ciò che ne consegue è una apparenza “iper-ontologica” fatta di presunti indici -da intendersi nel senso che a loro attribuisce Peirce e la Semiotica in genere7 – estremamente lucidi e precisi. Ma per meglio comprendere quale tipo di nesso ci sia tra la definizione di una Ontologia cinematografica ed il digitale, risulta necessaria una breve digressione. Se guardiamo alla semplice definizione notiamo che l’Ontologia filosofica concerne l’essenza delle cose calcolata in base alla relazione che queste intraprendono rispetto all’elemento “mondo”. Anche nella definizione che della Ontologia si dà in informatica ci si riferisce al (…) tentativo di formulare uno schema concettuale esaustivo e rigoroso nell’ambito di un dato dominio. e ancora (…) si tratta generalmente di una struttura dati gerarchica che contiene tutte le entità rilevanti, le relazioni esistenti fra di esse, le regole, gli assiomi, ed i vincoli specifici del dominio.8
In entrambe le concezioni, nonostante si modifichino gli ambiti di studio, ciò che rimane come comun denominatore è la necessarietà di una relazione, di un vincolo che intercorra tra gli elementi in questione.
Tornando a noi, la potenza evocativa di questi segni suggerisce l’esistenza di una specifica relazione tra questi e l’oggetto a cui si riferiscono e/o di cui riferiscono Questo perché ad una maggiore nitidezza dell’immagine si è convenzionalmente portati a far corrispondere una maggiore capacità immersiva ed una riduzione del margine che divide il reale e la sua rappresentazione. Ciò che ne consegue è l’attitudine del digitale a suggerire la capacità di immedesimarsi, di coinvolgere, di mettere in atto quella dialettica tipica dell’arte che risiede nell’innato rituale dell’identificazione/disidentificazione9.
Questa è da sempre stata la vocazione del Cinematografo prima (basti pensare al più banale degli esempi come “L’arrivo del treno alla stazione della Ciotat” dei Lumière), e del cinema spettacolare-e-non poi (effetti speciali,digitalizzazione della pellicola, ma anche dvd , HD, e ancor di più i nuovi Blue-ray disc che promettono proprio una ancora maggiore definizione dell’immagine e quindi verosimiglianza). Ad un incremento dell’apparenza realistica corrisponde però una perdita dell’indicità specifica dell’elemento Cinema. A tal proposito scrive Lev Manovich: ”(…) una volta digitalizzata la realtà filmata si libera del legame indicale che costituiva la relazione privilegiata del cinema tradizionale”10. E ancora, Gianni Canova: ”Il computer è in grado di produrre immagini che non hanno più nulla a a che vedere con l’idea di mimesi, impressione, traccia, epifania. L’immagine non rimanda più ad un altro-da-sé a cui riferirsi”11 e continua (…) ”l’immagine virtuale non può uccidere alcun referente per il semplice motivo che nasce in assenza di esso, come in una sorta di partenogenesi del visibile”12. E concludendo questo giro di illustri opinioni riguardanti il realismo rappresentativo non possiamo che citare il primo che, con Roland Barthes , iniziò ad occuparsi dell’ontologia fotografica e cinematografica in senso specifico. André Bazin definiva il cinema in base ad un’altra considerazione attribuita primariamente alla fotografia: “L’originalità della fotografia in rapporto alla pittura sta nella sua oggettività essenziale”, per poi proseguire: “(…) per la prima volta un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creativo dell’uomo, secondo un determinismo rigoroso”13. Una garanzia di esistenza in un dato luogo ed in un dato tempo del soggetto in questione, in poche parole nient’altro che la definizione dell’E’ stato di Barthes.
Con la digitalizzazione, ma soprattutto con la creazione artificiale, questo assioma bazeniano decade, perché svaniscono i principi da lui postulati di referenzialità, emanazione, sospensione.
L’operazione compiuta da Gondry, in base a quanto fino ad ora detto, assume i contorni di un recupero parziale della corrispondenza tra oggetto e soggetto della rappresentazione. Per cercare di ristabilire il valore indicale perciano ricostruisce paradossalmente il mondo che più si distacca dall’ambito del reale -quello del sogno- secondo un procedere quanto più artigianale ed analogico, in modo però da farlo percepire come un effetto speciale e digitale. In un gioco di specchi ciò che sembra artefatto è manufatto, mentre ciò che è realmente digitale viene esibito in quanto tale e non dissimulato nel tentativo di ricreare un effetto scenico spettacolare ed illusorio. Gli elementi si dilatano, si estremizzano, si spacciano per enormi inganni quando in realtà, o meglio nella realtà del profilmico, esistono veramente. Ma quella de “L’arte del sogno” è solo la summa di molte considerazioni antecedenti.
I diktat onirici come i letti volanti tra le nuvole, o le rappresentazioni eccessive –una su tutte le mani giganti che vanno a rivendicare i soprusi subiti nella vita reale – sono espressioni consuete nella poetica di Gondry. Telefoni mastodontici e uomini piccoli piccoli – così come le stesse mani che si deformano e si ingigantiscono in esplosioni di rabbia latente- popolano ad esempio già il videoclip di Everlong dei Foo Fighters (1997), in cui, proprio come ne “L’arte del sogno”, il posticcio degli artifici di origine manuale assume quella connotazione naif e grottesca specifica della fantasmagoria immaginifica del sogno.
Ma al di là di queste considerazioni è da notare come la scelta di questa tipica dimensione dell’irreale non sia forse così casuale. E’ propria del sogno stesso, così come nota lo stesso Peirce, la tendenza all’espressione metonimica, la capacità di testimoniare il tutto tramite una parte di questo stesso “tutto”, esprimendo in modo sibillino, e spesso per mezzo di figure dell’eccesso, bisogni altri. Da qui la particolare congenialità dell’ambito onirico e di quelle mani, quelle di Stephan come quelle di Gondry, nell’ attestare una necessità estrema di produrre fisicamente e praticamente le proprie creazioni senza essere asserviti ad alcuna schiavitù innaturale. Si tratti di un lavoro castrante e routinario per l’uno, o l’imbrigliatura ad una monotonia espressiva per l’altro. L’effetto speciale è quindi potenzialità eludibile, volendo opportunità, ma non obbligo, così come non può essere dovere –e da qui la ribellione- impiegare la propria abilità grafica nella redazione di tristi calendari aziendali.
Non è casuale, quindi, neanche che l’unica concessione all’artificio sia costituita dal ricorso alla tecnica dello stop-motion, che tra i possibili effetti risulta da una parte il più affine ad una concezione manuale, dall’altra, perché esibito e non dissimulato, non controverso e quindi pacificamente accettato. Ciò che conta non è quindi come si mostri qualcosa, ma l’esistenza di quel qualcosa in una dimensione reale,ovvero, detto diversamente, che sussista relazione diretta tra soggetto e sua rappresentazione. A quella immagine mossa artificiosamente e digitalmente, corrisponde comunque un referente esistente, e questo è ciò che sembra essere fondamentale.
Se la trasformazione dell’immagine in codice numerico, e quindi la sua digitalizzazione, tende a rendere più labile questo nesso, è la creazione ex-novo di qualcosa che effettivamente non esiste a spezzarlo del tutto. Quando questa artificiosità si insinua poi in ambiti pseudo veristi o realistici, o piuttosto va ad impegnarsi nella costruzione dei residui aspetti naturalistici in contesti già di per se’ fantastici14, si avverte una sorta di violazione ingannevole della convenzione ontologica, di quel minimo indispensabile realismo filmico contenuto implicitamente nel patto funzionale stipulato tra spettatore e regista15. Quest’ultimo tende così a guadagnare autorità assoluta sull’opera, che a sua volta diventa esibizione virtuosa delle capacità registiche e tecnologiche, in quella tendenza al digitale freddo di cui abbiamo visto in precedenza.
Il Voto di castità del collettivo Dogma implicava un assoggettamento estremo alla supremazia della narrazione, con conseguente sottomissione dell’individualità all’obiettivo, da intendersi sia nel senso “d’occhio della camera”, sia nel senso di “scopo”, sia nel senso di “oggettivo”. La macchina digitale doveva quindi essere ugualmente piegata alle necessità espressive, rinunciando al proprio potenziale “altro”. Uno sfruttamento di carattere meramente pratico e funzionale, scevro da qualsiasi artificio. Il digitale si comporta in quest’ottica come un analogico, ma “più maneggevole”.
Ne “L’arte del sogno” assistiamo invece ad un esperimento diametralmente opposto. L’ingombro metaforico del digitale viene esibito in tutta la sua evidenza, mentre il manufatto e l’analogico fanno sfoggio della propria scanzonata leggerezza attraverso le figure immaginifiche del sogno. Una sorta di realismo onirico, un passaggio dall’ontologia del reale all’ontologia del sogno, secondo quella che sembra essere quasi una contraddizione in termini.
Vediamo quindi in cosa consiste questo sovvertimento paradossale.
Don’t Stop the (E)Motion
Abbiamo più volte fin qui accennato alla concessione che “L’arte del sogno” fa all’artificiale facendo largo uso dello stop-motion. Una deroga, questa, plausibile e giustificata se si tiene conto dell’approccio del Gondry dei videoclip alle tecniche di ripresa e montaggio. Come già visto nel suo percorso creativo, e nella pellicola in questione soprattutto, non sembra poter esistere una presa di posizione intransigente sull’onda di un rigore alla Von Trier, ma una inconsapevole provocazione scaturita da un bisogno d’espressione ludica ed immaginifica compensato attraverso soluzioni altre rispetto a quelle convenzionali. Non si riscontra, nell’intera sua produzione, momento in cui si inneggi ad una fantomatica purezza dell’immagine, così come alla m.d.p come ad una camera-stylo che debba necessariamente riferire il mondo in quanto tale. L’atteggiamento è più ingenuamente funzionale che rigorosamente militante, ed ogni epurazione dell’effetto digitale o del sintetico in genere deve essere letta come una scelta utilitaristica relativa alla singola pellicola più che una sfida al tecnologico o un ravvedimento tardivo che lo riporti verso una riscoperta dell’analogico. Rispetto alla tecnica dello stop-motion in particolare, la predilezione dimostrata non si ferma all’uso banalizzato e convenzionale, ma va a convogliare, ancora una volta, nell’ambito della sperimentazione.
I videoclip di The hardest button to button (2003) e Fell in love with a girl (2002) girati entrambi per il duo di Detroit dei White Stripes, sono due sintomatici esempi di quanto appena affermato. Il primo crea una spazializzazione della linea ritmica del brano trasferendo a tempo gli esistenti nello spazio secondo linee che sottolineano la musicalità e creando, al contempo, giochi grafici di moltiplicazioni infinite degli elementi. Il secondo contiene già in sé una componente utile a comprendere le scelte poetico/estetiche de “L’arte del sogno”. Si combinano, come nell’esempio in esame, l’elemento ludico e manuale, rappresentato dalle costruzioni di plastica tipo LEGO, al movimento di cui queste possono godere grazie all’intervento dello stop-motion, e quindi della tecnologia. La corsa delle figure di mattoncini, ad esempio, contiene una fluidità che contrasta con la natura statica della costruzione, evidenziando un movimento che solo un evidente intervento “speciale” può far ottenere. La dinamica è del digitale, ma la componente materica, per quanto facilmente ricostruibile sinteticamente, assume una valenza più concreta e viscerale se presente realmente. L’immagine è digitalizzata, ma comprende un sottotesto analogico e concreto evidenziato, ancor di più, dall’intro del video, in cui un bambino monta i mattoncini che vanno a trasformarsi in un countdown figurato. Elogio del prodotto manuale che è a capo di tutto ed è prima di tutto, nonché apologia della figura dell’autore demiurgo che con il proprio giocoso e scanzonato ingegno sovrintende alla creazione analogicae/o digitale dell’opera. Ecco come anche in questa concessione al sintetico non ci si attenga ad una virtualità totale, ma si cerchi solo di simularla per spingere oltre la capacità dell’analogico, associandolo all’idea del manufatto, dell’artigianalità.
Se “Eternal sunshine…” aderisce, se pur nella sua singolarità, ad una estetica più statunitense, l’idea di un europeismo un po’ decadente permea “L’arte del sogno” arrivando a caratterizzarlo profondamente. Tutto ciò si inserisce nella scelta di rappresentare in modo altrettanto “vecchio stile” anche i momenti più significativi.
Quelli che vediamo scorrere sullo schermo sotto forma di stop-motion sono comunque fotogrammi che manipolati si concatenano differentemente da quanto non farebbero se lasciati procedere secondo il proprio ritmo naturale. Quindi esasperazione o per meglio dire, manipolazione artificiale, di situazioni che contemplano dei referenti effettivi. Riprendono oggetti reali, manufatti che facilmente sarebbero potuti essere creati con un banale esercizio di computer grafica, ma che qui, giocando sul filo del vero effettivo e della sola verosimiglianza, diventano simboli.i
L’approccio mantiene un legame affettivo ed emozionale con l’oggetto reale, ripristinando idealmente il vincolo referenziale. Una scelta, come già detto, che sembra spingersi verso un risanamento della peculiarità intrinseca della fotografia e del cinema analogico, ma anche verso una fusione pacifica delle due istanze, quella classica e quella digitale, chiamate a convivere e supportarsi vicendevolmente.
Bibliografia
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Note
- In Bruno Torri (a cura di), Nuovo cinema, 1965/2005, scritti in onore di Lino Miccichè, Venezia, Marsilio, 2005, pag. 132. [↩]
- In Filmcronache, n.3, 2005, pag. 41. [↩]
- op. cit. [↩]
- cfr. nota 1, op.cit., pag. 138. [↩]
- Almeno non nella misura in cui i sovracitati Lucas e Jackson lo sono. [↩]
- Nell’accezione di Spagnoletti a cui ci riferivamo in precedenza. [↩]
- Si guardi al triangolo semiotico elaborato da Peirce, composto dai tre vertici A Veicolo segnico B Referente C Senso, che a loro volta, interagendo, definiscono il SEGNO così come lo si intende in campo semiologico. Il rapporto tra referente e rappresentazione non è quindi diretto, ma mediato dal confronto che si instaura tra i tre elementi. Ma ciò non basta. Non esistono infatti solo i semplici segni,ma anche altri due elementi significanti che da questo differiscono in base proprio a questa relazione con il referente, indici e simboli.
La discriminante per la distinzione tra indci, segni e simboli per Pierce è quindi basata sul rapporto che intercorre tra soggetto e sua rappresentazione. La contiguità tra referente e veicolo segnico rende il segno un indice, ma l’indicalità esige un rapporto diretto senza intermediazione e quindi decade quando questo risulta nullo. In questa prospettiva possiamo dire che là dove esista un rapporto effettivo tra pellicola (o nastro magnetico) e soggetto rappresentato esiste indice, ovvero espressione indicativa del soggetto stesso che è sua rappresentazione sintetica (da intendersi “di sintesi”, non nell’accezione di “artificiale” del termine), non esaustiva, ma significativa. Così come l’ologramma della Teoria olografica dell’universo di Bohm è il messaggio globale che sta a significare in ogni piccola sua parte l’intero -ed in tal modo lo rappresenta- così l’indice si presta ad esprimere ciò a cui si attiene essendone solo un parziale che ne significa il tutto.
Là dove, invece, l’elemento rappresentato è frutto di una pura astrazione digitale questo rapporto peculiare tra referente e significante, tipico del cinema così come della fotografia, si annulla, rendendo le immagini non più indici, ma semplici segni senza rapporto referenziale diretto, se non addirittura simboli di referenti inesistenti, meramente convenzionali.
Ne “L’arte del sogno” anche Gondry si avvale di simboli, ma solo nella misura in cui utilizza quei segni la cui relazione referente/rappresentazione è pre-definita in modo stereotipato. Tutto ciò avviene, ad esempio, quando attinge al patrimonio rappresentativo proprio dell’universo onirico. [↩] - Wikipedia, l’enciclopedia libera, http://it.wikipedia.org/wiki/Ontologia, (homepage) www.wikipedia.it [↩]
- Ma se, come afferma M. Klein in Sull’identificazione, in AA.VV., Nuove vie della psicoanalisi, il Saggiatore, pag. 401, il principio di introiezione e proiezione non equivale al semplice rapportarsi con ciò che ci circonda, ma ad assimilarlo o espellerlo sempre però considerandolo come parte del reale fenomenico, o comunque dell’esistente, ne consegue che anche ciò che vediamo rappresentato su di uno schermo viene recepito in quanto indubbiamente reale, non controverso. Quindi ciò che è totalmente artefatto, e che si astenga dal dichiararsi tale, viola il patto di non contestabilità della realtà scenica, ma soprattutto rende sofisticato anche questo processo di identificazione. [↩]
- in http://www.trax.it/lev_manovich.htm [↩]
- Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello, op. cit., pag.28. [↩]
- ibidem, pag.29. [↩]
- Ontologia dell’immagine fotografica, In Che cos’è il cinema, op. cit., pag. 9. [↩]
- Basti pensare all’utilizzo della computer grafica per ricreare ambienti, scelta che spesso va ad inserirsi in un discorso puramente economico relativo alla convenienza della ripresa su blue o green screen rispetto all’impiego di un set ricostruito in studio o di una location reale. Se l’effetto speciale palesato in quanto tale è tollerato ed in certi contesti auspicato al fine di incrementare la spettacolarizzazione, il suo utilizzo “occulto” o comunque meno evidente è meno giustificato. L’idea di essere coinvolti in una realistica virtualità dove non specificato rende più fragile il controllo che la distinzione tra realtà e finzione. [↩]
- Sebbene ci si aspetti nella maggior parte dei casi che esplosioni, rappresentazioni di calamità naturali, avventi d’alieni o creature fantastiche siano facilmente irreali, quindi non prodotti manualmente, da contesti di contorno come un bosco, una collina, un interno, ci si attende veridicità. [↩]
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