English abstract
Lots of words have been said and written about Greta Thunberg, her activity has been exalted, analyzed, criticized, she has been even insulted and threatened. It is extraordinary how this sixteen year old girl starting from a single protest has involved a global movement of tens of millions of people around the world. She has been invited to the most important worldwide forums, from the European Community to the United Nations, and she has been even considered as a possible candidate for the Nobel Peace Prize. Her parable is an interesting case study in the communication and media realms, but it also provides an opportunity to reflect on human responsibilities, on the present and the future of our species. It deserves some further considerations.
La versione inglese di questo saggio è qui / The English version of this essay is here.
Greta è solo un messaggero. Non sparare al messaggero. Non importa quello che tu o io pensiamo di lei. Ciò che conta è che smettiamo di perdere tempo. Dobbiamo agire ora. [1]
Il futuro non bisogna prevederlo, ma consentirlo. [2]
Si è detto e scritto molto sul conto di Greta Thunberg, quello che ha fatto è stato esaltato, analizzato, criticato, fino a diventare oggetto di insulti e minacce. È straordinario come questa ragazza sedicenne da una presa di posizione individuale sia riuscita a coinvolgere un movimento globale di decine di milioni di persone in tutto il mondo, a essere invitata nei più importanti consessi internazionali, dalla Comunità Europea alle Nazioni Unite, a figurare addirittura tra i candidati del Nobel per la Pace [3]. La sua parabola costituisce un oggetto di studio interessante dal punto di vista della comunicazione e dei media, ma fornisce anche l’occasione per soffermarsi sulle responsabilità umane, sul presente e sul futuro della nostra specie. Vale dunque la pena di compiere qualche ulteriore riflessione.

Courtesy: Berkeley Earth, http://berkeleyearth.org/wp-content/uploads/2019/01/GlobalAverage_2018.png
1. Il “messaggio” di Greta
Il messaggio di Greta Thunberg è semplice, chiaro, diretto, talvolta anche arrabbiato, come nel suo intervento alla Nazioni Unite, può essere compreso da tutti. Dal punto di vista dei contenuti, rivolgendosi ai potenti della politica e dell’economia, citando dati scientifici Greta insiste soprattutto sull’obiettivo “emissioni zero” [4], il che è fondamentale. Tuttavia, da qualche anno vari studi hanno mostrato che “emissioni zero” non basta per “mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2 °C al di sopra dei livelli preindustriali e proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C al di sopra dei livelli preindustriali”, limiti fissati dagli accordi di Parigi del 2015 [5] e recentemente ribaditi dallo Special Report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici [6]. È necessario produrre emissioni negative di CO2, cioè rimuovere anidride carbonica dall’atmosfera, il che è più complicato [7].
Anche se è la prima volta che l’umanità fronteggia una crisi planetaria che lei stessa ha pesantemente contribuito a creare [8], in linea generale non si tratta di problematiche nuove: da sempre l’umanità utilizza le discipline scientifiche e le tecnologie per rimediare a situazioni in cui si è più o meno volontariamente o inevitabilmente trovata, gli esempi più evidenti sono sull’azione della selezione naturale tramite le scienze mediche e, più di recente, la genetica. La sottrazione di CO2 dall’atmosfera si può fare in vari modi [9], tra cui in maniera naturale tramite la silvicoltura, mediante riforestazione e afforestazione, cioè sostanzialmente piantando alberi in maniera mirata [10] e salvaguardando le foreste [11]: un percorso che diverse nazioni hanno intrapreso [12]. E in agricoltura mediante uso di biochar, riduzione nell’impiego di fertilizzanti, agricoltura conservativa, ecc.
Esistono inoltre varie altre proposte di geoengineering dell’atmosfera per abbassare la temperatura riflettendo parte della luce del Sole [13], le cui conseguenze a lungo termine sono difficilmente prevedibili. Nonostante l’ingegneria della natura sia profondamente intrecciata con la storia dell’umanità, talvolta potrebbe persino costituire un rimedio peggiore del male. E comunque non sappiamo se sarebbe sufficiente a evitare una profonda modificazione degli ecosistemi terrestri e le conseguenti ricadute sulle società umane. Tra gli esperti quello che emerge è un pessimismo diffuso e, oltre alle azioni di contrasto al Climate Change, si inizia a parlare di adattarvisi [14], con tutte le problematiche – ambientali, sociali, economiche, politiche… – che questo comporta.

Timothy M. Lenton et al., “Tipping elements in the Earth’s climate system”, Proceedings of the National Academy of the Sciences, Febbraio 2008
2. “Lo dice la scienza”
Le affermazioni di Greta e quelle dei suoi seguaci sono dichiaratamente basate sulla scienza. La scienza costituisce un punto sicuro di partenza, di cui fidarsi, il che, in un’epoca di fake news, scie chimiche, no vax, terrapiattisti, negazionisti dell’evoluzione…, va certamente in controtendenza. Greta cita dati scientifici ma fare scienza non è suo compito e le viene spesso rimproverato di non essere uno scienziato, come se solo una certa casta avesse il diritto di parlare di questi argomenti e di farsi ascoltare. In realtà questa “casta” ha provato a comunicare le problematiche delle trasformazioni antropogeniche del nostro pianeta per quanto riguarda il clima: fin dagli anni ’70 del ’900 sono stati pubblicati saggi, ricerche, studi, articoli, libri più o meno divulgativi. I risultati, tuttavia, dal punto di vista della comunicazione, dell’influenza sulla politica e dell’impatto sociale, sono stati abbastanza modesti al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori [15].
È proprio perché Greta non è uno scienziato che è riuscita a coinvolgere milioni di persone in tutto il mondo, a influenzare istituzioni, media, politici – a cui interessano soprattutto i numeri. Poi, come sostengono alcuni, Greta può anche rappresentare la falsa coscienza di un mondo che non vuole veramente cambiare, o l’eroina di una fase emergente dell’economia centrata sull’ecologia. Ma tra i milioni di persone che la seguono potrebbe esserci qualcuno che è davvero in grado di cambiare le cose.
3. “Greta è manovrata”
Un’altra affermazione comune è che Greta sia “pilotata” da qualche oscura mano, organizzazione, potentato – Soros è tra i nomi più gettonati. Il complottismo serve spesso a coprire qualcosa che non si conosce, che non si capisce o che non si vuole capire, che esorbita dalla normalità, e senza dubbio per molti versi Greta è una figura straordinaria. È certamente probabile che qualcuno la aiuti dal punto di vista organizzativo, logistico, nella gestione della sua attività. Tuttavia, sostenere che sia manovrata implicherebbe alle sue spalle l’azione di uno staff stellare di strateghi della comunicazione, in grado di creare dal nulla un consenso globale di milioni di persone, surclassando i pubblicitari e i politici più navigati, i media, contrastando l’azione delle lobby economiche, industriali, militari… Comunque sia, anche qui bisogna considerare il risultato: grazie a Greta decine di milioni di persone in tutto il mondo, molte delle quali probabilmente per la prima volta, si interrogano sul clima, ne discutono pubblicamente, organizzano degli eventi, sono numericamente interessanti per influenzare la politica e l’economia.
Sono uscite decine di ponderatissime pars destruens in questi mesi, intente a considerare solo il dito. Ma è chiaro che se non ci fosse stata lei l’argomento del Climate Change non sarebbe divenuto così popolare. E forse si sarebbe continuato a ignorare gli avvertimenti, come avviene da decenni, nonostante tutto quello che è stato pubblicato in campo scientifico e divulgativo [16].
4. “Stiamo distruggendo il pianeta”
Non so se Greta lo dica esplicitamente ma è una locuzione piuttosto popolare tra le persone che la seguono e nei social network, spesso compare negli striscioni e sui cartelli durante le manifestazioni, più o meno suona così: “Stiamo distruggendo il pianeta”. Tuttavia, riflettendoci sopra, non corrisponde a verità, non stiamo affatto distruggendo il pianeta: anche nel peggiore scenario distruttivo antropogenico la Terra continuerebbe tranquillamente ad esistere. E, anche se siamo in grado di modificare profondamente le condizioni che ci consentono di vivere e ci riteniamo così significativi da dare il nostro nome a un’era, l’Antropocene [17], non siamo affatto indispensabili: come alcuni hanno immaginato [18], la Terra potrebbe esistere anche senza umani, come è stato per gran parte del suo tempo, continuerebbe la sua evoluzione per qualche altro miliardo di anni, fino all’esplosione del Sole. Nel volgere di qualche secolo o millennio, un tempo insignificante rispetto alla storia del nostro pianeta, la biologia umana, i segni causati dall’azione appena millenaria di una specie, buona parte della sua cultura materiale, degli oggetti, dei dispositivi e degli artefatti sarebbero rapidamente riassorbiti dal pianeta. La Terra non verrebbe affatto distrutta dalle attività umane, si modificherebbe assestandosi su un equilibrio diverso, come del resto è già accaduto nei 4,5 miliardi di anni della sua storia. Cambierebbe il mondo così come lo conosciamo.
Quello che in realtà l’umanità sta contribuendo fortemente a distruggere non è il pianeta Terra bensì quell’insieme di situazioni ed eventi – climatici, ambientali, biologici… – che per qualche decina di migliaia di anni ha consentito alla nostra specie di evolversi, prosperare, diffondersi e divenire numericamente pervasiva, impattando in maniera rilevante sull’ambiente globale. Stiamo distruggendo quell’equilibrio che per millenni ha favorito la nostra specie, che invece deve essere preservato e deve andare bene a tutte le altre specie, deve essere imposto al pianeta. Di fatto, tutte le risorse e gli accordi sul clima mirano a conservare quell’insieme di situazioni ed eventi – climatici, ambientali, biologici… – che ci ha reso quello che siamo [19]. Dunque, dietro a un messaggio apparentemente ecologista si nasconde in realtà un’affermazione profondamente antropocentrica.
Sia chiaro: è del tutto naturale e legittimo essere preoccupati dalla prospettiva di un ridimensionamento o addirittura dalla minaccia di un’estinzione e quindi agire per evitarle, tanto più che come specie abbiamo la capacità di creare modelli, fare previsioni sul futuro e dispiegare progetti e azioni di contrasto. Tuttavia, la sopravvivenza della nostra specie andrebbe inquadrata all’interno di una prospettiva e di una riflessione più ampie e approfondite dello “stiamo distruggendo il pianeta”, in grado di riconsiderare la complessità vivente e non vivente a cui ogni specie, compresa la nostra, appartiene e non si contrappone, da cui proviene e di cui è parte. Una prospettiva in grado di relazionarsi con il “non umano” senza porsi, come avviene da secoli, in cima alla piramide del vivente.
Per ragioni biologiche, cognitive, culturali, non possiamo che essere antropocentrici, come ogni altra specie non possiamo che “venire prima” degli altri. Tuttavia, come umani siamo in grado di aprire lo sguardo sull’“altro non umano”, di approfondire le relazioni con esso, di comprenderne le esigenze, di imparare a conviverci in maniera equilibrata. Siamo in grado di misurare la nostra impronta sul pianeta e di valutarne le conseguenze. Questa consapevolezza costituisce oggi la nostra maggiore responsabilità, e porta con sé anche colpa e sofferenza. In un percorso circolare che si autoalimenta, le discipline scientifiche e le tecnologie rendono consapevoli dell’esistente e dell’impatto della specie umana su di esso, generando colpa e dolore, per evitare i quali vengono inventate e impiegate discipline scientifiche e tecnologie sempre più avanzate, che a loro volta producono ulteriore consapevolezza, e nuova colpa e dolore… E così via.

Courtesy: Global Carbon Atlas
5. Il sistema del Climate Change
Al di sopra di tutto, prima causa del Climate Change, sono la sovrastruttura economico-politica e le sue logiche di sfruttamento e profitto, l’egoismo, l’avidità. Del resto, secondo il punto di vista di alcuni tra i più importanti Homo faber contemporanei capaci di trasdurre le risorse del pianeta in ricchezza, viviamo nell’epoca migliore possibile [20]. Gran parte dell’industria, della finanza e della politica non pensa di ridurre i profitti, al contrario, vuole incrementarli, risolvendo i problemi con le tecnologie. E pur di preservare gli stili di vita e non mettere in discussione il business o pensando addirittura di accrescerlo, ci sono progetti per liberarsi dei rifiuti sparandoli nello spazio o verso il Sole, o inviandoli sulla Luna [21].
I “grandi” – i tycoons, le aziende, gli Stati – vengono criticati da Greta in base alle scelte che riguardano il clima. Ma è chiaro che il Climate Change non può essere separato da opzioni secolari di natura economica, sociale e politica operate nelle varie società umane: le “emissioni zero” non dipendono solo da un’ipotetica buona volontà dei singoli di passare, spontaneamente, globalmente e univocamente, a forme di energia, di alimentazione, di trasporto, di comunicazione, a materiali, attività e stili di vita diversi, magari preservando differenze culturali e privilegi economici. Il problema è a monte. Per fare un esempio: nel consumo di cibi e bevande il problema non è riciclare la plastica ma evitare di utilizzarla nelle confezioni. Differenziare e riciclare sono attività ragionevolmente facili, che possono persino risultare interessanti dal punto di vista economico, facendo dei rifiuti l’ennesima opportunità di business – quando proprio la ricerca del profitto è tra i maggiori responsabili della situazione in cui viviamo! Eliminare la plastica, invece, è molto più difficile perché implica problematiche di varia natura: economiche, produttive, distributive, di conservazione, normative, igieniche… E politiche, come dimostrano le polemiche in atto nel nostro Paese nel momento della stesura di questo testo.
Per cambiare veramente le cose sarebbe necessario rovesciare le scelte economiche, le ideologie del profitto, le politiche di sfruttamento, eliminare l’egoismo, l’avidità, superare l’antropocentrismo più ottuso. Bisognerebbe riconsiderare le differenze culturali, mettere in discussione tutti quegli “ismi” che oggi sono tornati a farsi insistenti. Fino a maturare un’idea realistica e non edulcorata di Natura, a sviluppare un ambientalismo scevro dal marketing, a rivedere il significato dell’umano e il suo rapporto con il non umano, a considerare l’ambiente come complessa relazione dinamica tra diversità, verso un ulteriore livello di consapevolezza dell’esistente, dell’ambiente, del vivente. Verso una sorta di nuovo “patto con la natura” [22].
È qualcosa di più articolato di quel che Greta propone. Del resto, se il suo messaggio fosse più complicato non avrebbe fatto così tanta strada. Ma Greta e il movimento che la segue stanno comunque contribuendo ad aprire un mondo nuovo, ed è interessante che questa speranza sia nata in Europa.

Courtesy: NASA – climate.nasa.gov
6. “Non c’è più tempo”
Un’altra locuzione utilizzata di frequente è: “non c’è più tempo”. In effetti rimane poco tempo: secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) nel giro dei prossimi 12 anni è fondamentale impegnarsi a fondo per non superare l’aumento di 1,5 °C, che gli scienziati considerano il limite per evitare la minaccia dei tipping points (punti di non ritorno) per i sistemi umani e non umani [23]. Nel 2013, per la prima volta dal Pliocene, cioè da 3 a 5 milioni di anni fa, la percentuale di CO2 nell’atmosfera ha superato le 400 parti per milione [24] e dal 2015 è stabilmente al di sopra di questo valore. Nel Pliocene gli umani non c’erano ancora, la Terra era più calda di circa 3-4 °C rispetto ad oggi (i poli fino a 10 °C in più) e il livello dei mari era da 5 a 40 metri più alto [25]. Stiamo rapidamente tornando alle condizioni climatiche di quel mondo, dunque se si vuole preservare la situazione che per millenni ci ha favorito bisogna agire in maniera decisa, globalmente e univocamente, verso finalità comuni e condivise che coinvolgano la politica, l’economia, fino ai comportamenti dei singoli. È necessaria una riflessione sul tempo, sulla distanza tra la caratteristica tipicamente umana di immaginare il futuro e l’urgenza di contrastare il Climate Change.
Come umani abbiamo la capacità di progettare, di immaginare la nostra vita nel futuro. Di fatto abbiamo un piede nel futuro, una parte rilevante dei nostri pensieri, delle nostre azioni, attività, idee, è rivolta al futuro. Nell’agenda segniamo i nostri impegni per il futuro, costruiamo monumenti – compresa quella particolare forma di monumento moderno che è la fotografia – per proiettare la memoria nel futuro, consultiamo le previsioni del tempo, ci sono persone che pagano maghi e astrologi per divinare il futuro. Teniamo i soldi in banca per utilizzarli in futuro e a loro volta le banche li investono nel futuro, stipuliamo assicurazioni, alcune delle quali obbligatorie, per prevenire il futuro. Si fanno scommesse, si investe denaro in borsa, si gioca d’azzardo, si acquistano beni a credito o a rate. L’attività delle imprese è pianificata nel futuro e si basa su previsioni sociali ed economiche, esistono aziende il cui unico scopo è immaginare il futuro e venderlo ad altre aziende, che lo inseriscono nei loro piani industriali. Le scuole, le attività di formazione, alcune delle quali obbligatorie, preparano le persone ad affrontare il futuro secondo le loro attitudini e aspettative. L’etimo della parola “progetto” proviene dal latino e significa “gettare al di là”: certamente al di là delle difficoltà che ogni progetto incontra per realizzarsi, ma soprattutto “al di là del tempo”. E la parola “speranza”, un costrutto tipicamente umano, non contiene forse l’auspicio di un futuro che si accordi con i nostri desideri e con le nostre aspettative?
Si potrebbe continuare a lungo perché pressoché tutta l’esistenza umana, i pensieri, i progetti, le attività quotidiane, esistono in un rapporto continuo con il futuro, sono proiettati in un tempo a venire che siamo incessantemente impegnati a prevedere, immaginare, a cercare di governare nelle sue occorrenze probabili o possibili.

Lorenzo Quinn, Supporto, installazione all’Hotel Ca’ Sagredo durante la Biennale di Venezia 2017
7. La dimensione simbolica
Mediante i simboli raccogliamo, discutiamo e condividiamo conoscenze, esperienze, valori. Grazie al simbolico la specie umana ha allontanato la pressione dell’evoluzione naturale, intervenendo a fondo sulle sue condizioni di esistenza e oggi persino sulla propria memoria genetica, quella a lunghissimo termine. Mentre l’evoluzione naturale non ha finalità, la nostra specie trabocca invece di progetti, di obiettivi, si immagina al futuro cercando di anticiparlo, di indirizzarlo, di governarlo [26].
L’evoluzione culturale rende la specie umana, l’ultimo ramo rimasto del genere Homo, un membro anomalo del pianeta, il dominatore di un’unica grande nicchia ecologica di cui sta dissipando intensivamente le risorse. Sul simbolico si fonda la straordinaria capacità cooperativa della nostra specie, la sua iperprosocialità [27], che consente a gruppi di individui non imparentati di cooperare verso un fine comune. Che la rende capace di aiutare degli sconosciuti in difficoltà ma anche di essere spietata e micidiale con chi ritiene di ostacolo, o diverso. Da un lato la dimensione simbolica è la maggiore responsabile delle straordinarie acquisizioni della nostra specie, dall’altro è causa di distanze insuperabili, di aspre divisioni, di guerre, massacri. Stemperandoli nel linguaggio, i simboli possono sia mediare nei conflitti tra gli individui e le società, sia, al contrario, infiammarli o crearli, innalzando muri, aprendo distanze, creando esclusioni, alimentando contrapposizioni. L’ipertrofia della dimensione simbolica nella sua interazione con gli ambienti ha dato origine a un enorme numero di varianti culturali: lingue, appartenenze, mitologie, religioni, credenze, valori, che costituiscono le fondamenta e l’identità di comunità e società. Delle pseudospecie [28] che perseguono finalità diverse, spesso contrastanti, che è difficile accordare su obiettivi comuni per tempi lunghi. Secondo alcuni il prezzo dell’ipertrofia simbolica, il prezzo del linguaggio, sarebbe la fine della specie umana, la sua magnificenza culturale sarebbe la causa della sua estinzione [29].
Riuscire a comporre le distanze culturali sotto una qualche forma di impegno vincolante, condiviso e duraturo sul clima appare quindi come un’operazione estremamente ardua e delicata.

Willy Verginer, The Boy and The Sea, legno di tiglio e acrilico, 2019
8. “Futuro simbolico” vs “Futuro climatico”
Esiste anche un’altra dimensione temporale da considerare: l’umanità si trova a fronteggiare una situazione di crisi climatica [30] che va al di là dell’hic et nunc o di un futuro a breve termine, di quell’abilità unica che consente di progettare, di immaginarsi in un tempo a venire, a cui sopra abbiamo accennato. Il tempo del Climate Change surclassa questo futuro simbolico, implica una dimensione temporale che va al di là delle generazioni, della vita delle persone. Richiede una programmazione e un’azione costanti, coordinate, cooperative e disinteressate, declinate in un futuro a lungo termine. Un impegno che in cambio di privazioni non produce dei vantaggi certi e a breve ma si dispiega in un orizzonte di eventi nel quale molti non ci saranno: dunque un futuro che appare lontano, distante, poco interessante. La Climate crisis impone un salto cognitivo, una riflessione sul tempo della specie e della cultura rispetto a quello dell’individuo, una visione estesa a un futuro che bisogna tentare di governare sapendo che non ne faremo parte.
Come umani siamo in grado di proiettarci in un tempo a venire che riguarda e comprende le nostre vite: lo facciamo continuamente. Invece, oltre a un deciso impegno nel presente, la sfida del cambiamento climatico impone di declinarsi al di là del tempo generazionale, in un tempo dilatato e intergenerazionale che oltrepassa il tempo biologico della vita di molti, con grande incertezza, nella complessità. Non sarà un processo indolore. È il tempo dei più giovani, di quelli che per primi hanno seguito Greta, perché sarà il loro tempo. Dispongono di poco potere per sovvertire lo status quo ma hanno tutti i numeri dalla loro parte. Incarnano la speranza, cioè il futuro, della nostra specie.
Ringrazio molto, per le osservazioni e i consigli, Alberto Abruzzese, Marco Brandizzi, Roberta Buiani, Giorgio Cipolletta, Valerio Eletti, Marco Ferrari, Marcello Gallucci, Vincenzo Guarnieri, Franco Masotti, Frank Raes, Elena Giulia Rossi, Franco Torriani e il gruppo Pi(a)neta di Cervia.
Errori e imprecisioni sono invece imputabili esclusivamente al sottoscritto.
Note
1) Katrin Juliane Meissner, “Do You Understand Climate Change?”, Facebook, 27/09/19, 21:49, online, https://www.facebook.com/katrin.j.meissner/posts/10157869991718109?__tn__=KH-R (ultimo accesso 30/09/19). Testo originale: “Greta is just a messenger. Don’t shoot the messenger. It does not matter what you or I think about her. What matters is that we stop wasting time. We need to act now”. Traduzione nostra. [back]
2) Antoine de Saint-Exupéry, Citadelle, Parigi, Gallimard, 1948, p. 167. Testo originale: “L’avenir, tu n’as point à le prévoir mais à le permettre”. Traduzione nostra. [back]
3) Rachael Bunyan, “Here Are the Favorites to Win the 2019 Nobel Peace Prize”, Time, 7/10/19, online, https://time.com/5691777/nobel-peace-prize-predictions-2019/ (ultimo accesso 15/10/19). [back]
6) Valerie Masson-Delmotte et al. (a cura di), IPCC, 2018: Global Warming of 1.5 °C. An IPCC Special Report on the impacts of global warming of 1.5 °C above pre-industrial levels and related global greenhouse gas emission pathways, in the context of strengthening the global response to the threat of climate change, sustainable development, and efforts to eradicate poverty, Ginevra, World Meteorological Organization, 2019. Anche online, https://www.ipcc.ch/sr15/ (ultimo accesso 23/10/19). [back]
7) Kurt Zenz House et al., “Economic and energetic analysis of capturing CO2 from ambient air”, PNAS, n. 51, vol. 108, 20/12/2011, pp. 20428-20433. Anche online: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3251141/pdf/pnas.1012253108.pdf (ultimo accesso 17/10/19). [back]
8) È la situazione su cui concorda il 97% degli scienziati competenti. John Cook et al., “Consensus on consensus: a synthesis of consensus estimates on human-caused global warming”, Environmental Research Letters, n. 4, vol. 11, 13 Aprile 2016, online https://iopscience.iop.org/article/10.1088/1748-9326/11/4/048002 (ultimo accesso 5/12/19). [back]
9) Richard Conniff, “The Last Resort”, Scientific American, Gennaio 2019, n. 1, vol. 320, pp. 52–59 (trad. it. in Richard Conniff, “L’ultima speranza”, Le Scienze, n. 608, Aprile 2019, pp. 46–53). [back]
10) È fondamentale piantare in maniera adeguata agli ambienti e non indiscriminata, pena il rischio di degradarli. Si vedano Shixiong Cao et al., “Damage Caused to the Environment by Reforestation Policies in Arid and Semi-Arid Areas of China”, National Center for Biotechnology Information, Giugno 2010, n. 4, vol. 39, pp. 279–283, online https://link.springer.com/article/10.1007%2Fs13280-010-0038-z (ultimo accesso 14/11/19); Catherine L. Parr, Emma F. Gray, William J. Bond, “Cascading biodiversity and functional consequences of a global change–induced biome switch”, Biodiversity Research, 22 Febbraio 2012, online https://doi.org/10.1111/j.1472-4642.2012.00882.x (ultimo accesso 13/11/19); Joseph W. Veldman et al., “Where Tree Planting and Forest Expansion are Bad for Biodiversity and Ecosystem Services”, BioScience, n. 10, vol. 65, 1 Ottobre 2015, pp. 1011–1018, online https://doi.org/10.1093/biosci/biv118 (ultimo accesso 15/11/19); Rodolfo C. R. Abreu et al., “The biodiversity cost of carbon sequestration in tropical savanna”, Science Advances, 30 Agosto 2017, n. 8, vol. 3, online https://advances.sciencemag.org/content/3/8/e1701284 (ultimo accesso 12/11/19). [back]
11) Bronson W. Griscom et al., “Natural climate solutions”, PNAS, n. 44, vol. 114, 31/10/2017, pp. 11645-11650, originariamente pubblicato il 16/10/2017, online https://doi.org/10.1073/pnas.1710465114 (ultimo accesso 23/09/19); Jean-Francois Bastin et al., “The global tree restoration potential”, Science, 05/07/19, n. 6448, vol. 365, pp. 76-79, online https://science.sciencemag.org/content/365/6448/76?fbclid=IwAR3AVnbYoMe-o8ARWXnGGPVW4-OHgVK_acnXGw01oshqgbpB0X7HOXCR3tk (ultimo accesso 01/11/19); Shawn D. Taylor, Sergio Marconi, “Rethinking global carbon storage potential of trees. A comment on Bastin et al. 2019”, bioRxiv, 13 Agosto 2019, online https://doi.org/10.1101/730325 (ultimo accesso 5/12/19); Andreas Krause et al., “Pitfalls in estimating the global carbon removal via forest expansion – a comment on Bastin et al. (2019)”, bioRxiv, 5 Ottobre 2019, online https://doi.org/10.1101/788026 (ultimo accesso 5/12/19). [back]
12) Si vedano, tra gli altri, i progetti Freedom (https://www.treedom.net/it/projects), Carbon Brief (https://www.carbonbrief.org/mapped-where-afforestation-is-taking-place-around-the-world), Tree-Nation (https://tree-nation.com/projects) e Ecosystem Restoration Camps (https://www.ecosystemrestorationcamps.org). [back]
13) Si vedano, per esempio: National Research Council, “Climate Intervention Is Not a Replacement for Reducing Carbon Emissions; Proposed Intervention Techniques Not Ready for Wide-Scale Deployment”, The National Academy of Sciences, 10/02/10, online, http://www8.nationalacademies.org/onpinews/newsitem.aspx?RecordID=02102015 (ultimo accesso 10/09/19); John Latham et al., “Marine cloud brightening”, Philosophical Transactions of the Royal Society A: Mathematical, Physical and Engineering Sciences, n. 370, 13/09/12, online http://doi.org/10.1098/rsta.2012.0086 (ultimo accesso 10/10/19); National Research Council, Climate Intervention: Reflecting Sunlight to Cool Earth, Washington, DC, The National Academies Press, 2015, online, https://doi.org/10.17226/18988 (ultimo accesso 20/09/19); Jonathan Proctor et al., “Estimating global agricultural effects of geoengineering using volcanic eruptions”, Nature, 2018, vol. 560, pp. 480–483, online, https://www.nature.com/articles/s41586-018-0417-3 (ultimo accesso 13/09/19); Jeff Tollefson, “First sun-dimming experiment will test a way to cool Earth”, Nature, 2018, vol. 563, pp. 613-615, online, https://www.nature.com/articles/d41586-018-07533-4 (ultimo accesso 15/09/19). [back]
14) Amanda Hindlian et al., Taking the Heat. Making cities resilient to climate change, Global Markets Institute – Goldman Sachs, Settembre 2019, online https://www.goldmansachs.com/insights/pages/gs-research/taking-the-heat/report.pdf (ultimo accesso 5/12/19). [back]
15) Marco Ferrari, “Una catastrofe annunciata”, Il Tascabile, 30/01/19, online, https://www.iltascabile.com/?p=25658 (ultimo accesso 15/10/19). [back]
16) Ibidem. [back]
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