Dialogare con gli strumenti digitali attraverso i dispositivi di interfaccia
Parlando della comunicazione bidirezionale possibile con il computer, assume particolare rilievo la presenza di dispositivi di interfaccia uomo-macchina che consentono ad utente e sistema di entrare in comunicazione in tempo reale instaurando un “rapporto conversazionale” (e non solo). Grazie ai dispositivi di interfaccia l’utente può “dialogare” con il terminale e quindi sfruttare le potenzialità interattive proprie del sistema. In più l’utente di un sistema interattivo può “interfacciarsi” con le immagini e i testi visualizzati sullo schermo instaurando un rapporto fisico e corporeo con i significanti, modificandone l’articolazione spazio-temporale, attraverso il gesto sulla tastiera, sul mouse o direttamente sullo schermo.
A proposito è molto interessante l’analisi della “antropologa del cyberspazio” Sherry Turkle (1), la cui ipotesi teorica è: “Abbiamo imparato a giudicare le cose secondo il valore dell’interfaccia. Ci stiamo spostando verso una cultura della simulazione dove le persone si sentono sempre più a proprio agio nel sostituire le rappresentazioni alla realtà. Usiamo tranquillamente la scrivania stile Macintosh così come quella fisica su quattro zampe. Entriamo a far parte di comunità virtuali che esistono solo in virtù di quanti comunicano via computer così come di comunità in cui siamo presenti fisicamente. Mettiamo in dubbio perfino le più semplici distinzioni fra reale e artificiale. Perché mai la scrivania sullo schermo dovrebbe essere meno reale di quella materiale? […] La cultura della simulazione mi spinge a considerare quel che vedo sullo schermo secondo il valore dell'(inter)faccia.” (2)
Nello spostamento verso una cultura della simulazione, il computer diventa un oggetto evocativo che provoca la rinegoziazione dei vecchi confini, fra cui anche l’idea stessa della comunicazione interpersonale e il concetto di relazioni sociali.
Nel termine stesso “simulazione“ si riscontra una evidente ambivalenza semantica: da una parte simulare significa illudere, ingannare, dall’altra significa riprodurre, imitare. La simulazione dà vita ad una realtà che riproduce ed imita quella sensibile e nello stesso tempo la rende evanescente, immateriale ed artificiale. Secondo Umberto Eco “segno è tutto quello che può essere usato per mentire” (1975) e nella comunicazione digitale questo aspetto di ingannevole referenzialità trova un’applicazione concreta. L’inganno comunque non è sempre recepito come tale e anzi, le perturbazioni che i segni digitali provocano in noi, sono spesso paragonabili a quelle che la stessa comunicazione interpersonale determina. Secondo Stefania Garassini e Barbara Gasparini “ogni linguaggio simula, cioè costruisce un modello della realtà di cui intende parlare e tale modello può anche non corrispondere all’oggetto al quale si riferisce. Proprio perché ogni linguaggio per descrivere la realtà, deve distaccarsene e simularla, sono possibili la menzogna e l’inganno, che non sarebbero evidentemente configurabili in una prospettiva di totale determinismo e di forzata referenzialità. ” (3)
Con questo si vuole rendere chiaro che la componente di finzione ha accompagnato da sempre non solo la comunicazione mediatica che ha circuito la nostra sfera cognitiva con i suoi simulacri, ma anche i processi stessi del comunicare, che presentano sempre aspetti relativistici e aleatori. Con i media tecnologici il processo di “menzogna comunicativa” si è acuito e tutto questo è avvenuto conseguentemente all’aumentare progressivo della perdita di referenzialità dell’immagine comunicativa. Con la fotografia ed il cinema è ancora in parte evidente il rapporto con il referente oggettuale concreto (dico in parte perché spesso alcuni scenari cinematografici o determinate immagini fotografiche sono ricostruite artificialmente), mentre con la televisione la referenzialità subisce un ulteriore slittamento verso la simulacralità dell’immagine.
Con gli strumenti digitali si accresce l’indipendenza rispetto al referente oggettuale e di conseguenza è anche più facile eseguire performance creative manipolando le immagini visuali (anche se comunque questo è avvenuto già con la videoarte). Con il digitale è possibile rielaborare e trattare l’immagine allontanando la rappresentazione dal determinismo realistico: quindi, in un certo senso, la simulazione, nell’abbandono di qualsiasi legame analogico con l’immagine originale, permette la creazione di un reale alternativo che, nel suo inganno iconico, può facilitare la sperimentazione critica e riflessiva (la metasperimentazione) sui codici comunicativi e sulla stessa materialità concreta.
Bettetini afferma che l’intento della simulazione sensoriale operata dai nuovi media digitali è quello di “produrre un significante materiale che possa rinviarea un progetto o a un modello o a un’icona capace di sollecitare impatti percettivi analoghi a quelli prodotti dalle forme referenziali – nel caso in cui esistano – o comunque credibili e utilizzabili in virtù della loro verosimiglianza e della loro adeguatezza all’istanza che ha dato origine alla specifica produzione di senso. ” (4)
Siamo quindi di fronte ad un tentativo di trasmettere verosimiglianza attraverso l’inverosimile ed il fantasmatico. E’ infatti questa illusione di verosimiglianza che permette lo svolgersi dei processi comunicativi interattivi o meglio delle perturbazioni comunicative. Invece la disillusione (o il vivere l’illusione fantasmatica in modo ragionato e consapevole) può dare origine alla riflessività critica sui mezzi comunicativi e sulla stessa azione comunicativa.
L’illusione è provocata dalla facilità d’interazione con le interfacce digitali che celano le complicate strutture delle apparecchiature meccaniche sottostanti (l’hardware) e che nascondono anche le complesse procedure d’esecuzione algoritmiche di ideazione di determinati software: il tutto poi è accresciuto dalla paradossale semplicità del linguaggio binario (il sistema codificato su cui si basa la possibilità di fornire istruzioni ai computer). Questa opacità dei sistemi digitali interattivi crea degli effetti di realtà conseguenti alla progressiva naturalizzazione delle interfacce e la simulazione comportamentale di un interlocutore reale o di un ambiente.
Quando nel 1984 fu lanciato lo stile a icone del Macintosh, l’utente cominciò a doversi rapportare a delle simulazioni (le icone delle cartelle, la scrivania, il cestino del materiale rifiutato, ecc.), che esibivano superficialmente le potenzialità della macchina e le possibili vie con cui interfacciarsi, non offrendo però alcun suggerimento su come poter riconoscere la struttura sottostante: ecco appunto l’opacità della tecnologia informatica.
Al contrario i primi personal computer degli anni ’70 e il PC dell’IBM dei primi anni ’80, erano concepiti come dei sistemi per così dire “trasparenti”, che incoraggiavano gli utilizzatori a rappresentare la propria comprensione della tecnologia come conoscenza di quel che esisteva oltre il livello superficiale offerto dallo schermo.
Anche se poi in realtà pochi hanno raggiunto un tale livello di comprensione, le prime macchine informatiche erano strutturate in modo da essere comprese fino ai loro livelli più semplici evidenziando i meccanismi nascosti che fanno funzionare le cose: “si trattava di sistemi che invitavano l’utente a immaginare che ne avrebbero potuto comprendere le ‘marce’ mentre andavano” (S.Turkle).
A proposito Turkle parla di estetica computazionale modernista: “L’immagine del computer come calcolatore suggeriva che, ben oltre la sua apparente complessità, quel che accadeva al suo interno poteva essere meccanicamente scompattato, sezionato.[…] In altri termini, le idee computazionali venivano presentate come una delle grandi meta-narrazioni moderne, storie di come il mondo fosse in grado di fornire immagini unificanti e di analizzare cose complicate riducendole in pezzi più semplici. L’estetica computazionale modernista prometteva di spiegare e scompattare, di ridurre e chiarire. ” (5)
Attraverso la cultura della simulazione si è invece approdati all’estetica postmoderna della complessità e della decentralizzazione. Paradossalmente si ricerca nel computer un tipo di trasparenza attivata dall’opacità e dalla complessità, rimanendo al livello superficiale della rappresentazione visuale, ma con il desiderio di esplorare e manipolare attraenti mondi di superficie a seconda dei nostri bisogni personali.
La novità del Macintosh stava dunque nella possibilità di manipolare l’interfaccia dello schermo senza essere esperti informatici. L’interfaccia del Macintosh appariva come una scrivania virtuale e poteva rispecchiare sullo schermo i movimenti degli utlizzatori grazie alla presenza di un cursore mobile (una freccetta di solito) e non si presentava come un’interfaccia logica, manipolabile con comandi lineari e testuali (si pensi al sistema CP/M dell’Apple II degli ultimi anni ’70 o al più recente MS-DOS). Invitava ad un rapporto con il computer meno analitico e razionale, basato sulla gestualità immediata, permettendo un vero e proprio dialogo con la macchina e riducendo la sensazione di impartire degli ordini a qualcosa, tipica del linguaggio informatico logico a stringhe di comandi.
Il Macintosh divenne più trasparente perché facile da manipolare. Quindi anche l’idea stessa di trasparenza ha subito uno slittamento con l’emergere della cultura della simulazione: trasparente non è ciò che può essere ricostruito analiticamente a partire dalla scomposizione delle sue strutture interne, ma è ciò che può essere esplorato con facilità interagendo con icone attraenti ed intuitivamente interpretabili.
Nel passaggio dalla cultura analitica e della programmazione dall’alto verso il basso propria dello stile moderno di fine anni ’70 alla più postmoderna cultura della simulazione degli anni ’90, si assiste ad una trasformazione del modo di rapportarsi agli elementi comunicativi e subisce una mutazione lo stesso modo di interagire cognitivamente con un testo. Si tende ad interagire con gli strumenti informatici come se si esplorasse dei mondi, procedendo per continue manipolazioni e riscritture del testo iconico, che assume quindi forma sullo schermo in base alle nostre personali connessioni mentali (questi processi sono ancora più evidenti negli ipertesti del World Wide Web).
Questa costruzione testuale personalizzata, viene definita da Sherry Turkle tecnica del bricolage, che bene rappresenta i percorsi cognitivi che si è soliti attraversare interagendo con strumenti digitali. Cosa si intende per cultura del bricolage?
“Oggi, il fatto di giocare con le simulazioni stimola le persone a sviluppare capacità di manovra più informali, perché è ormai facile creare scenari da ‘Cosa accadrebbe se?’ e giocare con ciò che ne esce.
La rivalutazione del bricolage nella cultura della simulazione comprende un’enfasi nuova sulla visualizzazione e lo sviluppo dell’intuizione attraverso la manipolazione di oggetti virtuali. Invece di essere costretti a seguire un’insieme di regole stabilite in anticipo, quanti usano il computer vengono incoraggiati a giocare in micromondi simulati. E’ qui che si impara il funzionamento delle cose, mentre vi si interagisce. ” (6)
Mentre negli anni ’70 e ’80 utilizzare il computer secondo la tecnica del bricolage era pratica propria di alcune frange non ufficiali rispetto alla cultura informatica istituzionalizzata (si pensi alle pratiche deglihackers), negli anni ’90 sempre più persone si sono avvicinati alla “logica della sperimentazione manipolatrice”. All’utente è concesso di interagire in modo diretto con il testo visuale, mutandolo conseguentemente alle proprie possibilità alternative di pensiero. Esplorare i mondi digitali significa quindi “sporcarsi le mani” con gli oggetti che li popolano, lavorando in tempo reale con ciò che appare visibile nella zona di superficie.
Ma in che senso si vivono esperienze interagendo con queste icone immateriali?
A proposito si può considerare la risposta che dà Paolo Vidali in Esperienza e comunicazione nei nuovi media riferendosi alle esperienze di realtà virtuale:
“Ciò che si percepisce non è un mondo, ma la propria interazione con un mondo. L’effige del proprio corpo che si muove in uno spazio artificiale a fisica variabile accentua ed evidenzia ciò che accade in modo ormai inconsapevole nell’interazione oridinaria. Non incontriamo mai un mondo, ma un rapporto con il mondo. L’esperienza non è delle cose ma dell’interazione con le cose. L’ordinarietà delle nostre esperienze oscura questo rapporto, lo stabilizza, fino a fonderlo nell’oggetto. Occorre violare la normalità fisica, metrica topologica del nostro mondo perché venga di nuovo in luce la relazione che costantemente intratteniamo con esso. La VR mostra quello che l’ordinario non sa più mostrare: la costruttività della nostra esperienza del mondo. ” (7)
Questo significa che gli ambienti virtuali non vogliono offrire l’esperienza della realtà, ma del rapporto con la realtà. Ci si confronta con universi formati da immagini di sintesi che presuppongono una sempre crescente conoscenza del “reale”, sia per riprodurlo con modelli iconici che per simulare le interazioni comunicative possibili al suo interno, e che presentano paradossalmente una sempre maggiore dissoluzione del reale, sostituito dal modello e in senso generale dal linguaggio informatico.
Le immagini sintetiche sono creazioni fantasmatiche e alle loro spalle non vi è alcun referente dato, alcun reale ripreso, come accadeva invece con la fotografia, il cinema e la televisione. “La dissoluzione del referente ha spostato l’attenzione dalla referenzialità dell’oggetto all’interazione fra ambiente e soggetto” (P.Vidali).
L’esperienza possibile con i nuovi media ha quindi un carattere riflessivo: si può dire che sia un metacommento sulla nostra facoltà di percepire e di interagire.
“L’oggetto infografico è un oggetto virtuale, il che significa che anche la sua materialità deve essere costruita e simulata. Ma ciò comporta sia la conoscenza che l’abbandono dei vincoli della nostra esperienza percettiva ordinaria. Con l’infografica si dimensiona l’immagine e il centro percettivo su qualunque scala, dal piano molecolare a quello galattico; si superano e si trasformano tutti i limiti che segnano la nostra abituale postazione nello spazio reale: e sono limiti ambientali, coordinate spazio-temporali, elasticità, meccanica e dinamica, strutture percettive, tutti vincoli che contrassegnano ciò che chiamiamo realtà distinguendola da un immaginario senza verità. […] In questo modo l’immagine di sintesi cancella dei vincoli che la nostra percezione ordinaria non sapeva più di avere: ma nel far questo, di fatto, li evidenzia. ” (8)
Colui che interagisce con questi mondi è quindi invitato a ridiscutere sia il proprio rapporto cognitivo con il mondo, imparando a ragionare in termini di possibilità da sperimentare nell’immediato secondo una logica combinatoria, sia il proprio rapporto percettivo con il mondo, riplasmando le regole ordinarie che permettono tale rapporto nel concreto. La realtà virtualizzata è quindi uno stimolo per riflettere sull’interazione comunicativa e può aiutarci a divenire coscienti della nostra stessa percezione.
Il veicolo principale per vivere tali pratiche riflessive è il nostro corpo e la sua messa in scena performativa e quindi l’interagire con universi digitali si connota di una certa fisicità (pur nella virtualità degli scenari) poiché senza l’azione manipolatrice del corpo non sarebbe possibile vivere determinate esperienze, però il senso ultimo di queste interazioni, se vogliono essere realmente critiche e riflessive, non si ferma a questo. Il punto nodale è partire dalle pratiche corporee in ambienti virtuali (con questo non escludo l’interfacciarsi con il personal computer) per operare una decostruzione critica dei meccanismi comunicativi, percettivi, relazionali e sociali in generale. In questo senso si parla di pratiche reali anche se in realtà il tutto avviene in un contesto virtuale e non oggettualmente concreto. Inoltre poi questa sensazione di aver vissuto esperienze reali è accreditata dal fatto che il sistema con cui ci si interfaccia rimane perturbato dall’azione del nostro corpo-mente e conserva in sé le tracce del nostro passaggio e dello scambio comunicativo stesso. Queste tracce vengono percepite come reali anche se sono virtuali, poiché in effetti la relazione trasformatrice di feedback sistema-utente è avvenuta e il nostro sistema cognitivo, come l’interfaccia del sistema con cui abbiamo interagito, ha subito una mutazione.
Le pratiche digitali si collocano quindi in una zona di confine fra sensorialità ed intelletto, in cui si mettono in gioco i sensi smaterializzandoli e si riorganizzano le nostre facoltà cognitive e percettive: il tutto avviene in un non-luogo in cui si frammentano e si invertono le modalità percettive e i canoni socio-culturali e si riorganizzano in un contesto fortemente ludico.
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