Al Teatrodue di Parma abbiamo avuto modo di incontrare il musicista inglese, col quale ci siamo intrattenuti parlando delle sue non frequentissime ma regolari performance solistiche e del suo rapporto con le nuove tecnologie.
Noema: Incominciamo dal tuo suono, che risalta per nitidezza e definizione. Ma in passato hai studiato musica classica?
John Surman: Ho studiato perlopiù al college tutti i tipi di clarinetti, ma non penso che la cosa mi abbia influenzato su questo aspetto specifico. Piuttosto, il suono che produco ha molto più a che fare con il suono che avevo in testa quando ero nel coro da ragazzino: ascoltavo me stesso in maniera distaccata, facendo finta di non essere io e in questa maniera riuscivo a produrre un suono che mi sembrava più pulito. E’ la stessa cosa che faccio ora.
Da mia madre ho imparato delle tecniche di respirazione diaframmatica che sicuramente si sono rivelate basilari nel mio modo di suonare. Quando faceva le sue lezioni di dizione poetica e teatrale mi portava con sé, provavo assieme agli altri ed è anche per questo che oggi posso avere un controllo accurato del suono.
Noema: Stasera ti esibirai in un concerto solista. C’è un altro grande musicista che fa regolarmente performance di questo tipo, Evan Parker. Che ne pensi del suo modo di suonare?
JS: Lo stile di Evan Parker, quello per tessuti sonori tanto per capirci, è semplicemente un altro modo di suonare rispetto al mio. Se messi a confronto, io ho una predilezione maggiore per la melodia, lui per questa stratificazione del suono la quale, benché sia oggettivamente molto interessante e innovativa, a tratti mi piace ma ad altri mi annoia.
Personalmente non mi capita spesso di fare concerti solisti, saranno più o meno una decina l’anno da vent’anni a questa parte. E’ però un contesto che apprezzo molto perché mi permette di muovermi in maniera audace con la musica e di raggiungere un contatto diretto con il pubblico.
Noema: Veniamo al tuo rapporto con le tecnologie in musica.
JS: Considero le tecnologie nel loro essere strumenti musicali, niente di più e niente di meno. Quando verso la metà degli anni Settanta vennero fuori i primi sintetizzatori rimasi subito colpito per i suoni che creavano; si modificavano con una facilità impressionante, tant’è che avevo bisogno di un paio d’ore per settarli e guai a toccarli ancora, altrimenti si scombinava tutto. Al contrario, con i programmi che girano oggi, che sono creati per far suonare le macchine sempre alla stessa maniera, i timbri sono diventati difficili da modificare. Ad essere sinceri, preferisco le macchine di allora!
Di suoni generati elettronicamente che siano belli da esplorare ce ne sono tantissimi e la qualità media migliora di continuo; mio figlio in particolare, che è il mio sound manager, è interessato a questo, passa ore e ore sugli strumenti e poi mi indica quello che devo provare. E’ lui ad aggiornarmi, il nostro è un team ben collaudato; soprattutto nell’ultimo anno io mi sono concentrato su tutt’altro, sto scrivendo musica per un’orchestra d’archi.
Noema: Puoi spiegarci cosa fai precisamente in una live performance tipo queste?
JS: Dispongo di una raccolta abbondante di tracce audio, su cd, dat eccetera; Paul, il mio tecnico del suono, seleziona le tracce e io ci improvviso sopra. Così, la situazione che si viene a creare è molto simile a quella tipica da studio quando si è in fase di registrazione. Oppure prendo una frase di cinque, dieci secondi che catturo in loop combinandola ad un delay che ne altera il registro, in modo tale che ogni volta che il frammento si ripete si venga a trovare in un’altra tonalità: le sovrapposizioni che scaturiscono sono insolite e stimolanti. La proporzione fra musica scritta e improvvisata varia molto, ma comunque la possiamo indicare in 50 e 50 per cento; tutto dipende da ciò che mi va di fare, ad esempio da come e quanto intendo usare il synth.
Biografia di John Surman
Si ringrazia la redazione della rivista online All About Jazz per la gentile concessione del testo e Natasha Castillo per l’aiuto nella traduzione.
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