La mia culla l’ha dondolata la macchina a vapore. Che nel frattempo si è dissolta in una lontananza da ittiosauro. Le macchine smettono i grassi ventri pieni di budella. Sono già vivi i crani compressi delle dinamo con il loro cervello elettrico. La materia e lo spirito vengono tradotti in manovelle e messi in funzione. La gravitazione e l’inerzia sono superate. […] Gli obbiettivi e gli oculari, gli strumenti di precisione e le macchine reflex, il cinema con il rallentatore e l’acceleratore, i raggi Röntgen e X,Y, Z, hanno messo sulla mia fronte altri 20, 2.000, 2.000.000 di occhi che frugano acutissimi, affilati. (1)
Così El Lisitskij, il celebre costruttivista insegnante alla Bauhaus, descrive il radicale cambiamento sociale e tecnologico che dall’universo della meccanica sta per proiettarlo nel mondo impalpabile e veloce dell’elettricità . E benchè egli si trovi sulla soglia che divide i due mondi, molto è già mutato nel panorama tecnologico che lo circonda. Non solo, si badi, all’interno della cultura materiale ma anche nella comune percezione del mondo; la velocità degli spostamenti e l’accelerazione dell’informazione ne sono un esempio. Tuttavia oltre alla percezione, anche l’immaginazione può e deve rispondere a questa condizione culturale profondamente mutata. Per Lisitskij non è più il tempo di dipingere nature morte o paesaggi, e forse non è più il tempo di dipingere in assoluto, bisogna fare invece i conti con nuovi e potenti mezzi espressivi. E’ il 1926 e molti artisti sono stati già affascinati da media assai differenti da quelli tradizionali, ne è prova il diffuso interesse per il cinematografo: Emak Bakia e Anemic Cinéma, rispettivamente di Man Ray e di Duchamp, ad esempio furono realizzati proprio in quell’anno. Assai prima di Marshall McLuhan, Lisitskij è consapevole di trovarsi su uno spartiacque al di là del quale si aprono scenari totalmente inediti di conoscenza e creatività ma all’interno del quale permangono ancora strutture e figure che appartengono all’universo positivista: prima fra tutte la macchina a vapore nel suo valore sia sociale che simbolico. La griglia concettuale lasciata in eredità ai contemporanei è infatti esemplata in buona parte sulla forma della macchina. Durante il settecento si parla ad esempio di uomo-macchina (La Mettrie) per spiegare il funzionamento biologico del corpo umano, seguendo la traccia di Cartesio che aveva paragonato il corpo ad un meccanismo ad orologeria. L’idea che ne sta alla base è però più generale, risponde cioè ad un pensiero di tipo analitico e aggregativo. La conoscenza procede per via di scomposizioni, dal tutto alle parti, separando l’oggetto da conoscere in elementi sempre più piccoli, come mattoni di un’unica costruzione del reale.
E’ la strada maestra, a lungo battuta dalle scienze moderne, del pensiero analitico. Fenomeno, questo, che ha portato, nel mondo delle scienze, al predominio assoluto della fisica sulle altre discipline. E, all’interno della fisica, all’ipotesi dell’atomo come mattone fondamentale della materia. L’immaginario scientifico è dunque fortemente segnato da un paradigma riduzionistico, elementarista.
Un colpo assai forte al suo maggiore simbolo, la macchina, sarà assestato dai Dadaisti intorno al 1916. Le famose “macchine celibi” di Duchamp, Picabia e Man Ray (ed i loro analoghi letterari in Roussel, Kafka e Jarry) (2) faranno infatti inceppare l’impersonalità seriale della produzione industriale reinserendovi espliciti riferimenti erotici. Faranno cioè conflagrare organico e meccanico, come in un gioco di luddismo sessuale. La macchina non produce più nulla, ma riproduce se stessa, o per dirla con Deleuze e Guattari, “non c’è più nè corpo, nè natura, ma unicamente processo che produce l’uno nell’altra e accoppia le macchine” (3). E se già in questi primi esempi si possono trovare i prodromi di un drastico rivolgimento epistemologico, è però soltanto dopo glli anni ’40 che viene elaborato consapevolmente un paradigma sostitutivo di quello meccanicistico.
E’ l’idea della “rete”, un’idea che stravolge l’organizzazione gerarchica delle scienze e del mondo e introduce il concetto dell’assenza di un centro all’interno della griglia conoscitiva contemporanea. La nuova concezione, “olistica” e “sistemica” (tanto per usare termini alla moda) restituisce importanza alle relazioni togliendo rilevanza ai singoli oggetti. Quel che importa infatti è il funzionamento generale di un sistema più che la somma delle sue componenti. Perché Il tutto, come ci ricorda la psicologia della Gestalt, è superiore alla somma delle parti. L’immagine della rete fa dunque cadere alcune vecchie reificazioni come le antiche (e occidentali) barriere tra mente, materia e vita (4).
Ed anche a questo livello è possibile istituire significativi parallelismi con le arti visive. Gli artisti “informali” degli anni ’50, ad esempio, riscoprono un’organicità che pervade soggetto e oggetto dissolvendo ogni possibile barriera tra mente e corpo. Mentre, alla fine degli anni ’60, Land Art e Arte Povera insisteranno sulla relazione stretta tra natura e tecnologia, tra crescita organica e squadratura meccanica.
Da qui alle feroci ibridazioni meccanico-organiche di Tetstuo il passo è breve.
L’idea che la rete porta con sé è quella di un sistema integrato, dinamico, antistatico. E la figura dominante è quella della circolazione. Non a caso lo storico dell’arte René Berger fissa la sua attenzione sulla circolazione delle informazioni, ma anche sulla circolazione stradale (e Crash di Ballard ne fornisce una splendida metafora) come caratteristica imprescindibile del nuovo universo elettronico (5). L’immagine stessa circola al suo interno, le sue componenti si confondono incessantemente. Di qui il flusso, o, per citare ancora Berger, il “proteismo” delle figure dell’epoca del computer. Già i Futuristi dichiaravano in un famoso manifesto del 1910 che “tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente”. E nel 1950 Norbert Wiener, il padre della cibernetica, avrà lo stesso accento eracliteo quando affermerà: “Noi non siamo altro che gorghi in un fiume d’acqua che scorre senza sosta. Noi non siamo materia che rimane, ma strutture che si perpetuano”.
Non è più possibile dunque essere certi della forma. La forma è superata in favore del legame. Ed il legame stesso si confonde con altri legami, con vari livelli di legami. Perché una rete appartiene sempre ad un’altra rete, e tutti i sistemi appaiono integrabili gli uni agli altri. E’ in questo senso che si può dire che le immagini di ibridazione tra uomo e macchina, e tra uomo e natura, caratterizzino l’immaginario del presente. L’analisi di El Lisitskij, che non conosceva ancora i potenti mezzi di circolazione di oggi, trova conferma proprio in queste esperienze, ma è anche superata da tutte quelle ipotesi artistiche che sono andate totalmente al di là del meccanicismo positivista basandosi, appunto, sull’idea della rete.
La prima, naturalmente, è la cosiddetta “arte telematica” che mira non a produrre oggetti stabili, ma ad innescare processi di comunicazione; come avviene, ad esempio, nei vari progetti di Tommaso Tozzi, forse il suo rappresentante più esemplare in Italia. L’idea di Life-ware presuppone appunto il sentimento olistico di una interdipendenza ed interattività assai stretta tra natura e cultura. Ma possiamo pensare anche all’opera del “concettuale” Antoni Muntadas presentata a Documenta X, On Translation, in cui un testo passa da una E-mail all’altra e viene tradotto ogni volta in una lingua diversa. Finché, naturalmente, non perde completamente il significato di partenza mostrando finalmente il suo puro ruolo di “legame”, di processo comunicativo.
Un’altra ipotesi artistica consiste invece in tutte quelle esperienze che si incentrano sul tema della mutazione, o della trasformazione, proponendo immagini ibride o larvali. Basti pensare a Dal tramonto all’alba di Quentin Tarantino in cui i personaggi di un chiassoso pub western si trasformano, grazie alle tecniche di trattamento digitale dell’immagine, in una folla di vampiri; oppure agli scultori inglesi Dinos & Jake. Le loro fusioni di individui e membra disarticolate (che, come quelle di Cindy Sherman, provengono forse dalle esperienze surrealiste di Bellmer) sembrano indicare la perdita del valore conferito all’identità individuale in favore del “legame” biologico e sociale, della “rete” interpersonale. L’idea del flusso tra realtà differenti si può ritrovare inoltre nella multimedialità e nella compresenza di linguaggi di Prospero’s Book di Greenaway.
E la stessa ripartizione “a finestre” dello schermo è presente anche nei dipinti di David Salle e di altri pittori americani ed europei.
Ma il catagolo di tali esperienze, lo si intuisce, potrebbe risultare enormemente lungo.
Nel passaggio simbolico dalla “macchina” alla “rete” anche la creatività artistica è dunque strettamente coinvolta. La produzione di oggetti stabili, precisi e fissi è ormai abbandonata e l’artista tende semmai a stabilire o a metaforizzare delle interconnessioni. Arte telematica, Graffiti, video-art e Post-human riflettono questo cambiamento epocale senza rompere con la “tradizione del nuovo”, ma cogliendo un aspetto fondamentale della nostra contemporaneità. In queste espressioni dell’immaginario attuale le figure della relazionarietà, del proteismo e del flusso si producono però, bisogna dirlo, con obbiettivi diversi a seconda della particolare poetica di gruppo o d’artista.
Così mentre alcuni si limitano a rendere un superficiale “omaggio ai tempi” a puro livello tematico, altri utilizzano invece le nuove figure dell’immaginario integrandole completamente nel proprio modus operandi, nel meccanismo stesso di produzione dell’evento. Sono questi ultimi, a nostro avviso, su cui vale la pena concentrare l’attenzione (6).
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