Datamatics: l’estetica dei dati
[Ricerca presentata per l’esame del Corso di Produzione Multimediale (prof. Pier Luigi Capucci),
Laurea Specialistica in Cinema, televisione e produzione multimediale
Università di Bologna, A.A. 2006/2007 – Programma del corso (pdf, 76 Kb)]
Datamatics / Database Aesthetics
Datamatics è il secondo capitolo di Dataseries, progetto di arte digitale che esplora il potenziale percettivo dell’invisibile e multiforme sostanza dei dati che permeano il nostro universo.
Commissionato da AV Festival, ZeroOne San Jose ISEA 2006 e supportato dall’Art Council England, dal Yamaguchi Center for Arts and Media (YCAM) e dal Recombinat Media Lab1, l’opera di Ryoji Ikeda si presenta come un concerto audio-visuale con una particolare attenzione rivolta alla percezione del suono, per il quale è stato elaborato uno speciale sistema di sound-surrounding.
Il suono di Ikeda è tecnicamente impeccabile, saldamente ancorato ai canoni espressivi dell’elettronica minimalista contemporanea che da anni l’artista giapponese rappresenta ai più alti livelli. In Datamatics variazioni di frequenza accompagnano le rivoluzioni spaziali degli ambienti virtuali e si fanno suono biologico di processori, hard-drive e circuiti integrati. Le sequenze si aprono su spazi neutri a tinte piatte nero/bianco accompagnate da un leggero sibilo di superficie. Ma quando il flusso di informazioni si fa più intenso anche le frequenze ne seguono l’andamento e si intersecano, si sovrappongono, restituendo in termini auditivi la complessità degli spazi rappresentati. Cluster e elementari particelle informatiche producono minuti ronzii o roboanti pulsazioni ritmiche e le immagini acquistano essenza materica. Lo scopo di Ikeda non è quello di sonorizzare un ambiente, ma dar voce alle sequenze di bit e restituire il rumore dei file.
Combinando astratte e mimetiche rappresentazioni della sostanza, del tempo e dello spazio in un lavoro dall’impressionante potenza ricettiva, Ikeda cerca di rendere visibile l’irrapresentabile, ciò che resta sottinteso all’occhio umano: l’utilizzo di soli dati come sorgente sonora e visiva.
Con questa operazione si pone agli antipodi della videoarte postmoderna, collocandosi in uno spazio protetto, dove l’essenzialità del concetto domina sull’immagine senza prevalicarla, e proprio nell’espressione visiva la riflessione sulle categorie di Tempo e Spazio germina di senso, configurandosi come una mappatura universale che attraversa distanze sia fisiche che mentali.
Ikeda progetta visual dinamici generati al computer, con forti contrasti di bianco e nero, dove intensi e essenziali rendering grafici di trasformazioni di dati attraversano dimensioni multiple. Da sequenze di pattern bidimensionali derivate da errori di hard disk e studi di codice di programmazione software, le immagini si trasformano in drammatiche e rotanti viste di universi tridimensionali, dove i processi matematici sembrano aprire ad una quarta dimensione all’interno della rappresentazione stessa.
Ciò che Ikeda riesce a rendere concreto è quella che viene definita Database Aesthetics, l’estetica e la rappresentabilità del dato, concetto che è stato ed è oggi al centro di dibattiti, sia tecnici che filosofici; nell’arte digitale il termine è usato frequentemente per descrivere i principi estetici imposti dalla logica del database applicati ad ogni tipo di informazione, in altre parole, la rappresentazione visiva di flussi di dati. I modelli di dati contengono sempre un livello di concetti ed algoritmi matematici, non esiste arte digitale o new media che ne sia sprovvisto, anche se la sua rappresentazione fisica e manifestazione visiva si discosta da questo livello nascosto: ogni immagine digitale è prodotta e generata tramite istruzioni matematiche. Lev Manovich parlando di transcodifica afferma che l’immagine vista al computer, per quanto riguarda la sua rappresentazione visiva, appartiene alla cultura umana, ma se analizziamo l’altro aspetto che la compone ci troviamo dinanzi ad un file costituito da sequenze di codici e numeri che rappresentano il valore cromatico dei singoli pixel.
Possiamo perciò suddividere i nuovi media, in particolare l’immagine processata al computer in due livelli:
– il livello culturale che ha come referente l’uomo
– il livello informatico proprio della macchina, al quale appartengono elementi quali la funzione e la variabile, la struttura dei dati, il processo ed il pacchetto2.
Derrick de Kerckhove nel suo seminale saggio Brainframes: mente, tecnologie, mercato, sostiene che le tecnologie di elaborazione delle informazioni posseggano la capacità di incorniciare il cervello umano in una struttura cognitiva ottimale per interpretare il contenuto delle informazioni veicolate che sono in grado di determinare l’organizzazione del pensiero. Partendo dalla teoria generale della struttura linguistica di Noam Chomsky, capostipite della grammatica generativa, de Kerckhove localizza tale meccanismo, che definisce Brainframe, a livello di struttura profonda, un livello sottostante alla coscienza superficiale che appoggiandosi alle competenze innate dell’essere umano permette la classificazione dei dati recepiti. In base a questa analisi classifica i «mezzi di comunicazione […] come tecnologie che investendo il linguaggio e il modo in cui vengono utilizzate, influenzano le nostre strategie di elaborazione delle informazioni»3. Essenziale è il modo in cui i brainframe (nel nostro caso quello video) operano per mezzo di un elemento di entrata ed uno di uscita: in entrata troviamo il processo, o programma interno del medium, mentre in uscita la cornice, che può essere il monitor o lo schermo su cui viene proiettato il video, che assume il compito di inquadrare i contenuti di ciò che mostra ed il modo in cui l’utente fruisce dell’opera.
A questo proposito, in riferimento alla pratica della videoarte, Rosalinda Krauss affermava in un famoso articolo del 1978 che il video non è un mezzo espressivo fisico, ma psicologico: «Il medium reale del video è una situazione psicologica in cui termini effettivi consistono nel distrarre l’attenzione da un oggetto esterno – che è Altro – e nell’investirla nel Sé»4.
Manovich osserva come da questa prospettiva si può notare che l’immaginazione vincolata ad un database ha accompagnato la computer art fin dai suoi albori. A dar forza a questa corrente di pensiero si aggiunge Sol LeWitt con un’affermazione che prende posizioni nette: “la macchina crea l’opera”, all’artista può essere sostituito un computer nella realizzazione dell’idea5.
Nell’epoca del sovraccarico dell’informazione, l’obiettivo primario in molte aree della conoscenza diviene l’organizzazione ed il recupero dei dati. Per Victoria Vesna dobbiamo iniziare a comprendere la relazione tra la consapevolezza e la nostra organizzazione dei dati, e ancora una volta, dobbiamo riconsiderare come quest’ultima rifletta i nostri cambiamenti nella percezione e nel rapporto tra l’informazione e la conoscenza6. Gli artisti hanno a lungo riconosciuto il potere concettuale ed estetico dei database e gran parte del loro lavoro è nato dall’uso di archivi come scelta deliberata da scopi artistici; adesso la riflessione si sposta dal potere del mezzo espressivo alla percezione che di questo ha il fruitore. Per alcuni aspetti si possono trovare punti di convergenza con le teorie spettatoriali cinematografiche dove lo spettatore è visto come attuatore ultimo dell’istanza narrativa; nel lavoro di Ikeda come nella visione del film, l’opera si fa tale solo nella comprensione, nel rapporto tra uomo e testo e nella lettura che di questo ha il fruitore, la creazione di un nuovo spazio biologico, aperto all’ interpretazione.
Il mezzo digitale non è per sua natura visivo, consiste di back end, stringhe di dati che restano nascoste, e front end7, le interfacce attraverso le quali l’utente interagisce e che configurano in tempo reale l’organizzazione dei flussi di dati; la tensione generata da queste due componenti è forse la chiave di lettura di Datamatics, che risolve il conflitto di questi due elementi nella creazione di un nuovo spazio percettivo dove il sistema generativo diviene la rappresentazione stessa. Alla base di questa tipologia estetica c’è l’analisi e la riflessione del database come testo, o meglio ancora come testo meta-narrativo e forma culturale. Oltre alla visualizzazione dei sistemi di dati, ciò che spesso non viene esplicitata è la moltitudine di progetti che hanno tracciato il sottotesto culturale, Manovich vede nel database una forma di rappresentazione che si materializza come un elenco di voci non ordinate, per questa ragione teoricamente database e narrazione dovrebbero essere nemici naturali8. In realtà nei nuovi media il database supporta una serie di forme culturali che permettono di sostenere la narrazione, ma non ne incentivano la produzione: i nuovi oggetti mediali sono a livello di organizzazione database a tutti gli effetti e si presentano come narrazioni lineari o interattive9. Manovich basandosi sulla teoria semiologica del sintagma e paradigma (Saussure, Barthes) spiega la contrapposizione ed il legame che esiste tra database e narrazione. In riferimento a tale teoria gli elementi di un sistema, sia esso linguistico o di altra natura, si correlano su due dimensioni: dimensione sintagmatica e dimensione paradigmatica.
Citando Barthes: «Il sintagma è una combinazione di segni che ha come supporto lo spazio»10.
Gli elementi sintagmatici si collocano in praesentia, esistono materialmente e sono riscontrabili nell’universo sensibile, in maniera opposta la dimensione paradigmatica si compone di elementi in absentia. De Saussure: «Le unità che hanno qualcosa in comune vengono associate sul piano teorico e formano così dei gruppi, al cui interno si possono trovare diverse relazioni»11.
Perciò se il sintagma è esplicito e reale il paradigma è implicito ed invisibile. Il database è così costituito da una doppia tipologia di narrazione: una implicita e paradigmatica, ed una narrazione sintagmatica, con cui interagiamo e che si manifesta materialmente nel mondo.
La natura del sistema di archiviazione di dati sembra caratterizzata da una dicotomia costante: algoritmo/rappresentazione visiva, narrazione implicita/narrazione esplicita, reale/virtuale; su quest’ultima ambivalenza si possono attingere contributi importanti dalla filosofia, soprattutto dalle teorie contemporanee derivate dal dibattito di fine anni sessanta.
Baudrillard nella sua riflessione sul progresso afferma in maniera piuttosto chiara: «Il reale è prodotto da unità miniaturizzate, da matrici, banchi di memoria e modelli di comando».
Per Delanda, come per Deleuze il virtuale è reale (o più reale del reale). Sul concetto di virtuale è interessante vedere come il luogo comune che lo vede contrapposto al tangibile e soprattutto generato dalla macchina, è facilmente confutabile se ci rifacciamo alla storia e all’evoluzione delle scoperte matematiche: il virtuale fu scoperto usando queste risorse anziché venir creato da esse12. Ciò significa che il virtuale è qualcosa che il mezzo ci permette di comprendere ed esplorare, non una sua caratteristica intrinseca. Ikeda con il suo lavoro cerca di superare l’immaterialità informatica per restituire una rappresentazione che attribuisca al dispositivo il compito di mostrare gli elementi che compongono la virtualità, allo scopo di conferire un aspetto corporeo a sequenze binarie. L’ingresso del mondo reale in quello virtuale è reso possibile dal superamento dei vincoli corporei attraverso l’estensione delle facoltà psichiche e cognitive, e si realizza nel mezzo di contatto tra i due ambienti (in questo caso il video). Marshall McLuhan sottolineava alla fine degli anni ’50 come i media stessi potessero paragonarsi ad estensioni percettive dell’uomo che modificano le capacità di comprendere condizioni spaziali estranee al quotidiano strutturando nuovi codici di elaborazione dei dati in entrata.
Quasi cento anni fa il regista e pedagogo russo V. E. Mejerchol’d affermava “Il corpo è la macchina, l’attore il meccanico”, a distanza di un secolo la riflessione sul corpo e la macchina ha portato forse a capovolgere questo paradigma: la macchina è il corpo e l’uomo (attore sociale) diviene meccanico di un dispositivo che non è altro che una estensione delle sue possibilità di pensiero?
Ryoji Ikeda
Considerato uno degli artisti giapponesi più influenti ed importanti della scena contemporanea, focalizza i suoi lavori sulle caratteristiche essenziali del suono e della frequenza. Dal 1994 inizia a comporre per il gruppo multimediale Dumb Type e dal 1995 incrementa la sua attività di sound artist realizzando numerose istallazioni e progetti su commissione. Gli album +/- (1996), 0’C (1998), Matrix (2001) sono stati riconosciuti dalla critica assieme ai lavori audiovisivi Formula (2000-2006), C41 (2004) e Datamatics (2006) come gli esempi più radicali nel campo della musica elettronica odierna, rimanendo agganciato alla tradizione artistica minimalista. Le sue costruzioni sonore minuscole e dinamiche, che riflettono un elevato e tagliente senso di bellezza hanno fatto di Ikeda una delle figure cardine della scena elettronica post-techno e del white noise.
Negli ultimi anni ha prodotto numerose installazioni sonore e concerti multimediali al Centre Pompidou di Parigi, all’ICC di Tokyo, al Millenium Dome, a La Villette, all’Australian Centre for the Moving Image; ha preso parte a manifestazioni istituzionali come il Sonic Boom curato da David Toop alla Hayward Gallery di Londra, al Sonar Festival di Barcelona, alla Biennale di Göteborg, al Tokyo International Forum.
A dimostrazione dell’ampio raggio della sua ricerca le sue collaborazioni spaziano dalla musica, alla fotografiae alla danza, creando sodalizi con i nomi più importanti del panorama mondiale: William Forsythe, Iroshi Sugimoto, Ryuchi Sakamoto, Toyo Ito. Meriterebbe un discorso a parte la collaborazione con Carsten Nicolai e la Raster Noton (etichetta culto del minimalismo elettronico) che ha generato il bellissimo progetto Cyclo.
Nel 2001 ha vinto l’Ars Electronica Golden Nica, per la categoria musica digitale.
Datamatics credits
Ideato, composto e diretto da: Ryoji Ikeda
Programmazione e computer graphics: Shoei Matsukawa, Daisuke Tsunoda, Tomonaga Tokuyama
Direzione tecnica: Kamal Ackarie
Commissionato da: AV Festival, ZeroOne San Jose ISEA 2006
Supportato da: Art Council England, Yamaguchi Center for Arts and Media (YCAM), Recombinat Media Lab
Prodotto da: Forma
Bibliografia
Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2002.
Derricke de Kerckhove, Brainframes: mente, tecnologie, mercato, Bologna, Baskerville, 1993.
Rosalinda Krauss, “Video: The Aesthetics of Narcissism”, 1978; in Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2002.
Victoria Vesna, Database Aesthetics: Of Containers, Chronofiles, Time Capsules, Xanadu, Alexandria and the World Brain.
Christiane Paul, The Database as System and Cultural Form: Anatomies of Cultural Narratives
Nota alla bibliografia
Purtroppo su Database Aesthetics trovare una bibliografia in lingua italiana è pressoché impossibile. In rete si possono consultare numerosi contributi di studiosi, quasi tutti statunitensi, ne deriva che ancora una volta ci dobbiamo riferire a testi pubblicati dal MIT o da altre istituzioni americane. Molta documentazione è reperibile gratuitamente su siti di divulgazione come rhizome.org.
Per quanto riguarda Datamatics non esiste una bibliografia di riferimento tranne i crediti sull’opera consultabili su:
Note
- www.ryojiikeda.com [↩]
- Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2002, p.68. [↩]
- Derrick de Kerckhove, Brainframes: mente, tecnologie, mercato, Bologna, Baskerville, 1993, p.24. [↩]
- Rosalinda Krauss, “Video: The Aesthetics of Narcissism”, 1978; in Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2002, p. 291 [↩]
- Ivi, p.292. [↩]
- Victoria Vesna, Database Aesthetics: Of Containers, Chronofiles, Time Capsules, Xanadu, Alexandria and the World Brain, p.2. [↩]
- Christiane Paul, The Database as System and Cultural Form: Anatomies of Cultural Narratives, p.4. [↩]
- Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2002, p.281. [↩]
- vi, p.284. [↩]
- Ivi, p.286. [↩]
- Ivi, p.287. [↩]
- Brett Stalbaum, Database Logic(s) and Landscape Art. [↩]
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