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[Testo originale: Tullio Regge, Franco Torriani, “Metodi ed Emozioni”, in ArsLab. Metodi ed Emozioni, Torino, Umberto Allemandi & C., 1992, pp. 11-16, catalogo della mostra tenutasi a Torino alla Mole Antonelliana dal 19 marzo al 26 aprile 1992]
REGGE (R): Cosa vuol dire interpretazione nel mondo dell’arte?
TORRIANI (T): Quando penso all’interpretazione, penso inevitabilmente a un giudizio estetico, ma anche ad una «coerenza» che va individuata fra l’opera e la teoria che, per così dire, riflette l’opera medesima. Quindi, se da un bello si deve partire, si può ricordare col Kant della Critica del Giudizio, che «bello è ciò che piace senza concetto». Ai fini di un’interpretazione dinamica di opere in cui, fra l’altro, vi è una presenza forte di tecnologia, è proprio questa memoria kantiana che spinge ad affrontare questioni impervie di apprezzamento del bello, in sostanza di gusto. Credo che gli artisti che usano le tecnoscienze stimolino una attenta ricognizione non solo nel campo delle estetiche interpretative, ma anche in quello che racchiude, ad esempio, un progetto di estetica generativa su basi informazionali com’è quello di Max Bense. Questo autore – che per altri versi è un utopista – è interessante quando nella sua Estetica dice cose apparentemente scontate, quali «L’estetica stabilisce i principi delle opere d’arte possibili…», o laddove sostiene la tesi che «gli schemi della comunicazione estetica e quelli della comunicazione tecnica si vanno reciprocamente avvicinando».
Comunque è molto diverso analizzare un «paesaggio» o analizzare un «sistema di segni», come è successo agli inizi del Novecento, o un’opera dove c’è un’interattività forte in cui la macchina, la tecnologia, diventa un elemento costitutivo dell’opera stessa. In questo caso l’interpretazione deve necessariamente estendersi il più possibile verso un terreno che è, in qualche misura, appartenente alla disciplina tecnologica.

Piotr Kowalski, Dressage d’un cône, 1967
R: In questo procedimento c’è un elemento storico. Occorre necessariamente valutare tutta l’opera dell’artista, di tutti gli artisti che gli sono vicini, degli antecedenti, e a chi può essersi ispirato. La validità dell’opera artistica è un qualcosa che nasce anche dall’esperienza, non si può calarvisi dentro e trovare degli assiomi già fatti. E’ un’esperienza che voi critici, a forza di guardare opere, vi fate della valenza estetica di una data opera in base ad un insieme di altre opere.
T: L’interpretazione non è facilmente generalizzabile: per me è un «modo di comportamento» fortemente legato al tipo di linguaggio usato dagli artisti. So perfettamente, del resto, che questa flessibilità interpretativa cozza contro tradizioni illustri e molto radicate.
R: Se io prendo uno dei dipinti del Rinascimento e ascolto cosa affermano i miei amici storici dell’arte, costoro raramente mi dicono «è bello» o «è brutto». Sarebbe troppo scontato. Mi dicono, invece, «guarda, vedi». Primo Levi mi portò a Palazzo Barberini a Roma, dove c’era un soffitto affrescato e mi chiese: «Tullio, che cosa ci vedi di straordinario in questo soffitto?». Era una rappresentazione mitologica del cielo stellato con gli dei seduti sui pianeti. La cosa importante – mi disse – era che il sole appariva al centro, era un dipinto eliocentrico e non geocentrico. Il dipinto era stato fatto prima del processo a Galileo, quindi ha un significato storico di estrema importanza. Ma questa era un’analisi storica, il problema del «bello» non c’entrava. Fate qualcosa di simile voi, quando guardate un’opera d’arte?
T: Secondo me, la coerenza è almeno su due piani: c’è una coerenza storica, di «onda lunga», che è la seguente: da una parte devo tenere conto che, poniamo ai tempi dell’Alberti, il quadro diventa una finestra sul mondo. Se prendo molte opere delle avanguardie storiche dell’inizio del nostro secolo, il quadro diventa l’opposto di una finestra sul mondo, vale di per sé. Questo è il concetto di fondo. Se prendo alcuni computer-artisti, come si suol dire, o come si soleva dire qualche anno fa, perché ormai il termine non è più tanto di moda, si vede che il monitor è una specie di nuova finestra sul mondo, magari su un altro mondo. Questa coerenza storica, questa «informazione» su quelle che sono le tendenze del tempo e gli atteggiamenti degli artisti rispetto alla società è molto importante. Poi c’è una coerenza, una microcoerenza, se l’altra è una macrocoerenza, che è relativa alle opere stesse… Sicuramente una certa fascia generazionale, o meglio un certo insieme o sottoinsieme di artisti presenta una coerenza interna ed è proprio lì che cerco gli elementi di creatività più forti. Nella combinazione di elementi (fra cui alcuni tecnologici avanzati, come in questi lavori, visto che non cerco l’innovazione in senso tecnico, o una coerenza di ricerca scientifica come può cercare lei), individuo sintomi di creatività. Questo giudizio è violentemente soggettivo: cerco quel plus che l’artista può dare attraverso una combinazione che gli elementi da soli, uno per uno, non darebbero.

Piero della Francesca, Flagellazione di Cristo, 1453
R: Quindi c’è sempre un problema di confronto tra l’artista ed un qualcosa che è esterno all’artista, che può essere l’onda lunga, di cui si parlava prima, ma può essere anche una scuola, diciamo una micro-onda, una scuola locale con cui si confronta questo artista o, al limite, si può arrivare a confrontare l’artista con quel che faceva prima.
Per riassumere, se si viene calati in una sala e si vede un’opera di un’artista che non si è mai visto prima, mancano dei parametri, a meno che non si riconosca in quell’opera dei fattori che si sono già visti altrove. Può anche darsi che non ci siano termini di confronto e che si sia al momento incapaci di esprimere un giudizio su quello che si è visto.
T: O l’opera la si vive di «pelle», di sensi, oppure la si vive di informazione. Ma sono due vite che non si escludono necessariamente e questo vale anche per la musica. Se io le chiedo qual è la differenza tra un suono ed un rumore, lei mi dirà sicuramente che è importante vedere se siamo prima o dopo quegli anni in cui, come scrive Massimo Mila, viene esplorata la frontiera tra suono e rumore. Penso a Bartók ma anche a Mila che dice: «L’arte moderna è creazione di un pugno di uomini nati nel giro di pochi anni intorno al 1880» (Pizzetti, Bartók, Strawinski, Malipiero, per ricordarne alcuni fra i musicisti).
R: Quindi il suo lavoro, da quello che posso capire, consiste nel porre l’opera d’arte nel giusto contesto rispetto a un contorno.
T: Certo, indubbiamente sì. Lo scienziato, di fronte al fenomeno naturale, fa qualcosa di simile, e fino a che punto?
R: Sì, fa qualcosa di simile. Un fenomeno naturale viene rapportato ad altri fenomeni, e lo strumento principale è fare una teoria. Non dà un giudizio di bellezza. Certo, c’è anche un fenomeno estetico, ma di per sé questo non è il nostro scopo. Quindi bisogna fare teorie più economiche, che correlino i vari fatti naturali. La differenza sostanziale è che noi siamo in possesso di un linguaggio matematico che si usa perché il nostro contesto è molto più semplice. Noi riusciamo a fare delle teorie, ma in un dominio molto ristretto. La grande scoperta è che c’è un certo numero di fenomeni che possono essere rappresentati matematicamente. L’esperimento scientifico toglie tutte le cause di disturbo, fa un mondo artificiale in cui c’è solo quello che interessa a noi. In quel caso funziona la matematica, ma questo non è l’unico modo di vedere l’universo.
T: Negli ultimi cento o anche più anni sono convinto che affiori sovente, nel mondo artistico, una nostalgia lancinante rispetto ad una «esattezza», forse mitica, del mondo della scienza.
R: C’è la formula Aurea, il rapporto Aureo che era un primo rozzo tentativo. Prima ancora di Leonardo, Pier della Francesca ha inventato la prospettiva moderna. Per i suoi tempi era un grande matematico o un grande geometra. Nella Flagellazione del Cristo, le regole di prospettiva del loggiato sono esatte: io ho visto l’ingrandimento e gli schemi, le linee di fuga concorrono in maniera estremamente precisa. Possiamo dire che è uno dei primi artisti grafici, «da computer». Ci sono altri artisti che, secondo me, avevano anche interessi scientifici; uno che appartiene un pochino di più a questa classe è Escher.

Maurits Cornelis Escher, Relativity, 1953
T: C’è differenza fra la creatività scientifica e quella artistica? Cos’è la creatività per uno scienziato?
R: Prenderò un dominio intermedio che è comprensibile a tutti: l’esercizio della medicina. Molti pensano, siccome nella scienza ci sono delle prassi codificate di metodi, calcoli, formule, che la scienza sia tutta regole. Purtroppo è una diceria falsa, messa in giro soprattutto da scienziati ancora sotto l’influsso del positivismo. Ci sono davvero delle prassi, un po’ come in ospedale si fanno le analisi del sangue, ma ciò non vuol dire che le analisi soppiantino completamente la diagnosi. Per niente. A quel punto arriva il dottore, in quel momento interviene la sua creatività. Certe volte ci sono situazioni apparentemente incomprensibili, ma se il clinico ha fiuto riesce a dirimere la questione. Dunque si tratta di un sistema che ha infinite varianti che vengono fortemente ridotte dalla diagnosi. La scienza è così: ci sono infinite varianti che però vengono fortemente ridotte da una parte diagnostica a cui noi stiamo operando.
T: Proprio partendo dalla convergenza fra gli schemi di comunicazione estetica e quelli di comunicazione tecnica di cui parlavamo prima, si può ripensare il rapporto fra la creatività artistica e quella scientifica. Sono fra coloro che le ritengono in avvicinamento, o in riavvicinamento, se ci muoviamo in una prospettiva storica plurisecolare! Qui gioca un ruolo fondamentale il processo di dematerializzazione/rimaterializzazione che permea le società postindustriali, caratterizzate e condizionate dai mass-media e dalle tecniche di comunicazione. Non basta più, a questo punto, l’analisi della immaterialità che ci deriva dai teorici della postmodernità e, fra l’altro, mi pare che siamo ormai assuefatti a quella che Frank Popper individua come una tendenza verso l’immaterializzazione alla quale dovrebbe rispondere – ma non mi sembra che sia così – una diversa sensibilità percettiva del mondo. Lo scenario ibrido, materiale e immateriale, su cui si colloca la creatività comunque intesa, è quello in cui davvero gli spazi virtuali sono covarianti con quelli reali. L’immaterialità attraversa, dunque, la realtà contribuendo a costituirla. La creatività odierna, quella artistica senz’altro, non può ignorare questo spazio urbano nuovo.

Il fullerene
R: Quindi possiamo anche aggiungere che non c’è soltanto l’opera d’arte, ma anche ciò che si dice sull’opera d’arte. C’è un messaggio esplicito e c’è un messaggio implicito. Così come nella scienza la teoria è un discorso immateriale su fenomeni materiali, con una continua interazione tra l’una e gli altri… Un po’ come negli exhibits di ArsLab c’è l’oggetto materiale e c’è il suo significato immateriale, un significato che può essere sia artistico sia scientifico.
Nella scienza c’è un esempio di recente creatività: la scoperta del fullerene. E’ una molecola di 60 atomi di carbonio a forma di pallone da calcio. Il fullerene è puro carbonio, ma non è né grafite, né diamante, è una forma allotropica. Adesso lo utilizzano per fare delle vernici super-conduttrici. Il fullerene lo hanno scoperto nel nerofumo delle candele, c’è sempre stato, il difficile era sospettare che ci fosse. C’è stata la creatività nel vedere qualcosa che non si sospettava prima. Un altro caso del genere è quando si è trovato l’RNA ricombinante, la trasmissione di informazione genica in senso inverso. Questi fatti fanno riflettere su un sapere che pareva consolidato con determinate caratteristiche. Queste novità ci forzano a riflettere su tutto il resto, a rimettere tutto in discussione.
T: Nel caso della mostra ArsLab ci troviamo di fronte a oggetti a due facce: si può vedere il fenomeno fisico didatticamente esemplificato, o una forma che mi dà un’emozione come fosse un quadro o una scultura. Ma prima di chiederle se lei vede un nesso tra razionalità scientifica ed espressività emozionale dell’arte (credo lei sia d’accordo che, in presenza di certi stimoli, la reazione psicofisiologica, «emotiva», ricorda un allarme…), vorrei tornare all’estetica. Come si ricava da Foucault l’estetica finisce per essere un ulteriore campo di riflessione. Quando rifletto, a mia volta, sul rapporto fra arti e tecnoscienze, almeno un termine del rapporto mi rimanda al Foucault di Les mots et les choses, dove metodi e sistemi non sono che le due maniere per definire le identità attraverso il sistema reticolare generale delle differenze. Ma va anche tenuta presente quella «riflessione filosofica» che Foucault sviluppa come un pensiero del Même.

Ned Kahn, Chaotic Pendulum, 1990
R: L’emozione è proprio ciò che conduce alla curiosità scientifica. Queste sono opere ibride. L’opera d’arte, mi ricollego a quanto si diceva su Foucault, dà luogo a riflessione ed è anche una riflessione di tipo scientifico, perché se inizialmente poteva essere mistica, estetica o naturale, include adesso anche una componente scientifica nel caso di ArsLab, proprio perché c’è un contenuto d’informazione di tipo scientifico, può esserci un valore estetico. In realtà la scienza possiede anche un fattore estetico. Se io trovassi «brutta» o «noiosa» la ricerca, non riuscirei a farla. La molla che mi spinge è che mi piace vedere queste cose. In ArsLab l’estetica svolge un’azione mediatrice che porta la scienza a contatto con l’utente. Ad esempio, davanti al pendolo caotico [Ned Kahn, Chaotic Pendulum, 1990] il visitatore si chiede che cosa ci sia dietro. I movimenti del pendolo ricordano il problema astrofisico dei tre corpi: due corpi si muovono seguendo delle ellissi normali, ma se poniamo sull’asse dell’ellisse verticale un terzo corpo, il movimento diventa completamente imprevedibile.
T: C’è un’altra peculiarità che accomuna i due mondi di ArsLab: l’interattività. L’opera d’arte veniva intesa come possibilità di contemplarla e non poteva essere agita dal fruitore. La stessa cosa vale per la scienza e la divulgazione scientifica. Una volta c’erano nei musei scientifici degli oggetti che non si potevano toccare, mentre adesso si devono agire, è obbligatorio toccarli.
R: Questa è la grande trovata di Frank Oppenheimer.

Ned Kahn, Tornado, 1990
T: Bense diceva che i processi fisici si evolvono attraverso l’entropia, quelli artistici con un aumento dell’informazione. Io credo che si possa accettare questa impostazione. Il problema è caso mai dove porta questa informazione. Qualunque opera d’arte con qualsiasi tipo di elementi sia costruita, la si può abbordare da più parti. Io posso avvicinarmi a un’opera più o meno tecnologica o convenzionale e cercare in essa degli elementi di informazione. Ma l’opera d’arte sul piano funzionale è «inutile»: è utile solo a se stessa. La tecnologia applicata all’opera d’arte non è in funzione di qualcosa di pratico (anzi, la tecnologia «perde quota» rispetto al suo utilizzo canonico), ma permette l’esistenza stessa dell’opera. In questo senso c’è una grossa differenza fra l’impiego della tecnologia per un fine produttivo e l’uso fine a se stesso che rivela l’opera d’arte. Era ciò che stava dietro alle cosiddette macchine celibi quando si constatò, ad un certo punto della storia dell’arte, che le opere d’arte non potevano che essere celibi. La convenzione che sta alla base di ciò che si definisce arte è oggi messa in discussione: questa crisi dei fondamenti che si riscontra nell’arte, delle certezze, dei valori riconosciuti, si può ritrovare anche nella scienza?
R: Sì, non esistono i fondamenti della scienza, ma esiste solo una coerenza interna del sistema. E’ come un satellite, in cui le parti interne sono avvitate abbastanza bene e tengono ma, procedendo verso l’esterno, il satellite diventa sempre meno solido e troviamo dei pezzi che pendono all’infuori, altri che si agitano, ed altri ancora che attendono d’essere fermati e avvitati in loco. Questo stato di sistemazione provvisoria della scienza in realtà è lo stato normale. Non ci sarà mai una sistemazione definitiva ed è bene che sia così. In fondo è anche più divertente.

Tullio Regge (a destra) e Franco Torriani / Tullio Regge (à droite) et Franco Torriani
[Tullio Regge, Franco Torriani, “Méthodes et émotions”, dans ARS TECHNICA – Le Journal, n. 6, Paris, Édité par l’Association Ars Technica, Printemps 1992, pp. 1-3. Ce texte ouvre le catalogue de l’exposition ArsLab (Turin, Mars-Avril 1992)]
Regge (R): Que signifie l’interprétation dans le monde de l’art?
Torriani (T): Quand je pense à l’interprétation, je pense inévitablement à un jugement esthétique, mais aussi à une «cohérence» localisée entre l’œuvre et la théorie qui, si l’on peut dire, reflète l’œuvre même. Donc, si l’on doit partir du beau, on peut se rappeler avec Kant, dans sa Critique de la faculté de juger, que «le beau est ce qui plaît sans concept». C’est justement cette mémoire kantienne qui pousse à aborder des questions inaccessibles d’appréciation du beau, au sens du goût, dans le but d’une interprétation dynamique des œuvres, dans lesquelles, entre autres, il y a une forte présence de technologie. Je crois que les artistes qui utilisent les technosciences attendent une reconnaissance particulière dans le champ de l’esthétique interpretative, mais aussi dans celui qui contient, par exemple, un projet d’esthétique générative fondé sur des bases informationnelles comme celui de Max Bense. Cet auteur – qui par d’autres côtés est un utopiste – est intéressant quand il dit, dans son Esthétique, des choses apparemment évidentes telles que: «l’esthétique établit les principes des œuvres d’art possibles», ou bien quand il soutient la thèse que «les schémas de la communication esthétique et ceux de la communication technique sont en train de se rapprocher réciproquement».
De toute façon, il est très différent d’analyser un «paysage» ou un système de signes, comme c’est arrivé au début du siècle, ou encore une œuvre à forte interactivité dans laquelle la machine, la technologie devient un des éléments constitutifs de l’œuvre elle- même. Dans ce cas, l’interprétation doit nécessairement s’étendre le plus possible sur un terrain qui, en quelque sorte, appartient à la discipline technologique.

Piotr Kowalski, Dressage d’un cône, 1967
R: Dans ce processus il existe un élément historique. Il faut nécessairement évaluer l’œuvre entière de l’artiste, de tous les artistes qui lui sont proches, des précédents, et de tous ceux dont il a pu s’inspirer. La validité de l’œuvre artistique est une chose qui naît aussi de l’expérience, on ne peut pas y pénétrer et trouver des axiomes déjà établis. C’est une expérience que vous, critiques, à force de regarder des œuvres, faites de la valeur esthétique d’une œuvre donnée sur la base d’un ensemble d’autres œuvres.
T: L’interprétation n’est pas facilement généralisable: pour moi, c’est un «mode de comportement» étroitement lié au type de langage utilisé par les artistes. Je sais parfaitement, du reste, que cette flexibilité interprétative heurte des traditions illustres et radicales.
R: Si je prends un tableau de la Renaissance et si j’écoute ce qu’affirment mes amis historiens de l’art, ils me disent rarement «c’est beau» ou «c’est laid». Ce serait trop simple. Ils me disent à l’inverse, «observe, regarde». Un jour Primo Levi m’emmena à Rome, au palais Barberini, dont le plafond est recouvert de fresques et me demanda: «Tullio, qu’est-ce que tu trouves d’extraordinaire dans ce plafond?». C’était une représentation mythologique du ciel étoilé avec des dieux assis sur les planètes. La chose importante – me dit-il – était que le soleil apparaissait au centre; c’était une peinture héliocentrique et non géocentrique. Le tableau avait été fait avant le procès de Galilée et il possède donc une signification historique d’une extrême importance. Mais c’était une analyse historique, il n’était pas question du beau. Faites-vous quelque chose de similaire, vous, quand vous regardez une œuvre d’art?
T: Selon moi la cohérence de situe au moins sur deux niveaux: il existe une cohérence historique à «onde longue» qui peut se définir comme suit: d’un côté je dois tenir compte du fait que, par exemple au temps d’Alberti, le tableau devient une fenêtre sur le monde. Si je prends beaucoup d’œuvres des avant-gardes historiques du début du siècle, le tableau devient l’opposé d’une fenêtre sur le monde, ayant une valeur en lui-même. C’est le concept de fond. Si je prends des «artistes de l’ordinateur» comme on dit, ou plutôt comme on disait il y a quelques années parce que désormais le terme n’est plus à la mode, on voit que le moniteur est une sorte de nouvelle fenêtre sur le monde, et même sur un autre monde. Cette cohérence historique, cette «information» sur les tendances du temps et sur les attitudes des artistes par rapport à la société est très importante.
Ensuite, si la précédente est une macro-cohérence, il existe une micro-cohérence relative aux œuvres elles-mêmes… Sûrement, une certaine tranche de générations, ou mieux, un certain ensemble ou sous-ensemble d’artistes présente une cohérence interne, et c’est précisément là que je cherche les éléments de créativité les plus forts. C’est dans la combinaison d’éléments que je place les symptômes de créativité (parmi lesquels il y en a de technologiquement avancés, comme dans ces travaux, car je ne cherche pas l’innovation au sens technique, ni une cohérence scientifique comme vous le faites). Ce jugement est violemment subjectif: je cherche le plus que l’artiste peut donner à travers une combinaison que les éléments seuls, pris un à un, ne donneraient pas.

Piero della Francesca, Flagellazione di Cristo, 1453
R: Donc, il y a un problème de confrontation entre l’artiste et un quelque chose qui est externe à l’artiste; ce quelque chose peut être l’onde longue dont on parlait plus haut mais aussi une école, disons une micro-onde, une école locale avec laquelle se confronte cet artiste; ou bien, à la limite, on peut arriver à confronter l’artiste avec ce qu’il faisait auparavant. Pour résumer, si l’on est mis dans un lieu où l’on voit l’œuvre d’un artiste qu’on n’a jamais vue auparavant, les paramètres font défaut, à moins qu’on ne reconnaisse dans cette œuvre des facteurs déjà vus ailleurs. Il se peut aussi qu’il n’existe pas de termes de comparaison et qu’à ce moment-là on soit incapable d’exprimer un jugement sur ce qu’on a vu.
T: Ou bien un œuvre est vécue par la «peau», par les sens, ou bien elle est vécue par l’information. Mais ce sont deux vies qui ne s’excluent pas nécessairement et cela vaut aussi pour la musique. Si je vous demande qu’elle est la différence entre un son et un bruit, vous me répondrez qu’il est important de voir si nous nous trouvons avant ou après l’époque où, comme l’écrit Massimo Mila, a été explorée la frontière entre son et bruit. Je pense à Bartók, mais aussi à Mila qui affirme: «L’art moderne a été créé par une poignée d’hommes nés aux alentours de 1880» (Pizzetti, Bartók, Stravinski, Malipiero… pour s’en tenir aux musiciens).
R: Votre travail, si je comprends bien, consiste à poser l’œuvre d’art dans le contexte approprié par rapport à un environnement.
T: Tout à fait. Le savant, face au phénomène naturel, agit-il de la même façon et jusqu’où?
R: Oui, il agit de même. Un phénomène naturel est mis en rapport avec d’autres phénomènes et, pour ce faire, le principal instrument est une théorie. Il ne donne pas un jugement de beauté. Certes, il existe aussi un phénomène esthétique, mais là n’est pas notre but. Donc il faut faire les théories les plus économiques qui mettent en relation les divers faits naturels. La différence substantielle réside dans le fait que nous possédons un langage mathématique approprié à notre contexte qui est plus simple. Nous parvenons à faire des théories, mais dans un domaine restreint. La grande découverte de la science est qu’un certain nombre de phénomènes peuvent être représentés mathématiquement. L’expérimentation scientifique élimine toute cause de gêne, elle crée un monde artificiel où se trouve exclusivement ce qui nous intéresse.
C’est dans ce cas que fonctionne la mathématique, mais cela n’est pas la seule façon de voir l’univers.
T: Je pense que dans ces cent dernières années et davantage, émerge souvent, dans le monde artistique, une nostalgie lancinante par rapport à une «exactitude», peut-être mythique, du monde scientifique.
R: Il y a le nombre «d’or» qui a été une première tentative grossière. Encore avant Léonard, Piero della Francesca a inventé la perspective moderne. Pour son temps il était un grand mathématicien, un grand géomètre. Dans la Flagellation du Christ, les règles de perspective de la galerie sont exactes: j’ai vu l’agrandissement et les tracés, les lignes de fuite concourent de façon extrêmement précise. Nous pouvons dire qu’il est un des premiers «infographistes». D’autres artistes, d’après moi, ont eu aussi des intérêts scientifiques; par exemple Escher peut entrer dans cette catégorie.

Maurits Cornelis Escher, Relativity, 1953
T: Y a-t-il une différence entre créativité scientifique et artistique? Qu’est-ce-que la créativité pour un scientifique?
R: Prenons un domaine intermédiaire et compréhensible à tous: l’exercice de la médecine. Beaucoup pensent que, puisque dans la science il y a des pratiques codifiées de méthodes, calculs, formules, la science n’est que règles. Malheureusement, cette assertion est fausse et elle a été véhiculée surtout par des scientifiques restés sous l’influence du positivisme. Il y a vraiment des pratiques, comme à l’hôpital il y a les analyses sanguines, mais cela ne signifie pas que les analyses remplacent le diagnostic. Pas du tout.
A ce point intervient le médecin et sa créativité. Parfois il y a des situations apparemment incompréhensibles, mais si le clinicien a du flair il peut en venir à bout. Donc il s’agit d’un système avec une infinité de variantes qui sont fortement réduites par le diagnostic. Ainsi est la science: des variantes infinies qui sont cependant réduites par une part diagnostique à laquelle nous travaillons.
T: Si l’on part de la convergence entre les schémas de la communication esthétique et ceux de la communication technique dont nous parlions tout à l’heure, on peut repenser la relation entre la créativité artistique et la scientifique. Je suis du nombre de ceux qui les considèrent comme en train de se rapprocher – ou de se rapprocher à nouveau – si l’on se place sur une perspective historique de plusieurs siècles! Un rôle fondamental est joué ici par le processus de dématérialisation/rematérialisation qui imprègne les sociétés post-industrielles, caractérisées et conditionnées par les mass-media et par les techniques de communication.
A ce point l’analyse de l’immatérialité qui nous vient des théoriciens du post-modernisme n’est plus suffisante, nous sommes désormais accoutumés à ce que Frank Popper définit comme une tendance vers l’immatérialisation à laquelle devrait répondre – mais il me paraît que cela ne se passe pas ainsi – une sensibilité perceptive du monde différente. Le scénario hybride, matériel et immatériel, sur lequel se place la créativité ainsi entendue est celui où les espaces virtuels varient de concert avec les réels. Donc l’immatérialité traverse la réalité en contribuant à la constituer. La créativité actuelle, l’artistique en tout cas, ne peut ignorer ce nouvel espace urbain.

Le fullerène
R: Nous pouvons donc ajouter qu’il n’y a pas seulement l’œuvre d’art, mais aussi ce que l’on dit sur l’œuvre d’art. Il y a un message explicite et un message implicite. Tout comme, dans la science, la théorie est un discours immatériel sur des phénomènes matériels en interaction continue entre l’une et les autres… Un peu comme pour les pièces montrées dans ArsLab, il y a l’objet matériel et il y a sa signification immatérielle, une signification qui peut être soit artistique soit scientifique.
En matière de science, il y a un exemple récent de créativité: la découverte du Fullerène. Il s’agit d’une molécule de soixante atomes de carbone en forme de ballon de football. Le Fullerène est du carbone pur, mais ni graphite, ni diamant; c’est une forme allotropique. Maintenant il est utilisé pour faire des vernis supraconducteurs. Il a été découvert dans la fumée noire des bougies; il y a toujours été, la difficulté était de soupçonner qu’il y fût. Il y a eu créativité dans le fait de voir ce que l’on ne soupçonnait pas auparavant.
Un autre cas a été la découverte de l’ARN recombinant, la transmission d’information génétique en sens inverse. Ces faits donnent à réfléchir sur un savoir qui semblait installé sur des bases bien déterminées. Ces nouveautés nous forcent à réfléchir sur tout le reste, à tout remettre en discussion.
T: Dans le cas de l’exposition ArsLab nous sommes confrontés à des objets à deux faces: on peut y voir un phénomène physique simplifié à des fins didactiques, ou bien une forme qui émeut comme si elle était un tableau ou une sculpture. Mais avant de vous demander si vous voyez un lien entre rationalité scientifique et expression émotionnelle de l’art (je pense que vous êtes d’accord sur le fait que, en présence de certains stimuli, la réaction psycho-physiologique, «émotive», rappelle une alerte…), je voudrais revenir à l’esthétique. Comme chez Foucault, l’esthétique devient un domaine de réflexion ultérieur. Lorsque je réfléchis, à mon tour, sur la relation entre arts et technosciences, au moins un des deux termes me renvoie au Foucault des Mots et les choses, où méthodes et systèmes ne sont autre chose que les deux façons de définir les indentités à travers le système réticulé général des differences. Mais il faut aussi se souvenir de la «réflexion philosophique» que Faucault développe comme un pensée du Même.

Ned Kahn, Chaotic Pendulum, 1990
R: L’émotion est justement ce qui nous amène à la curiosité scientifique. Celles-ci (dans ArsLab) sont des œuvres hybrides. L’œuvre d’art, je reviens à ce qu’on disait sur Foucault, donne lieu à réflexion et elle est aussi une réflexion de type scientifique, car si au début elle pouvait être mystique, esthétique ou naturelle, elle inclut aussi maintenant une composante scientifique dans le cas d’ArsLab. En réalité la science contient aussi un facteur esthétique. Si je trouvais «laide» ou «ennuyeuse» la recherche, je ne pourrais pas la faire. Le ressort qui me meut est que j’aime voir ces choses. Dans ArsLab l’esthétique a une action de médiation qui met la science en contact avec le visiteur. Par exemple, devant le Pendule chaotique [Ned Kahn, Chaotic Pendulum, 1990], le visiteur se demande ce qu’il y a derrière. Les mouvements du pendule rappellent le problème astrophysique des trois corps: deux corps se meuvent en suivant des trajectoires elliptiques, mais si on place sur l’axe de l’ellipse un troisième corps, le mouvement devient complètement imprévisible.
T: Il y a une autre particularité qui réunit les deux mondes d’ArsLab: l’interactivité. L’œuvre d’art était considérée comme possibilité de contemplation et ne pouvait donner lieu à une action du spectateur. La même chose vaut pour la science et la vulgarisation scientifique. Autrefois il y avait dans les musées scientifiques des objets qu’on interdisait de toucher, tandis que maintenant on oblige à les toucher.
R: C’est justement la grande trouvaille de Frank Oppenheimer.

Ned Kahn, Tornado, 1990
T: Bense disait que les processus physiques se déroulent à travers l’entropie, tandis que les processus artistiques augmentent l’information. Je crois cette idée acceptable. Éventuellement le problème est de savoir où conduit cette information. Toute œuvre d’art, quels que soient les éléments dont elle est faite, peut s’aborder de plusieurs façon. Je peux m’approcher d’une œuvre plus ou moins technologique ou conventionnelle et chercher en elle des éléments d’information. Mais l’œuvre d’art, sur un plan fonctionnel, est «inutile»: elle est utile seulement à elle-même. La technologie appliquée à l’œuvre d’art ne l’est pas en fonction de quelque chose de pratique (au contraire, la technologie «perd de l’altitude» par rapport à son usage canonique), mais elle permet l’existence même de l’œuvre. En ce sens il y a une grande différence entre l’emploi de la technologie dans un but productif et son usage comme fin en soi que révèle l’œuvre d’art. C’est ce qu’il y avait derrière ce qu’on a nommé «les machines célibataires» quand on a constaté que les œuvres d’art ne pouvaient être que célibataires. La convention à la base de ce qui se définit comme art est aujord’hui mise en discussion: cette crise des fondements, des certitudes, des valeurs reconnues, qu’on rencontre dans l’art peut-elle se retrouver aussi dans la science?
R: Oui, les fondements de la science n’existent pas, mais il existe une cohérence interne du système. C’est comme un satellite, dans lequel les parties intérieures sont assez bien vissées et tiennent mais, en allant vers l’extérieur, le satellite devient de moins en moins solide; certaines pièces pendent à l’extérieur, d’autres bougent et d’autres encore attendent d’être fixées et vissées. Cet état d’arrangement provisoire de la science est en réalité l’état normal. Il n’y aura jamais d’arrangement définitif et il est bon qu’il en soit ainsi. Et puis, c’est plus amusant.
[Traduit de l’italien avec l’aide précieuse d’Antonia Bacchetti, Stefania Batino et Émilie Bravo]
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