Alternative animate: la tecnica dello stop-motion e la rivincita della materia
Introduzione
L’immagine digitale ha fatto il suo ingresso nella quotidianità delle persone attraverso il cinema e la fotografia. A essa si è subito associato lo statuto della distanza, perché viene meno il rapporto diretto e indicale tra realtà e sua rappresentazione, sostituito da un insieme di numeri. A questo corrisponderebbe uno spostamento del senso dal significato al significante, intorno a cui si sta costituendo una nuova estetica, che pone l’accento sull’esperienza della simulazione e sulle conseguenze che ciò comporta nella condizione spettatoriale.
Nel libro Videoculture digitali Andrew Darley [1] rintraccia nelle forme mediali della contemporaneità aspetti che erano già dei fenomeni spettacolari di fine Ottocento, gli stessi che hanno caratterizzato e influenzato il cinema delle origini. Oltre ai videogiochi, alle attrazioni dei parchi di divertimento, luoghi deputati dell’intrattenimento, anche il cinema contemporaneo sembra trovarsi ad essere mera fonte di piacere estetico immediato, sempre più simile ad un giro di giostra che ad un’opera complessa e leggibile a più profondità. L’utilizzo del digitale è il comune denominatore di queste diverse esperienze, sia che sia usato per modificare immagini preesistenti, che per creare ex novo; in ogni caso l’obiettivo è la maggiore credibilità possibile, cioè la maggiore somiglianza rispetto alla realtà, o meglio all’immagine di essa. Questa ossessione finisce col creare una distorsione del rapporto tra reale e virtuale perché, come insegna l’iperrealismo, quando si copia la realtà attraverso l’immagine di come questa dovrebbe essere, si ottiene una realtà “al secondo grado” che equivale ad una dimensione totalmente inventata.
Il digitale più che aumentare la distanza tra spettatore e mondo filmico, la annulla, perseguendo l’assenza come se non ci fosse più la necessità di una conoscenza profonda, come se anzi l’esplorazione della superficie fosse l’unico tipo di conoscenza concessoci.
Nel campo dell’intrattenimento puro attrazioni come Imax, Omnimax, ride film cercano il coinvolgimento fisico dello spettatore attraverso la simulazione e la massima mancanza di contatto. I videogiochi sembrano andare nella stessa direzione: il recentissimo Nintendo Wii fa corrispondere a movimenti mimici del corpo le azioni sullo schermo. Non solo si annulla l’”è stato” fotografico barthesiano, non essendo necessaria la presenza del referente al momento della realizzazione del prodotto mediatico, ma si elide il contatto con lo spettatore pur cercandone il coinvolgimento fisico.
Gli effetti speciali dei film d’azione e di fantascienza fanno sì che lo spettatore aderisca a ciò che vede grazie al coinvolgimento spettacolare che integra quello emotivo di suspense, di partecipazione alla tensione. I film fantasy ci hanno abituati a set interamente digitali su cui si muovono attori in carne e ossa che, sappiamo, hanno recitato davanti al green screen.
Le cose sono un po’ diverse per quanto riguarda i film completamente digitali. Questa sorta di neogenere ha trovato l’espressione ideale all’interno della tradizione dei film d’animazione, proprio perché in questo campo ci si pone davanti al prodotto aperti alle situazioni più assurde, senza che ci venga in mente di interrogarci sull’esistenza o meno dei personaggi, né sulla credibilità degli avvenimenti. Pensare all’animazione come a una schiera di disegnatori con carta e matita che danno l’illusione del movimento scorrendo mazzetti di pagine è un’immagine ormai superata. Il passaggio dai cartoni animati tradizionali a quelli digitali è avvenuto sottoforma di evoluzione, eppure, come nota ancora Darley [2], la tipologia è la stessa: la grafica dei prodotti della Pixar Animation riprende il semi-realismo ormai codificato tipico dei lungometraggi animati Disney, solo con il surplus della tridimensionalità, dei riflessi, della tendenza alla perfezione sia degli sfondi che dei dettagli (la varietà dell’ecosistema marino in Alla ricerca di Nemo, 2003; i paesaggi di Cars, 2006). La tecnica più nuova ha prima affiancato la più vecchia, ha ottenuto il favore del pubblico e si è poi imposta. Il fatto che il modello Pixar stia ancora dominando rispetto alle altre factory dell’animazione digitale è forse imputabile proprio alla maggiore continuità stilistica con l’immaginario Disney, che era predominante su quello di tutti gli altri produttori di cartoons. Anche tra le immagini digitali sussistono comunque delle differenze notevoli: le “creature” della Dreamworks, ad esempio, sono evidentemente differenti, più antropomorficamente fotografiche, di quelle della Pixar.
Secondo Darley, il fascino delle immagini Pixar è dovuto alla loro ambiguità, alla quasi impossibilità per lo spettatore di capire se «si tratta di animazione bidimensionale (disegni), tridimensionale (pupazzi), di riprese dal vivo o di un misto di tutte e tre queste cose» [3]. La tendenza al realismo fotografico è dunque la convenzione estetica prevalente; l’obiettivo ultimo è l’indistinguibilità tra creazione al computer e foto presa “dal vero”.
Tuttavia contemporaneamente alla rivoluzione digitale, il campo dell’animazione ha frequentato negli ultimi anni strade meno battute: è il caso della tecnica dello stop-motion (o passo uno), che sembra andare in diretta controtendenza, in direzione del recupero dell’uso del profilmico piuttosto che del digitale, della costruzione manuale piuttosto che della programmazione, dello spazio e della profondità piuttosto che della superficie. Al di là di giudizi estetici semplicistici basati sull’equazione artigianale = più difficile = più interessante, lo stop-motion mi sembra interessante per la sua rivalutazione della materia e dell’unità animata come oggetto da muovere fisicamente; è la riconsiderazione della presenza nello stesso luogo dell’animatore e della cosa da animare.
E’ singolare che i primi cortometraggi digitali di John Lasseter per la Pixar, come Luxo Junior (1986) o Red’s Dream (1987), siano dedicati a oggetti che prendono vita, hanno una personalità e dei sogni, ma che non sono antropomorfi, non hanno occhi (al contrario delle automobiline di Cars), né braccia o gambe, non parlano, ma riescono a comunicare sentimenti pur essendo totalmente privi di specifici marcatori di espressività. Presto però il cartoon digitale si è reintegrato nel solco di quello tradizionale: il punto d’incontro tra l’animazione di oggetti e i disegni animati è non a caso un film che narra di giocattoli parlanti, oggetti riprodotti che hanno già forma antropomorfa, che facilmente giustifica l’integrazione con il movimento e la parola.
Anche lo stop-motion ha subito vari utilizzi prima di diventare una modalità di racconto autonoma: all’inizio era usato per muovere oggetti reali in interazione con gli attori sul set; il naturale passaggio successivo è stato diventare effetto speciale per film che presupponevano elementi irreali, cioè il genere fantastico o fantascientifico.
Lo stop-motion
La tecnica dello stop-motion nasce in Europa quasi contemporaneamente al cinematografo. Spesso Mèliés ne viene considerato l’inventore con la sua leggendaria scoperta della tecnica arresto/sostituzione. In realtà il primo film ad impiegare in modo sistematico lo stop-motion è L’hotel elettrico (El hotel electrico, 1905) di Segundo De Chomon, in cui valigie animate si aprono e si disfano da sole, si vedono spazzole che pettinano e lucidano scarpe, abiti che spogliano e vestono i loro proprietari: oggetti reali spostati e filmati fotogramma per fotogramma danno l’impressione di un movimento autonomo, e interagiscono con gli attori in carne e ossa.
Tra i pionieri dell’uso di questa tecnica con pupazzi animati, chiamati puppetoons,c’è l’ungherese George Pal, che fa fortuna prima a Berlino, con cortometraggi pubblicitari, poi, fuggendo dall’avvento al potere di Hitler, a Hollywood dove realizza e produce vari cortometraggi animati per la Paramount.
Insieme a Pal, un altro dei più famosi esperti dello stop-motion è Willis O’Brien, creatore del pupazzo di King Kong nell’omonimo film del 1933 (King Kong, M.C. Cooper). Sia Pal che O’Brien si dedicheranno poi prevalentemente all’impiego dello stop-motion come effetto speciale per film con attori in carne ed ossa.
Allievo di O’Brien, Ray Harryhausen ha creato e animato in stop-motion i mostri di svariati film degli anni ’50 e ‘60 (tra gli altri: Il risveglio del dinosauro, Eugene Lourié, 1953; Il mostro dei mari, Robert Gordon, 1955; La terra contro i dischi volanti, Fred Sears, 1956; Il settimo viaggio di Simbad, Nathan Juran, 1958). In questi anni lo stop-motion è una tecnica di successo per la realizzazione di effetti speciali nei film fantastici o di avventura, nelle scene in cui esseri umani vengono a contatto con mostri, scheletri, dinosauri e quant’altro. Con l’avvento di tecniche più sofisticate, dunque, questo trucco è destinato a sparire, o ad essere relegato ai film a basso budget.
Parallelamente però lo stop-motion viene molto utilizzato da vari artisti e animatori più o meno legati ad ambienti indipendenti e “di nicchia”, come il cecoslovacco Jiri Trnka, i fratelli Quay, Jan Svankmajer (coinvolto nel teatro Lanterna Magika di Praga), i prodotti dei quali sono tutti accomunati da una spiccata visionarietà, e da atmosfere surreali e inquietanti, tutt’altro che infantili. Henry Selick, regista del Tim Burton’s Nightmare Before Christmas, cita molti di loro come fonti di ispirazione [4]. Il connubio tra stop-motion e situazioni oniriche, allucinate, sarà molto produttivo ad esempio nell’ambito del videoclip (regolarmente usato tra gli altri da Michel Gondry e Floria Sigismondi).
Alla fine degli anni Ottanta, presso la Aardman Animation, Nick Park crea Wallace e Gromit, una autentica coppia comica formata da un umano inventore e dal suo cane taciturno e intelligente. Il cinema muto è una evidente ispirazione di molti cortometraggi in stop-motion, preso non come fonte di citazioni, ma come un paradigma unico, un modo di vedere l’arte delle immagini in movimento: la tecnica mimica per esaltare l’espressività, l’enfasi del gesto, le corrispondenze nell’uso del trucco e della maschera, i debiti nei confronti delle tradizioni teatrali. Lo stop-motion è esagerazione, è ritorno agli albori del cinema, è ritorno all’infanzia. Se i cartoni digitali spostano l’attenzione sulla superficie, se le tecniche della computer-graphic tendono a riprodurre il più possibile una realtà mediata dalla fotografia, facendo dimenticare la difficoltà e la specificità delle tecniche stesse, all’opposto lo stop-motion fa di tutto per riportare in luce la meraviglia per la costruzione, per la manualità, per l’abilità artigianale.
L’effetto è paragonabile al ritorno alle case di bambola dopo una vita passata con i videogame. Viene voglia di toccare i pupazzi, di girarci intorno. Dai cortometraggi (e il successivo lungometraggio) con protagonisti Wallace e Gromit, in cui si riproduce un ambiente definito ed esistente, con riferimenti realistici a quelli che possono essere momenti di vita quotidiana, ai lavori di Tim Burton, totalmente fantastici e fuori dal tempo anche quando si hanno riferimenti cronotopografici, la materialità dei personaggi e degli ambienti, che siano di plastilina o di resina e alluminio, è parte integrante del processo di fascinazione e fruizione da parte del pubblico.
Nightmare Before Christmas esce nel 1993, Toy Story di John Lasseter nel 1995: la tecnica dei puppetoons torna alla ribalta quasi contemporaneamente alla nascita del primo lungometraggio animato interamente digitale. Si tratta di due reazioni differenti, praticamente opposte, alla stessa esigenza di innovazione del mezzo dell’animazione.
Oggi i lungometraggi Pixar hanno ormai ufficialmente sostituito gli annuali film a disegni animati della Disney. Oltretutto l’uso del digitale incrementa l’interesse del pubblico adulto, ricercato quasi quanto quello dei bambini. E’ almeno a partire da La Sirenetta (1989) che è risaputo e documentato che i cartoni animati Disney attraggono volutamente nella loro sfera di fruizione anche i genitori che portano i figli al cinema. In casi come La Bella e la Bestia (1993), Il Re Leone (1994), Il Gobbo di Notre Dame (1996) l’attrattiva principale per gli adulti era la possibilità di una doppia lettura tematica dei film, che oltre ad essere storie ben disegnate di personaggi divertenti, mostravano anche una maggiore complessità rispetto a quello che si può definire il “messaggio” del racconto. Le immagini Pixar invece spostano il piacere estetico, il cui godimento è maggiore appannaggio degli adulti, dal piano del contenuto a quello della forma [5], dal significato al significante.
Le animazioni in stop-motion reintegrano i due piani attraverso la reale tridimensionalità, e all’esaltazione dell’elemento inventivo: non personaggi e luoghi come se fossero fotografie, ma elementi reali ed esistenti, orgogliosamente fantasiosi. In questo caso il realismo si sposta da questione di stile a questione oggettuale e oggettiva, non più green screen ma profilmico, sottoforma di costruzione e creazione materiale.
Il tipo di reazioni che questi film provocano nello spettatore è complesso, perché oltre al piacere estetico/sensivo di vedere all’opera tecniche di animazione avanzate, entra in gioco la dimensione della tattilità, proprio perché i personaggi sono pupazzi tridimensionali dall’anima di metallo, sono piccole sculture finalizzate al movimento con la combinazione di fotografie e macchina da presa. Questa materialità è considerata da chi la usa un vantaggio, un surplus rispetto all’animazione tradizionale. Come vedremo, ciò si rispecchia in un duplice aspetto: da un lato i set e i pupazzi che vengono creati per questo tipo di film diventano spesso cimeli da esporre nei musei del cinema, assecondando così una nozione di originalità tipicamente cinefila; dall’altro i personaggi e le location diventano feticci riproducibili e commerciabili secondo canali di mercato diversi da quelli dell’animazione tradizionale.
Il caso di Tim Burton è esemplare: la sua filmografia è caratterizzata a livello macroscopico da un’idea di cinema che guarda al passato, nella concezione del mestiere del cineasta come artigiano-poeta che attinge dalla propria fantasia e crea attraverso la manualità; a livello più particolare dalla poetica dell’esclusione, caratterizzata dal riciclo e dal pastiche, dall’estensione dell’ambiguità tra reale e immaginario a visione del mondo. La passione per lo stop-motion diventa simbolo della continuità tematica e visiva del suo percorso registico.
Burton realizza il primo cortometraggio in stop-motion, Vincent (1982), mentre lavora alla Disney, dove il suo talento immaginifico è frustrato dalle regole ferree che limitano la creatività dei singoli artisti ai paradigmi stilistici che costituiscono il “marchio” dell’azienda. Il corto è una sorta di illustrazione animata a una filastrocca precedentemente scritta da Burton; l’uso dello stop-motion permette un’incisività maggiore dell’atmosfera inquietante ispirata all’espressionismo, grazie proprio al volume di ciò che viene filmato, in bianco e nero e con luci contrastate. Come per tutti i suoi lavori successivi, immagini e parole vanno di pari passo nel processo di invenzione delle storie, l’aspetto dei personaggi e dei luoghi non può essere separato dal racconto. Così quando inizia a maturare il progetto di Nightmare Before Christmas, subito dopo Vincent, il protagonista Jack Skeleton ha già la forma con cui diventerà “famoso”. In ogni caso la Disney, che tutto sommato ha compreso la bravura fuori dal comune di Burton, gli permetterà di avviare la lavorazione solo molti anni più tardi, dopo la fama raggiunta con Batman (1989) e Edward Mani di forbice (1990). C’è da dire che sebbene l’idea della storia e dei personaggi sia di Burton, Nightmare Before Christmas è quasi interamente girato in sua assenza, a causa delle riprese in corso di Batman-Il ritorno e Ed Wood; eppure il film esce col titolo Tim Burton’s Nightmare Before Christmas (1993), mossa di marketing voluta dalla Disney per cavalcare l’onda del successo del regista, ma che in realtà ha risonanze interessanti perché trasforma il nome del nostro in un brand, già garanzia di certe atmosfere e certe tematiche [6], e, di lì a qualche anno, anche di un certo stile di vita (su questo mi soffermerò più avanti). Nel film del 1993 gli effetti speciali sono anch’essi artigianali, realizzati tramite disegni poi sovrapposti alla pellicola, o con fotomontaggi di particolari ripresi in momenti diversi (ad esempio il fuoco o il fumo). L’ultimo lungometraggio in stop-motion diretto da Burton, insieme a Mike Johnson, è La sposa cadavere, che arriva nel 2005, dopo numerosi film per così dire “tradizionali”. Qui Burton utilizza un programma digitale per donare maggiore fluidità al movimento dei personaggi: la tecnologia è usata come perfezionamento delle caratteristiche dello stop-motion, come strumento al servizio di una modalità di racconto che mantiene inalterate le proprie particolarità.
Lo stop-motion riesce a conciliare in modo originale l’impulso creativo di Burton nel campo dell’animazione (come reazione ai disegni caramellosi effettuati per la Disney, quasi a svelare il loro lato oscuro), e dunque i riferimenti al mondo dell’infanzia in generale e autobiografici in particolare, con la passione per le atmosfere gotiche ed espressioniste e, soprattutto, con il cinema recitato, tridimensionale; perché per Burton raccontare storie significa letteralmente costruire dimensioni inventate e fantastiche, rendendole bazinianamente reali in quanto esistenti davanti alla m.d.p., come oggettificazione, più che oggettivazione, di sogni e incubi, e questo assunto è valido per tutta la sua produzione.
Come si evince da un saggio di Manzoli, Nightmare Before Christmas è una sorta di summa della concezione che il regista ha dei propri personaggi e delle proprie storie: «solo pupazzi, ma non bambole, piuttosto marionette, muppets.» [7]. Il cinema di Burton è pieno di oggetti-gadget e oggetti-giocattoli che caratterizzano i personaggi (Joker, Pinguino) ma anche di protesi dei corpi stessi (Edward Mani di forbice); il rapporto problematico col corpo caratterizza tutti questi protagonisti, simboli che portano nell’aspetto fisico le tracce della propria tormentata interiorità; emarginati, bistrattati o semplicemente tipi strani che assumono caratteristiche quasi anti-organiche, anche quando non sono propriamente artificiali come Edward o “mutati” come Cat Woman. Corpi esangui e troppo simili a cadaveri, o a oggetti inanimati, appunto. Anche quando in carne ed ossa, i personaggi sono simili a marionette, disarticolati, adatti a descrivere la labilità del confine, caro a Burton, tra vita e non-vita. Così i veri personaggi-marionette dei lungometraggi in stop-motion tematizzano questa oppressione dello spirito vitale. I morti e i mostri sono intercambiabili, ma anche i morti e i vivi: sia in Nightmare Before Christmas che in La sposa cadavere le scelte estetiche per raffigurare il mondo “dei vivi” o comunque “della norma” sono caratterizzate dall’omogeneità, soprattutto nel secondo, dove al grigio e monocromatico paese che fa da sfondo alla vicenda corrisponde un pirotecnico e coloratissimo aldilà. Oltretutto se in Nightmare Before Christmas non sono presenti veri umani, a parte Babbo Natale e i bambini (gli adulti “ordinari” sono sempre fuori campo), le caratterizzazioni grottesche degli uomini e donne “vivi” che popolano La sposa cadavere possono essere esasperate proprio perché si tratta di veri fantocci (vedi le opposizioni fisiche complementari tra i coniugi Everglot e i Van Dort). Mostri e personaggi in Nightmare Before Christmas e vivi e morti in La sposa cadavere sono ontologicamente uguali.
Un altro aspetto interessante, del rapporto tra Burton e lo stop-motion, è la ricollocazione di questo procedimento presso il suo “luogo deputato”, ovvero il cinema fantastico; come abbiamo visto è in questo settore che operavano principalmente gli esperti. La predilezione di Burton per il marginale si ripercuote a tutti i livelli del suo operato, e la si può rintracciare anche in questa scelta di promuovere un sistema minore, di sfondo, destinato a divenire obsoleto, come è lo stop-motion, a macchina delle meraviglie su cui fondare il divenire stesso del prodotto: materializzare con resina, stoffa e alluminio, quanto di più immateriale possa esistere, cioè l’immaginario. L’accezione di materialità viene oggettivata in senso letterale, come fabbricazione minuziosa e lenta del film, e in senso figurato, in continuità con le inclinazioni tematiche del regista, quali il rapporto di riflesso tra aspetto esteriore e interiorità, e tra emarginazione e condizione infantile, che trova nel gioco e nelle invenzioni fantasiose la massima espressione.
L’aspetto dei pupazzi non è realistico, ma deriva da molteplici influenze che vanno dalle tipizzazioni infantili del “brutto” o del “pauroso”, alle convenzioni di genere dell’horror e del b-movie. L’utilizzo di marionette e pupazzi che prendono vita rimanda ai racconti gotici ottocenteschi e alla categoria freudiana del perturbante, con tutte le sue più recenti declinazioni in chiave horror, così come l’uso della luce contrastata, delle ombre e delle angolazioni distorte; tutto ciò filtrato da un immaginario fiabesco che però nulla ha a che fare con la tradizione favolistica europea [8], e che si nutre bensì dell’apparato mediatico che ha sostituito l’assenza negli USA di un background mitico.
Tutta questa dimensione filmica fatta di oggetti diventa effettivamente merce quando passa oltre lo schermo, presentificandosi nel merchandising, unico referente che colma la distanza tra spettatore e schermo. La vita del prodotto in stop-motion prosegue verrebbe da dire naturalmente sottoforma di pupazzi-feticci, che tornano alla loro dimensione di oggetti: privati del movimento sono appunto solo marionette.
Il fatto che fin da subito sia Nightmare Before Christmas che La sposa cadavere non siano considerati propriamente film per bambini, ha fatto sì che il merchandising relativo si sia sviluppato su canali diversi rispetto agli altri film di animazione. Se i gadget collegati ai disegni animati o ai cartoni digitali si trovano nei negozi di giocattoli o associati alla vendita di altri prodotti, come Topolino o gli Happy Meal di McDonald, quelli col “marchio” Tim Burton sono, almeno inizialmente, appannaggio dei negozi per collezionisti. E’ interessante la dinamica con cui il prodotto Nightmare Before Christmas ha trovato varie forme di espressione nel tempo: sembra che il merchandising collegato al film sia stato sfruttato con successo non alla sua uscita, ma dopo l’edizione in DVD del 2003; da quel momento è diventato un vero e proprio simbolo, svincolato dal marchio e dalla filiazione cinematografica. In parallelo con una certa tendenza alternativa che ibrida caratteristiche precedentemente riconducibili al punk e al dark, i gadget e l’abbigliamento hanno iniziato lentamente a diffondersi.
Questo discorso non vale per La sposa cadavere: da questo film è derivato un libro di fotografie sul making of e tutta la serie di riproduzioni dei personaggi in vari materiali, ma la distribuzione in questo caso si è limitata ai negozi specializzati. A mio parere entra in gioco qui la diversa natura della storia stessa, o meglio, del procedimento che ha portato alla storia. I personaggi de La sposa cadavere sono prevalentemente umani o cadaveri, caricaturali, grotteschi, ma pur sempre modelli che si rifanno all’esistente, anche se si tratta di marionette. La natura giocosa dei personaggi di Nightmare, il loro essere creature provenienti da un’altra dimensione, completamente fantasiosa, la loro “forma”, hanno fatto sì che più facilmente potessero essere usati graficamente come decorazioni e stampe. Jack Skeleton è un personaggio geniale non solo per l’originalità del carattere ma anche per l’aspetto grafico, una testa tonda, essenziale ma eccezionalmente espressiva (che ben si adatta a riempire spillette e a diventare portachiavi), un corpo filiforme e stilizzato. Si ristabilisce così il legame strettissimo con il disegno che caratterizza ogni lavoro di Burton, e che è fondamentale per i film in stop-motion. Questo rapporto va oltre l’evidente importanza dello storyboard nel processo di creazione, è basilare in quanto fonda l’invenzione stessa dei personaggi, in cui si riversano le influenze dichiarate delle illustrazioni classiche dei libri per bambini, sottoforma di stravolgimento delle forme geometriche e delle proporzioni. Questo scambio tra dimensione bidimensionale e tridimensionale trova così una sintesi negli oggetti in vendita su cui i personaggi tornano ad essere disegni, e su cui le particolarità stilistiche dell’atmosfera dark si trasformano in decorazioni. Per questo si può parlare, se non di una moda, perlomeno di un particolare mood sotto il segno di Tim Burton. La riproduzione in serie sfrutta tutte le fasi della creazione, i pupazzi tridimensionali diventano di nuovo disegni per la gran parte del pubblico, mentre, per costo e utilità, restano modelli-sculture per i collezionisti. Nel caso di Nightmare Before Christmas si assiste a una migrazione dei significati intrinseci nel film dal prima al dopo il prodotto finito, perché la materialità che caratterizza le “creazioni profilmiche” trova il suo completamento e la sua esaltazione nel merchandising. I protagonisti del film sono già oggetti, senza il bisogno di subire il processo di mercificazione che capita ad esempio agli attori in carne ed ossa. Così la storia culturale del prodotto Nightmare Before Christmas è inscindibile dai suoi sbocchi commerciali e dal particolare uso che ne viene fatto, che sia una fruizione di tipo cinefilo o da parte di giovani che acquistano il marchio senza conoscerne l’origine. La materialità reale della creazione del prodotto si trasferisce sul consumo del materiale che prolifera intorno al testo principale.
I canali su cui si muovono i gadget dei cartoni animati sono attentamente pianificati dalla stessa distribuzione, mentre la vita culturale del prodotto Nightmare Before Christmas è stata in parte influenzata dal comportamento dei fruitori, che ne hanno determinato la destinazione. Peraltro il successo dell’abbigliamento targato Nightmare Before Christmas ha dato il via a una serie di epigoni dalla non sempre specificata natura: teschi simpatici e animaletti morti dagli occhi grandi campeggiano su altrettante felpe, gonne, cravatte e quant’altro caratterizza l’abbigliamento dei seguaci del cosiddetto emo-core, stile musicale definito generalmente come hardcore melodico.
Nel libro Vita da pixel Giulietta Fara afferma che per ottenere uno statuto originale il digitale dovrebbe superare il vincolo fotografico. Se nel cinema tradizionale la commistione tra digitale e ripresa “fotografica” è imprescindibile quando si richiede l’interazione tra attori in carne ed ossa e situazioni fantastiche, le soluzioni più interessanti si hanno quando il digitale è utilizzato in senso non riproduttivo.
In ogni caso l’animazione è il giusto punto di partenza, perché nell’epoca digitale è il settore che colonizza le altre modalità di produzione di immagini, comune denominatore di ogni costruzione di sintesi [9]. Questo ne fa l’espressione più completa dell’immagine in movimento nella contemporaneità, perchè riserva ancora una pluralità di scelte e dunque una ricchezza che la contaminazione non può che accrescere: l’ibridazione tra nuove forme e vecchi stili come lo stop-motion è un esempio di questa ricchezza. Paradossalmente, e provocatoriamente, lo stop-motion può essere un’alternativa valida proprio al paradigma fotografico, se si accetta che tale percorso parallelo possa anche non identificarsi con l’immagine digitale. Perfettamente in linea con la giocosità delle nuove tecnologie, contiene ontologicamente i tratti di un legame con la realtà, e tuttavia ha le caratteristiche giuste per essere molto altro.
Bibliografia
- AA.VV., Garage. Cinema, autori, visioni – Tim Burton, Torino, Scriptorium, 1995.
- Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2003.
- Andrew Darley, Videoculture digitali. Spettacolo e giochi di superficie nei nuovi media, Milano, Franco Angeli, 2000.
- Mauro Di Donato, Tim Burton. Visioni di confine, Roma, Bulzoni Editore, 1999.
- Giulietta Fara, Andrea Romeo, Vita da pixel – Effetti speciali e animazione digitale, Milano, Editrice Il Castoro, 2000.
- Mark Salisbury, Il cinema secondo Tim Burton, Parma, Pratiche Editrice, 1995.
- Massimiliano Spanu, Tim Burton, Milano, Il Castoro Cinema, 2007.
- American Cinematographer n. 12, dicembre 1994.
- Cineforum n. 340, dicembre 1994.
- Segnocinema n.65, gennaio-febbraio 1994.
- Segnocinema n. 67, maggio-giugno 1994.
- Segnocinema n. 79, maggio-giugno 1996.
- Sight and Sound n. 2, dicembre 1994.
[Ricerca presentata per l’esame del Corso di Produzione Multimediale (prof. Pier Luigi Capucci),
Laurea Specialistica in Cinema, televisione e produzione multimediale
Università di Bologna, A.A. 2006/2007 – Programma del corso (pdf, 76 Kb)]
Note
- Andrew Darley, Videoculture digitali. Spettacolo e giochi di superficie nei nuovi media, Milano, Franco Angeli, 2000. [↩]
- Andrew Darley, op. cit., pag. 48. [↩]
- Andrew Darley, op. cit., pag. 119. [↩]
- “Animated Dreams”, intervista di Leslie Felperin a Henry Selick, in Sight and Sound, n. 12, dicembre 1994. [↩]
- Andrew Darley, op. cit., pag. 118. [↩]
- Cfr. Gualtiero De Marinis, “Bestie e Umani Rovinosamente Talentuosi e Oltraggiosamente Nevrotici”, in Cineforum, n. 340, dicembre 1994, pagg. 50-52. [↩]
- Giacomo Manzoli, “Corpi patetici: l’estasi malinconica di (Tim) Burton”, in AA.VV., Garage. Cinema, autori, visioni – Tim Burton, Torino, Scriptorium, 1995, pag. 72. [↩]
- Cfr. Guido Bonino,”Una poetica dell’atemporalità. Attraverso la letteratura per l’infanzia”, in Garage, op. cit., pagg. 97-105. [↩]
- Giulietta Fara, Andrea Romeo, Vita da pixel – Effetti speciali e animazione digitale, Milano, Editrice Il Castoro, 2000, pag. 11. [↩]
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