Abstract
The what3words commercial geocoding system, founded in 2013, allows to locate geographical positions through the algorithmic assignation of a combination of three words, a textual tag that replaces the uncomfortably numerical lat-long coordinates. Each position has a resolution of 3×3 meters, and this means that every movement in space results in a new word sequence. With the possibility of a literary approach in the background, which pairs the what3words app with experimental poetry, I will draw a connection with Locative media art, specifically in its “annotative” form, which gives priority to the digital enrichment of physical spaces. In this context, the immediacy of human language earns a position of absolute importance: moving between the opposing poles of criticism of an artistic system that makes use of government technologies, and the possibilities of intervention in everyday life, Locative art seems to have traced the path for several commercial operations since the early 2000s. The what3words service represents an extreme example of the circulation of human language in the neogeographical space of digital cartography. All of this will be reconstructed taking into consideration fundamental artworks, inscribing them in the outcome of commercial geotagging applications and linking with some categories of twentieth century critical thinking: activism, graffiti, or concepts evoked by the International Situationist, such as dérive and détournement, which still today seem to represent actualized aspects of public art.
Non è forse un caso che Chris Sheldrick, co-fondatore di what3words assieme a Jack Waley-Cohen e Mohan Ganesalingam, venga dalle zone rurali dell’Hertfordshire, dove, tra le distese del tipico crescione d’acqua, è tutt’altro che semplice guidare i corrieri nel giusto luogo di ricezione della posta. Come sistema alternativo di geolocalizzazione, what3words nasce, come spesso succede, da una serie di fallimenti personali. Musicista mancato per colpa di un infortunio ai tendini durante un episodio di sonnambulismo, Sheldrick ha tentato successivamente la strada dell’organizzazione di eventi musicali. Di frequente i concerti si trovano in spazi ampi e la necessità di indirizzare chi guida – per esempio i camion delle attrezzature – diventa una questione di metri e centimetri, senza che i vecchi navigatori satellitari, né le più moderne implementazioni di Google Maps possano granché aiutare. Le coordinate satellitari del GPS, ad onor del vero, potrebbero sopperire al problema di localizzare precisamente un punto non identificato da specifici indirizzi civici, ma rimarrebbero comunque problemi di ordine pratico: non tanto il margine d’errore, via via perfezionato dal mercato (Xiaomi sta lanciando una gamma di telefoni con GPS a doppia frequenza che promette una precisione e una velocità di aggancio fino a cinque volte l’attuale tecnologia, ammettendo un errore attorno ai cinque metri), quanto nell’intelligibilità dei dati. L’intuizione principale dietro what3words sta nell’aver tradotto le incomunicabili quindici cifre di latitudine e longitudine in un linguaggio perfettamente umano e memorizzabile. L’algoritmo che gestisce l’applicazione, che ha richiesto sei mesi per la prima implementazione e che pesa appena dodici megabyte, ha suddiviso la terra in un reticolato di 57mila miliardi di mini-appezzamenti di tre metri quadrati, dando a ognuno di questi un’univoca combinazione di tre parole di senso compiuto, selezionate da una wordlist di circa 40mila (tradotte in quattordici lingue). Il punto non è evitare di perdersi, che è diventato nei fatti impossibile nella società degli spostamenti georeferenziati via smartphone – con buona pace delle tattiche di resistenza situazionista, dove il perdersi rappresentava ancora un’attività sfidante di liberazione –, quanto dare la possibilità a chiunque di potersi trovare nel punto più preciso possibile e poterlo comunicare in un linguaggio fluido, naturale e facilmente ricordabile. Attraverso l’interrogazione del sito o dell’app i tre vocaboli permettono di tracciare la propria posizione all’interno di spostamenti minimi – cambieranno dinamicamente spostandosi dalla camera alla cucina, per esempio – sia di fare una ricerca: è comprensibile che in questo modo poter comunicare a qualcuno le tre parole e, da parte di chi riceve la comunicazione, inserirle nell’applicazione, funzionerà da immediata localizzazione free-flowing, liberata dalle rigidità delle coordinate.
La naturalezza dell’operazione assume una sua crucialità nei grandi agglomerati urbani, dove corrieri, tassisti e rider, impigliati nel sistema elettromagnetico dei nostri dispositivi, possano arrivare esattamente dove il cliente lo richiede. Nei raduni dove i giovani saranno in grado darsi appuntamento spaccando la posizione (tra i tanti, anche il Festival di Glastonbury utilizza ufficialmente il sistema), o ancora nei grandi magazzini e centri commerciali, azzardandone l’utilità anche per i droni legati a sistemi di logistica (possibilità già adocchiata da aziende come GoPato, in Costa Rica, o la statunitense Hylio). Ma è evidente che l’utilizzo che salta più all’occhio è quello possibile nei luoghi fuori dalle rotte della globalizzazione, in quella gran parte di mondo in cui l’individuazione sulla mappa ha una valenza sociale e non legata alle necessità capillari dei tracciati di vendita. Oltre il 75% della popolazione mondiale non ha un indirizzo postale; ciò significa un incremento esasperante in termini di tempo e risorse nella gestione della cittadinanza, dalle più comuni operazioni quotidiane fino a laddove aiuti umanitari o beni di prima necessità devono arrivare con una certa fretta. Nigeria, Mongolia, Costa d’Avorio, Tonga, Gibuti e altri paesi in via di sviluppo hanno adottato centralmente what3words, così come istituzioni di aiuto e cooperazione internazionale quali la Croce Rossa o le Nazioni Unite.
L’indirizzo, inteso come formato codificato di localizzazione, del resto, è principalmente un fatto culturale, e luoghi come l’Arabia Saudita e la stessa Mongolia – ricorda Sheldrick [1] – hanno per la quasi totalità della loro storia usato nient’altro che le direzioni. Questo spunto, al di là delle soluzioni umanitarie e di “ingegneria sociale”, evidenzia what3words come parte di una colonizzazione commerciale dello “spazio hertziano” anche in quelle zone che culturalmente vivono isolate dalla rete. Una lucida segmentazione geonumerica, limpidamente cartesiana, della crosta terrestre – ben oltre il noto “spazio vissuto” di lefebvriana memoria – in cui aziende come Mercedes-Benz, Audi, Tom Tom ripiegano interessi economici. È un appunto cruciale per chi muove critiche all’applicazione, assieme all’architettura smaccatamente private business del codice, lontano dalle aperture dell’open source.

what3words (www.what3words.com)
In realtà, che si parteggi per l’utilità civile dell’applicazione o al contrario si storca la bocca per gli spettri dell’interesse aziendale, creatività e locative media – seppure abbiano spesso trovato casa tra le trame dell’attivismo tech-savvy – non si sono mai peritate di incontrarsi all’ombra di applicazioni commerciali o governative. Il GPS stesso, strumento massimo e prediletto dagli artisti che hanno indagato il mondo della geolocalizzazione digitale, creando una vera e propria tendenza a partire dai primissimi anni del Millennio [2], nasce e si sviluppa in ambito governativo e fortemente centralizzato, così come, in senso contrario, la più nota e pervasiva applicazione commerciale di stampo locative, Google Maps, ha fin da subito attratto a sé opere d’arte su “sfondo ibrido” che hanno richiamato un vivo interesse internazionale, dai 9 Eyes di Jon Rafman ai pin giganti di Aram Bartholl.
L’artista e curatrice Coco Fusco ha mosso aspre critiche rispetto alla dipendenza della Locative art verso tecnologie militari di controllo e sorveglianza [3], la cui condizione, secondo lei, è andata via via aggravandosi nella spettacolarizzazione del marketing e del management. Le maglie di quella che Brian Holmes chiama “infrastruttura imperiale” [4] sembrano dunque stringere le utopiche prospettive di riscatto della città dell’Urbanismo Unitario attorno alle media architectures dai mille occhi, con cui i sistemi di tracciamento ubiquitario strutturano le moderne smart cities. Lo stesso autore in The Flexible Personality [5] identifica la networked culture come una sintesi di due elementi divergenti: le ambizioni degli anni Sessanta per un nuovo modo di lavorare (specialmente nella tecnologia), che combinasse la giocosità col General Intellect della tradizione marxista, e la nascente società del controllo, in cui il nomade passa da essere il simbolo di una libertà sottostrutturale a stile di vita perfettamente integrato nella produzione del sorvegliamento.
Una possibile riappropriazione disobbediente delle tecnologie locative ha pure una sua storia artistica, si pensi ai progetti di metà anni Novanta di Marko Peljhan coi GPS ancora a sistema chiuso, adatti a inscriversi nelle vicende dell’hacking creativo e della sperimentazione tecnica; tuttavia da quando nel maggio del 2000 il presidente americano Clinton ha ammesso la “riduzione di selettività” dei GPS militari, rendendo di fatto possibile un uso civile e decriptato dei satelliti, una nuova fase si è aperta, una fase comprendente interessi e attività commerciali, di occupazione geodetica di quello spazio ibrido della quotidianità che iniziava ad allontanarsi dai desktop. A questo punto l’utilizzo dei sistemi di geolocalizzazione cessa di essere solamente una questione di rimodulazione tecnologica per entrare nel mondo della pervasività del linguaggio, della semiotica del quotidiano, della cartografia ipersoggettiva, in cui l’armatura economica del mercato dei dispositivi mobili gioca un ruolo di primissimo piano.
È in questo contesto rinnovato, in cui gli aspetti sociali della rete avanzano, che le parole iniziano ad accompagnarsi ai passi digitalmente tracciati, creando un cortocircuito nelle opposizioni tra la griglia iperrazionale della mappa e le esperienze “troppo umane” dei camminatori della città, di cui Michel de Certeau parla nell’Invenzione del quotidiano [6]. Si apre così una fessura interstiziale in cui gli artisti possono inserirsi, tra una scienza cartografica che istiga sempre più a una presunta oggettività, a un panotticismo gentile ma insistente che colloca la nostre posizioni in uno scenario aggregato (si entra negli anni in cui verranno lanciate applicazioni come Foursquare, Loopt, Whrrl, Brightkite o Gowalla, senza contare Flickr, che tra i primi permetterà il geotagging pubblico delle proprie fotografie, o l’antesignano Dodgeball, attivo già dal 2003 e poi acquistato da Google), e la proliferazione, appunto, della parola, del linguaggio, degli scambi comunicativi “in superficie” che gli utenti sviluppano nei box predefiniti delle piattaforme commerciali.
Questa doppia prospettiva ha trovato recentemente un luogo d’incontro, modulato dal mercato pubblicitario, nell’aggressiva profilazione dell’utenza basata sugli spostamenti geografici: Google Maps consiglia ristoranti e attività nei dintorni basandosi sulle stringhe di ricerca e sulle conversazioni effettuate dal proprio account, meta-luoghi in cui il rapporto tra vocabolo e algoritmo è eccezionalmente stretto. Lo stesso fa Facebook. Tali applicazioni hanno portato sul piano dei flussi mercantili il desiderio della mobilità che, come dicevamo, è passato da rappresentare la quotidianità di un nomadismo esperienziale a modalità generativa del capitale (spesso delineata, in un curioso attrito teorico, attraverso le pratiche del gioco situazionista). Avverte Matthew Wilson come tali servizi nascondano dietro al concetto di prossimità geografica nient’altro che una prossimità alla merce [7]. E seguendo la stessa traccia, l’illusione di uno spazio che si fa immediatamente a portata di mano, attraverso i display dei nostri dispositivi, riporta anche a ciò che Jacques Derrida chiamava l’écran, schermo illusorio in cui la spettralità mortifera della merce, o meglio le sue connotazioni mistificatorie e feticistiche, appaiono e scompaiono continuamente [8]. Chiaramente senza chiamare in causa lo status messianico di cui Derrida parla, è indubbio che il complesso rapporto tra luogo vissuto e luogo rappresentato digitalmente, evoca una frattura, una “vertigine del reale” che molto ha a che vedere con concetti come il “fuori luogo”, la dislocazione, e dunque uno spazio-tempo essenzialmente disarticolato (out of joint), che secondo l’autore caratterizzano il senso fantasmatico della merce.
Facendo un passo indietro, verso la metà del primo decennio del Millennio, è interessante capire in che modo gli artisti di ambito locative abbiano iniziato ad approcciarsi a questa evoluzione dello spostamento georeferenziato nella parola, in un periodo che getta le basi per una riflessione (anche artistica) che conduce fino alla nascita di applicazioni come what3words. Correttamente Mike Libehold dell’Institute for the Future (IFF) ha riconosciuto alla pletora di geohackers, artisti locativi e psicogeografi informatizzati, un rilievo nella formazione della base teorica per tutto l’interesse corporativo verso il geospatial web [9].
A conferma di una certa “artisticità” insita nel codice di what3words, curiosamente, la prima attività a prendere ufficialmente identità dalle tre parole di ubicazione è stata, nel 2016, una piccola galleria d’arte contemporanea a Montargis, cittadina francese della provincia del Gâtinais. I tre metri in cui è posizionata la porta d’entrata danno il nome alla galleria: tables.empty.workshops. Pure nella loro casualità le tre parole devono aver destato l’interesse dei due artisti-proprietari, Ludivine Thomas e Benny Andersson, in cui potrebbero aver scorto una certa letterarietà, tra tavoli di lavoro, efficienza collettiva e quell’empty che sembra richiamare l’aria assonnata e indolente della cittadina. Un primo passo con cui costruire una possibilità creativa di what3words può infine essere mosso da un’affinità elettiva con le sperimentazioni letterarie sulla randomizzazione elettronica del testo – dal Tape Mark I di Nanni Balestrini datato 1961 al codice poetico-combinatorio Mezangelle di Mez Breeze – e, ancora più propriamente, da quella che Tuters e Varnelis chiamano la “dimensione annotativa” della Locative art [10].
I due studiosi, partendo da una ricostruzione della tendenza, dalle prime conferenze al RIXC di Riga, al seminale Headmap Manifesto di Ben Russell fino ai riconoscimenti di Transmediale 2004 [11], suddivide in due tronchi la possibile genealogia della Locative art: uno che porta a una categorizzazione fenomenologica e l’altro verso, appunto, la dimensione annotativa. È quest’ultima che sembra fare al caso di una sottotrama che conduce a tutte quelle applicazioni di geotagging, di arricchimento informativo della crosta terrestre, di aggiunta e gestione di dati [12], mentre le opere di carattere fenomenologico possono essere ricondotte a una diversa accezione di tracing, cioè di controllo attivo degli spostamenti dell’individuo. A ben guardare, come Tuters e Varnelis suggeriscono, queste suddivisioni non rappresentano, rispettivamente, altro che i due poli che hanno storicamente caratterizzato l’arte critica dagli anni Cinquanta del secolo scorso, secondo la gestazione situazionista: il détournement e la deriva.
Su entrambe le pratiche è stato scritto moltissimo: la deriva, tattica di decondizionamento urbano effettuata attraverso l’esplorazione spaziale, lasciandosi trasportare dalle sensazioni del terreno urbanizzato e dalla casualità degli incontri – aggiornando la figura baudelairiana del flâneur e le passeggiate dadaiste e surrealiste [13] – , è spesso citata come precedente diretto dell’utilizzo creativo dei sistemi di geolocalizzazione come GPS, antenne cellulari e RFID (anche se vanno considerati degli aspetti stridenti tra la volontà liberatoria dell’Internazionale Situazionista e l’essenza governativa dei satelliti che spingono invece al controllo e all’autocontrollo). Il détournement nel nostro caso appare decisamente più pertinente; seguendo la linea suggerita dai due ricercatori, lo si scopre applicabile alle pratiche di geotagging di cui what3words rappresenta l’ennesima incarnazione. La natura del détournement è una natura dichiaratamente “contro”, nata come strategia critica di riappropriazione dal basso, in opposizione ai dogmi del potere precostituito, e impegnata a ricostruire gli strumenti del controllo sociale – tra cui la parola – in maniera disorientante. Tuttavia, benché il rapporto tra détournement e locative media non sia granitico – anzi, spesso criticato [14], appartenendo l’uno alla manipolazione del potere discorsivo, l’altro al più semplice arricchimento annotativo –, la denuncia all’inflessibilità della proprietà intellettuale, o concetti più recenti come “subveglianza” o “riflessionismo” [15], di cui da anni parlano i surveillance studies, rimangono indubbiamente una diretta emanazione del détournement e prediletto luogo d’incontro per molte teorizzazioni attorno alla pervasività dei media locativi. Inoltre festival come Terminalia o i newyorkesi Come Out & Play e Conflux – quest’ultimo il più importante evento pubblico di “psicogeografia contemporanea”, sospeso però da qualche anno –, testimoniano un interesse ancora forte nel traghettare le tattiche, talvolta ludiche (come avrebbe voluto Gilles Ivain), talvolta più organicamente determinate (come invece sarà il monopolio teorico di Debord), nelle città attuali, all’interno dei gangli tecnologici che caratterizzano sia le utopiche smart cities quanto gli sprawl suburbani. Tracciando una distanza, ovviamente, l’inclinazione commerciale di what3words obbliga a una depurazione degli aspetti critici legati all’attivismo controculturale, ponendo semmai l’attenzione sulla produzione verbale e sull’arricchimento testuale dello spazio ibrido.
Per Chris Chesher gli spatial media hanno inverato il passaggio dalla rappresentazione dello spazio allo spazio di rappresentazione [16], in cui il contributo della neogeografia – cioè della scienza geografica producibile dalla massa inesperta di utenti, su base volontaria – diventa essenziale. È il senso dello spazio percepito, anche e soprattutto attraverso gli interventi di tagging verbale dell’utenza, che fa scorrere l’approccio linguistico verso una mutua produzione dello spazio del quotidiano. Code/space, spazi ibridi, digiplaces, net locality o augmented space – come propone Lev Manovich [17] – sono i molti nomi che la ricerca ha dato a questa atmosfera sovrastrutturale che ammanta di codice la terra: uno spazio intermedio, riempito di informazioni dinamiche e multimediali, accessibili ovunque e confrontabili direttamente in loco. È qui che l’invisibilità del codice informatico, nella sua relazione col luogo, – come affermano Kitchin e Dodge [18] – non produce una gabbia deterministica né un’aleatorietà universalistica ma piuttosto un ambito relazionale estremamente contestualizzabile. Parole e tags si intersecano sulla spina logica del codice, producendo scivolamenti di senso e deturnamenti linguistici, sullo sfondo dell’imperfezione tutta umana della comunicazione. Tuters e Varnelis [19] azzardano un estroso parallelismo: l’incremento di produzione di testi programmatici da parte di Debord, negli anni dell’Internazionale Situazionista, sempre più standardizzati e meno negoziabili, nel tentativo di creare una pseudoscienza in grado di regolare efficacemente la spazialità urbana, non ha forse in sé già qualcosa di “informatizzato”? Non è forse già esso stesso una primordiale applicazione di codice, in cui le scrambled words dei détournement (così vicine alla randomizzazione dei tre vocaboli in what3words) rappresentano nient’altro che “l’utile glitch” del sistema?
Come accennato in precedenza, le opere di Locative art che meglio si presentano come possibile preistoria dell’eventuale valore artistico (o pseudoartistico) di progetti testuali come what3words, e che allo stesso tempo dimostrano una maggiore aderenza all’evoluzione delle piattaforme commerciali, sono quelle di natura “annotativa”. È pur vero che idee come quella di Sheldrick e soci appartengono più a un orizzonte, abbastanza unico, di sostituzione e traduzione dei dati che all’annotazione dello spazio attraverso contenuti, ma è senza dubbio l’aspetto della verbalità che connota entrambe le direzioni; l’umanizzazione del linguaggio in una non-zona che è il regno intermedio ed etereo tra le frequenze dei dispositivi elettronici e la percezione dei luoghi fisici. Va dunque constatato, io credo, che l’interesse degli artisti nei primi anni del Millennio sia indicativo di una necessità sociale generalizzata, di un bisogno di ritrovarsi nello spazio, oltre le postazioni dei propri personal computer (dopo gli eccessi “domestici” della Net art [20]) ma anche di “perdersi nella comunicazione”, che ha rappresentato uno stato del tutto tipico e anticipatorio rispetto a certe realtà commerciali, in maniera molto più sottile rispetto alla semplicistica visualizzazione di data e big data che pure avrà una sua fortuna nel filone delle arti. A conferma di una certa preveggenza non solo estetica ma anche linguistica di alcuni progetti, va ribadito il progressivo disinteresse, che ne sancisce la validità, attorno a queste pratiche una volta che applicazioni di geotagging su scala globale si sono presentate sul mercato – colossi come Google Maps o Foursquare, o, ancora prima, servizi più piccoli, molto meno conosciuti ma già strutturati sul modello business, come WikiMe [21] o i tentativi di mediazione da parte di Hewlett-Packard con MScape [22] –, inglobando e rendendo di fatto nulle le prosecuzioni dei progetti d’arte.

Proboscis, Urban Tapestries, 2002-2004 (http://proboscis.org.uk)
Tra il 2002 e il 2004 il collettivo artistico inglese Proboscis conclude il progetto Urban Tapestries, sviluppando alcune idee sull’implementazione della posizione geografica con informazioni testuali che già da qualche anno i laboratori di ricerca stavano portando avanti. Un esempio è l’applicazione GeoNotes del 2000, ad opera dello Swedish Institute of Computer Science, che usava le antenne Wi-Fi dei PDA (palmari portatili che hanno rappresentato la prima soluzione per un “computer da tasca”) per taggare le proprie locazioni. Ma se questo era, per motivi tecnici dovuti alla potenza del segnale wireless, relegato a situazioni indoor, Proboscis allarga il campo d’azione: l’idea è quella di creare una piattaforma di public authoring, usando un sistema di prossimità complesso che coinvolga tecnologie Wi-Fi, Bluetooth e GPS, e che permetta di allegare alle coordinate le annotazioni virtuali degli utenti, esaltando la conoscenza empirica, la memoria collettiva della città, storie e saperi comuni attraverso un modello rizomatico e organicamente informatizzato di narrazione dei luoghi.
Intanto, mentre l’esperienza di Proboscis volgeva al termine, altre stavano nascendo, in quello che sarà il periodo più prolifico per le sperimentazioni di geotagging testuale, che durerà almeno fino al debutto dell’iPhone 3G nel 2008, il primo smartphone venduto in maniera massiva ad avere un GPS assistito [23], e a cui via via si legheranno una serie di motivazioni non solo di hardware ma anche economiche, sociali, culturali che inizieranno a spingere in avanti le fondamenta dello spatial turn rendendo la posizione geografica una variabile non più trascurabile. La tracciabilità di persone e oggetti diventa un fatto logistico, di compravendita di dati personali, diventa puro profitto, qualcuno azzarda: il petrolio del Duemila. Chiaramente, a questo punto, le arie del mainstream fanno scemare l’interesse degli artisti, che vedono l’inventiva pratica e teorica lasciare il passo al dominio delle interfacce e alla seduzione dell’utenza, a cui strappare dati da rivendere nei circuiti pubblicitari. Intanto però alla metà del primo decennio il panorama dei locative media vive ancora un momento di grande eccitazione pionieristica. Yellow Arrow, per esempio, progetto sviluppato nel 2004 da Brian House, Christopher Allen e Jesse Shapins (e finanziato da Counts Media), permette di posizionare sticker creati ad hoc o addirittura indossarli: ognuno di questi possiede un codice univoco, su cui potrà essere impresso un messaggio attraverso il sito web dedicato o via SMS. Chi scova lo sticker potrà chiamare un numero telefonico appositamente predisposto, immettere il codice e accedere alla nota. Il più tardo Textopia, di Anders Sundnes Løvlie, pure fa capo all’ambito locative narrative, permettendo a chi cammina per Oslo di ascoltare testi location-based, stoccati in un database pubblico a struttura wiki, attraverso i propri telefoni cellulari. Neighbornodes è un’altra iniziativa interessante, ad opera di John Geraci, al tempo parte dell’Interactive Telecommunications Program della Tisch School of the Arts, e nato anch’esso in un periodo di sperimentazione votata alla comunicazione verbale sullo stile delle antiche BBS/FidoNet, ma traslata in un contesto urbano di partecipazione attiva dei luoghi (una tendenza diffusa di recupero di valori locali, seppure all’interno delle politiche universalistiche e ubiquitarie del World Wide Web, a cui ci si riferisce col termine glocal [24]). I Neighbornodes non sono altro che message boards, con cui condividono in massima il funzionamento, posizionate su nodi wireless, aperte al pubblico ma raggiungibili solo attraverso un segnale attivo entro poco meno di cento metri. I messaggi rimangono delimitati dentro il network locale, e accessibili da dispositivi collegati entro lo stesso range; l’unica possibilità di contatto con l’esterno è rappresentata dal raggiungimento di Neighbornodes contigui, così che il fluire del linguaggio trovi delle barriere produttive rappresentate da strade, palazzi, arredamento urbano, ma che abbia allo stesso tempo la possibilità di una graduale e infinita espansione. In questo modo le parole e gli scambi custoditi all’interno dei nodi assumono una valenza, quantomeno, di affermazione comunitaria, testimoniando le scelte dialogiche e le sfumature lessicali tra un quartiere e l’altro secondo linee di convergenza dettate dall’impianto elettromagnetico.
Nel 2005 le vicende sembreranno già mature quando a interessarsi di pratiche creative locative saranno una grande azienda, la Siemens, unitamente al Futurelab dell’Ars Electronica di Linz, istituzione europea dell’arte digitale: il progetto nato da questa collaborazione, Digital Graffiti, non aggiunge in definitiva niente di diverso rispetto ad altre sperimentazioni: SMS verso coordinate geografiche, a loro volta recuperabili da chi, iscritto al servizio, entra nel raggio di collocazione. Tuttavia Digital Graffiti sottolinea con forza due direzioni, una poetica, e cioè l’interesse di una contaminazione verbale, di digeribilità comunicativa, laddove prima la sfera informatica poteva comunicare solo la stringa di cifre delle coordinate latitudinali e longitudinali; l’altra di natura commerciale, in cui la Siemens intravedrà possibilità per servizi turistici e di advertising mirato sulla posizione. L’unione di queste due declinazioni sembra già tracciare, in maniera del tutto evidente, la futuribilità di applicazioni locative-based, come what3words, che abbiano scelto, come veicolo del proprio impianto business, l’istintività del linguaggio umano.
Come il nome Digital Graffiti conferma, molti degli artisti e dei ricercatori impegnati hanno evocato, per corroborare una certa eredità visuale, una continuità col graffitismo, inteso come sistema personale di segni di riconoscimento, (iper)testuale e di intervento urbano: e d’altra parte, saltando al nostro tema, le tre parole con cui what3words identifica i propri spot non sono forse anch’esse parte di una tradizione simile? Non rappresentano anch’esse la minima alfabetizzazione del gesto, la monade di un vocabolario con cui imprimere il passaggio o la presenza?
Effettivamente, più che la portata anti-autoritaria, di opposizione al corporativismo, i nuovi media locativi imparano dai graffiti metodologie di pensiero urbano, socialità e interfacce testuali, ma anche, come accennato, una scorciatoia per entrare nel mondo dell’arte, da una porta che comunque ne delinea caratteri di anti-istituzionalità. Il gesto segnico assume una nuova strutturazione, più verticale, meno istintiva, basata su una strumentazione che può apparire illogica dalla prospettiva primordiale del graffito, ma le azioni di decodifica e territorializzazione collettiva sembrano permanere anche in era digitale, scalando livelli di manualità tecnologica. Come afferma Baudrillard:
The graffitists themselves come from the territorial order. They territorialize decoded urban spaces -– a particular street, wall or district comes to life through them, becoming a collective territory again. [25]
John Geraci con Grafedia – realizzato nel 2005 come uno dei suoi ultimi lavori presso l’ITP – tenta quantomeno di dare corpo a un appiglio fisico, di testualità effettiva, ai tag digitali: l’idea è quella di scrivere a mano sulle superfici urbane dei veri e propri hyperlink, composti da una singola parola e seguiti da @grafedia. Inviando un messaggio all’indirizzo completo, simulando concettualmente il click sul browser, si riveleranno dunque i media associati alla parola. Il sito di lancio dell’operazione parla dichiaratamente di “street art”:
You can make street art with Grafedia, or just leave behind simple calling cards for others wherever you go. You can have running dialogues between authors, or create interactive narratives or poetry in public spaces. Grafedia is a boundless, interactive publishing platform, base, cheap, and easy to use. It is an open system – the places and ways to use it are limitless. With Grafedia, every surface becomes potentially a web page, and the entire physical world can be joined with the Internet. [26]
Già qualche mese prima un collettivo che comprendeva sia Tuters che Kalnins, sotto l’egida del database locativo GPSter, riportava l’attenzione su una comune linea teoretica tra il graffitismo e la nuova arte locativa con l’eloquente Geograffiti [27]: l’opera prevedeva di lasciare «location-dependent messages or media to be accessed by others not by a URL, but by the real location itself» [28]. Come in operazioni simili, i vari waypoints, vengono così corredati di contenuti dipendenti da quella precisa posizione, attraverso una libera narrazione da parte dell’utenza. Il tutto inscritto in una rete relazionale che comportava l’utilizzo di dispositivi mobili, di un GPS e di un website per l’immagazzinamento dei dati. Curiosamente nel corso degli anni diverse applicazioni commerciali hanno usato il nome Geograffiti, confrontandosi con applicazioni simili, come la quasi omonima Graffitio [29]. Attualmente un’ulteriore app con lo stesso nome è in fase beta di pre-lancio; e benché l’originale paternità non sia dietro al progetto, le funzionalità dell’applicazione sono praticamente identiche, aggiornate con colori e grafiche accattivanti per adattarsi ai gusti degli avventori dei vari app store di Apple e Google. Questo, al netto di un’eventuale illegittimità, è ad ogni modo indicativo di un’appetibilità da parte del mercato, sulla scorta delle tendenze di lifelogging e condivisione, di pratiche locative che incidentalmente affondano le proprie radici in questa storia di piccole affermazioni artistiche. E se pure ancora molto può essere detto sul mondo dei locative media e sulla loro commerciabilità, in special modo rimanendo in un’area tra l’esplorazione e il gioco di vaga discendenza situazionista, dagli abbonamenti premium di Geocaching al capitale di microtransazioni di Pokémon GO, passando per suoi diretti predecessori come Botfighters e Mogi, ci siamo concentrati sul ruolo della parola, delle sue capacità di allargamento sensoriale, e di come essa si sia ritrovata al centro di una linea di ricerca artistica che per certi versi, in uno stretto giro di anni, ha anticipato le nuove applicazioni locative, di cui il caso what3words rappresenta un estremo ed eccezionalmente eloquente esempio [30].

Digital Graffiti (www.siemens.com)
Il rischio di una così feroce corsa alla mappatura dei territori, dei corpi e delle informazioni, e di una traduzione nelle modalità comunicative più manipolabili dal linguaggio umano, è che il mondo non si allarghi, come suggerito dalle pubblicità di lancio di molti servizi, ma si restringa percettivamente. Martin Heidegger notava come l’utilizzo di massa della radio negli anni Cinquanta non avesse portato a una riduzione delle distanze tra l’ascoltatore e il broadcaster, ma solamente a un’illusione di intimità [31]. Allo stesso modo il simulacro della prossimità sviluppato dalle mappe digitali non è detto che porti necessariamente a una consapevolezza dei luoghi; semmai – come sembrano suggerire certe assuefazioni rispetto ai dispositivi mobili – a una dipendenza che sostituisce il nostro orientamento e la nostra graduale entrata nella “crisi di presenza” con una semplice applicazione per smartphone. Gli esempi sono molti, fino a preoccupanti casi di cronaca come l’italiano ucciso in una favela brasiliana per un errore del proprio navigatore, seguito troppo pedissequamente, o le numerose morti nella Death Valley californiana per lo stesso motivo [32]. E mentre nuove forme di letteratura locativa nascono, dalla locative poetry di esperimenti come Poetry 4 U [33], alle riflessioni “in punta di GPS” di libri come Dispositions di McKenzie Wark [34], altre vengono assimilate, altre ancora risputate dai procedimenti macchinici del mercato, lasciando ad ogni modo la speranza di un mondo più largo, in cui al territorio si sommi l’elasticità numerica della parola.
Note
1. Adams, T. (2018). The GPS App That Can Find Anyone Anywhere. The Guardian. https://www.theguardian.com/technology/2018/jun/23/the-gps-app-that-can-find-anyone-anywhere [back]
2. Comunemente si fa risalire la nascita del termine locative media in un ambito già artistico: suggerito da Karlis Kalnins in una serie di eventi che ebbero luogo in Lettonia nel 2003, sia online (Locative Listserv) che offline (Art+Communication Festival, Locative Media Workshop). Gran parte del dibattito si è svolto a partire dalle attività dal RIXC Centre for New Media Culture di Riga. [back]
3. Fusco, C. (2004, December 14). Questioning the Frame. Thoughts About Maps and Spatial Logic in the Global Present. In These Times. http://inthesetimes.com/article/1750 [back]
4. Holmes, B. (2004). Drifting Through the Grid: Psychogeography and Imperial Infrastructure. Springerin, (3), 4–6. https://www.springerin.at/en/2004/3/durch-das-raster-schweifen/ [back]
5. Holmes, B. (2002). The Flexible Personality. For a New Cultural Critique. Transversal, 1. http://eipcp.net/transversal/1106/holmes/en/base_edit [back]
6. de Certeau, M. (2001). L’invenzione del quotidiano. Roma: Edizioni Lavoro. [back]
7. Wilson, M. W. (2012). Location-Based Services, Conspicuous Mobility, and the Location-Aware Future. Geoforum, 43(6), 1266. [back]
8. Derrida, J. (1994). Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale. Milano: Cortina. [back]
9. Liebhold, M. (2005). The Geospatial Web: A Call to Action – What We Still Need to Build for an Insanely Cool Open Geospatial Web. O’Reilly Network. http://www.oreillynet.com/pub/a/network/2005/05/10/geospatialweb.html [back]
10. Tuters, M., & Varnelis, K. (2006). Beyond Locative Media: Giving Shape to the Internet of Things. Leonardo, 39(4), 357–363. [back]
11. Quell’anno Wilfried HuJeBek, sotto lo pseudonimo socialfiction.org, vincerà il prestigioso “Software Award” con l’opera di discendenza psicogeografica dot.walk. [back]
12. Anche se Tuters e Varnelis non ne fanno esplicitamente riferimento, è importante almeno citare la figura di James Spohrer, attuale direttore del dipartimento di “tecnologie cognitive” di IBM, che tra i primissimi, già nel 1996 col progetto World-Board, ha teorizzato la possibilità di sovrapporre una griglia di informazioni digitali agli spazi fisici. Spohrer individuerà tre modalità di intervento – che anticiperanno le più tarde pratiche locative: occhiali in grado di produrre realtà aumentata, device portatili e proiezioni dirette sull’ambiente. Spohrer, J. C. (1999). Information in Places. IBM Systems Journal, 38(4), 602–628. [back]
13. A proposito della figura del flâneur, Robert Luke ne propone il passaggio a uno stadio tecnologicamente avanzato, dipendente dai dispositivi mobili, che chiamerà phoneur. Luke, R. (2006). The Phoneur: Mobile Commerce and the Digital Pedagogies of the Wireless Web. In P. Trifonas (Ed.), Communities of Difference: Culture, Language, Technology (pp. 186–204). London: Palgrave Macmillan. [back]
14. Commenta Karen O’Rourke, tra gli altri: «[…] None of these works really diverts or hijack anything». O’Rourke, K. (2013). Walking and Mapping: Artists as Cartographers. Cambridge: The MIT Press. [back]
15. Con “subveglianza”, termine introdotto da Steve Mann già dal 1998, si intendono tutte quelle pratiche di rovesciamento del concetto di sorveglianza, inteso come occhio che scruta dall’alto verso il basso. Dispositivi portatili e indossabili, con le loro facoltà di visione e tracciamento, affidano l’osservazione alla massa degli utenti, secondo una logica bottom-up. Per Mann la subveglianza è una forma di “riflessionismo”, cioè apre alle possibilità di confrontarsi e specchiare le istituzioni burocratiche del controllo. Attraverso il disvelamento dal basso delle strutture panottiche, e grazie alla tecnologia, si tenta così di ristabilire un diritto all’osservazione depurato dai privilegi conferiti dal potere costituito. Mann, S., Nolan, J., & Wellman, B. (2003). Sousveillance: Inventing and Using Wearable Computing Devices for Data Collection in Surveillance Environments. Surveillance and Society, 1(3), 331–355. [back]
16. Chesher, C. (2012). Navigating Sociotechnical Spaces: Comparing Computer Games and Sat Navs as Digital Spatial Media. Convergence, 18(3), 315–330. [back]
17. Manovich, L. (2006). The Poetics of Augmented Space. Visual Communication, 5(2), 219–240. [back]
18. Kitchin, R., & Dodge, M. (2011). Code/Space: Software and Everyday Life. Cambridge: The MIT Press. [back]
19. Tuters, M., & Varnelis, K. (2006). Beyond Locative Media: Giving Shape to the Internet of Things. Leonardo, 39(4), 359. [back]
20. L’inglese Heath Bunting, uno dei nomi più noti della prima generazione di netartisti, sarà anche tra i primi a sperimentare il passaggio alla dimensione pubblica dei locative media. Con BorderXing, opera performativa commissionata dalla Tate Modern nel 2002, metterà in discussione l’importanza delle frontiere: attraverso un sito accessibile solo da specifici luoghi del pianeta documenterà le sue strategie di attraversamento illegale di una ventina di confini internazionali. [back]
21. WikiMe da l’opportunità di cercare articoli Wikipedia geolocalizzati attorno alla propria posizione, tramite GPS o codice postale. [back]
22. Nato sulla scorta di un altro progetto, Mobile Bristol (2002), MScape si propone come una piattaforma flessibile sul quale produrre giochi locative-based in cui la posizione GPS rappresenta una parte fondamentale del gameplay. [back]
23. In assoluto il primo telefono cellulare GSM a integrare un sistema di navigazione GPS a 12 canali fu l’Esc, lanciato tra il 1998 e il 1999 dalla società finlandese Benefon. [back]
24. Il termine, tradotto in italiano come glocalismo o glocalizzazione, nasce negli anni Ottanta in Giappone, ripreso poi dalla cultura anglosassone grazie ad autori come Robert Robertson e Zygmunt Bauman. [back]
25. Baudrillard, J. (1993). Symbolic Exchange and Death. Theory, Culture & Society, 26. Citato in Paterson, A. (2003). Re-Appropriating Urban Space: Confessions of a Potential Mobile-Graffiti Artist. Helsinki: Media Lab Helsinki. http://www.mlab.uiah.fi/~apaterso/texts/apaterson_reappropriatingspace_2003.pdf [back]
26. Sterling, B. (2007). What is Grafedia? Wired. https://www.wired.com/2007/03/grafedia/ [back]
27. Una prima versione dell’applicativo sarà presentata già nel 2002 da Karlis Kalnins: http://web.archive.org/web/20040303213812/http://www.gpster.net/whitepaper.html [back]
28. Tuters, M. (2004) Geograffiti, http://www.gpster.net/geograffiti.html [back]
29. Applicazione location-based per iPhone che permetteva di postare commenti su “muri virtuali” creati dagli utenti. [back]
30. L’aspetto della giocabilità di what3words non è da trascurare, e spesso, anche in Italia, si è tentato un approccio ludico e combinatorio alle tre parole. Nel 2016 Massimiliano Lancellotti e Antonella Sbrilli hanno proposto, con successo, il gioco cooperativo Geografie di letterature potenziali: «Una volta andati sul sito what3words.com e scelta la lingua preferita, cliccare su Esplora la mappa. Spostarsi sulla mappa, cercando e trascrivendo le terne di parole che individuano i propri luoghi, casa, lavoro, amici, mete di viaggio, ma anche i dintorni dei posti che frequentiamo, perché a pochi metri ci può essere una combinazione suggestiva. Costruire brevi storie o composizioni con le terne di arrivo e partenza di un percorso». Lancellotti, M., & Sbrilli, A. (2016, 2 gennaio). In tre parole: siamo qui, ora. Pagina99. L’invito all’interno della rubrica Alfagiochi di Alfabeta2 segue regole simili, catapultate nell’obbligatorietà di orientarsi durante gli spostamenti estivi e vacanzieri. Sbrilli, A. (2018, 29 luglio). ///pesi.borsone.sabbie. Alfabeta2, https://www.alfabeta2.it/2018/07/29/alfagiochi-pesi-borsone-sabbie/. Edoardo Camurri e Paolo Albani hanno affiancato what3words e letteratura sperimentale al Giro d’Italia, prendendo spunto dal tragitto di una breve tappa del Giro sull’Alpe di Suse per poetizzarne gli spostamenti dei ciclisti. Camurri, E., & Albani, P. (2016, 21 maggio). Viaggio nell’Italia del Giro. Rai Storia. [back]
31. Heidegger, M. (1971). Poetry, Language, Thought. New York: Harper & Row, citato in Gordon, E., & de Souza e Silva, A. (2011). Net Locality: Why Location Matters in a Networked World. Chichester: Wiley-Blackwell (p. 12). [back]
32. Il fenomeno è diventato così comune tanto da avere assunto una specifica denominazione, nelle pagine di cronaca e nei report delle forze dell’ordine: death by GPS. [back]
33. Progetto che abbina la produzione di brevi poemi a pin geografici visibili su Google Maps. Berry, M., & Goodwin, O. (2013). Poetry 4 U : Pinning Poems Under/Over/Through the Streets. New Media and Society, 15(6), 909–929. [back]
34. Wark, M. (2002). Dispositions. Cambridge: Salt. [back]
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