English abstract
Many news about a sequel of James Cameron’s Avatar movie – a milestone in animation film and technology, as well as a blockbuster from an economical viewpoint – have being published. Some of them are foreseeing 2018 as the date of the sequel. This essay is especially keen on body-technology relationship, which is one of the key elements in Avatar. In the movie Avatar I’m interested in considering the aspects of the body. A lesson we learned from the partial failure of Strong Artificial Intelligence – which is intended to replicate human intelligence through computer programs – is that our intelligence can not ignore the presence of the body in which it is rooted. A body which is in turn immersed in, and in constant interaction with, the environment. In addition, body and intelligence are the result of a long biological evolution that has slowly come to a complicated biocultural evolution. The systemic (synchronic) dimension and the evolutionary (diachronic) dimension of cognition, its corporeal rooting, and its intimate contact with the sinuousness of language allow us to assert that (human, but also animal) intelligence is a phenomenon – or a faculty, an event, a process – which is at a time biological, cerebral, psychological, environmental, historical and social. Yes, even social, because intelligence is tied to communication, in that linguistic and signic exercise that puts everyone in a permanent and dynamic touch with the other.
Presentazione
Sono usciti numerosi articoli sul sequel del film Avatar di James Cameron, una pietra miliare nelle relazioni tra cinema e tecnologie di animazione, e anche un grande successo dal punto di vista economico. Alcuni prevedono il 2018 come data di rilascio del sequel. Questo saggio indaga sul rapporto corpo-tecnologia, che costituisce uno degli elementi chiave di lettura di Avatar, e più in generale del nostro rapporto con le macchine e i dispositivi che creiamo, da numerosi punti di vista: tecnologico, filosofico, scientifico, storico, narrativo…
Il saggio è stato originariamente pubblicato in Antonio Caronia, Antonio Tursi (a cura di), Filosofie di Avatar. Immaginari, soggettività, politiche, Milano, Mimesis, 2010, pp. 97-107.
Soglia: oh, pensa che è, per due che si amano
logorare un po’ la propria soglia di casa già alquanto consunta,
anche loro, dopo dei tanti di prima,
e prima di quelli di dopo… leggermente.
R. M. Rilke, La IX Elegia duinese
Premessa: corpo, tempo, narrazione
Di Avatar m’interessa considerare gli aspetti relativi al corpo. Se una lezione abbiamo appreso dal parziale fallimento dell’impresa dell’Intelligenza Artificiale forte – che si propone di replicare l’intelligenza umana mediante programmi per calcolatore – è che la nostra intelligenza non può prescindere dalla presenza del corpo, nel quale è radicata: un corpo che è a sua volta immerso in, e in costante interazione con, l’ambiente. Inoltre il corpo e l’intelligenza sono il frutto di una lunga evoluzione biologica che è pian piano sfociata in una complicata evoluzione bioculturale. La dimensione sistemica (sincronica) e la dimensione evolutiva (diacronica) della cognizione, il suo radicamento corporeo e il suo intimo contatto con le sinuosità del linguaggio ci consentono di affermare che l’intelligenza (umana, ma anche animale) è un fenomeno – o facoltà o evento o processo – insieme biologico, cerebrale, psicologico, ambientale, storico e sociale. Sì, anche sociale, perché non si dà intelligenza se non nella comunicazione, nell’esercizio linguistico e segnico che mette ciascuno in contatto permanente e dinamico con l’altro.
E l’altro è l’interlocutore umano, animale e anche minerale (si pensi all’attività scientifica, vero e proprio tentativo di interrogazione, anzi di dialogo con tutti i regni della vasta natura attraverso codici problematici e mutevoli). Ma, oggi, l’altro è anche l’insieme variegato degli artefatti tecnologici, soprattutto dei dispositivi e congegni prodotti da quella tecnologia dell’informazione che arricchisce giorno dopo giorno l’universo già tanto diversificato della comunicazione.
La dimensione sistemica dell’intelligenza e la sua scaturigine comunicativa hanno una conseguenza fondamentale, cioè che l’uomo si può a buon diritto definire macchina semantica: audace espressione ossimorica, in cui si fondono un residuo di visione riduzionistica (l’uomo come congegno, l’Homme machine di Julien de la Mettrie) e un’apertura che trascende irrimediabilmente la macchina e prelude all’illimite del significato. Ed è il significato che colora i nostri atti, che li dirige a obbiettivi carichi di senso, di valore e di presaga e sfumata ideazione del futuro o che, ripiegandosi la memoria sul passato, ci affaccia all’altra dimensione, quella dei ricordi, delle rievocazioni, delle reminiscenze che si accumulano nello sterminato regesto del tempo.
E il tempo – questa inafferrabile entità che scandisce la vita del corpo (e la sua morte, per accumulo non più tollerabile di esperienze), e che nel corpo archivia tracce mnestiche più o meno sbiadite e trasmutate, disponendo ricordi e attese in un loro complicato alfabeto per fornire istante per istante l’io stazionario ma transeunte che “io” sono – il tempo, per dirla con una felice espressione di Alberto Giovanni Biuso, “è la sottile e impalpabile filigrana che attraversa la coscienza e il sapere.” Ecco che una filosofia della mente che voglia essere feconda di indicazioni sulla natura dell’uomo, che voglia cioè accogliere l’invito a conoscere noi stessi, non può non occuparsi del corpo-mente immerso nel significato e della sua costante interazione con il tempo-coscienza.
Sulla scorta di queste riflessioni siamo portati a considerare il rapporto uomo-macchina e l’avvento del post-umano secondo una prospettiva semantico-intenzionale: se le macchine acquisiranno un giorno un’intelligenza di tipo umano, intessuta di emozioni e riflessa nello specchio enigmatico della coscienza, probabilmente ciò non potrà avvenire lungo la strada della robotica, dove il tutto-artificiale resterà sempre qualitativamente diverso dall’organico-evolutivo; bensì tramite la progressiva simbiosi di naturale e tecnologico, tramite l’innesto in una base organica di elementi artificiali che potenzino le facoltà logiche e razional-computanti dell’uomo e che insieme non soffochino le componenti antiche delle emozioni, dei sentimenti e del significato.
Per concludere queste premesse, consideriamo il rapporto tra coscienza, linguaggio e realtà. Se accettiamo la visione “enattiva” e costruttivista di Humberto Maturana e Francisco Varela, secondo cui la struttura percepita della realtà dipende in parte anche dalle modalità con cui la osserviamo, possiamo affermare che la mente, al pari della realtà percepita, emerge dalla lingua, dalle sue capacità di auto-descrizione e narrazione. Il punto nodale per cui la mente è mente e l’uomo è uomo è appunto la narrazione, che scaturisce dall’incontro tra la coscienza autoconsapevole e la realtà della quale essa è l’autoconsapevolezza. E questo incontro, espresso in narrazioni incessanti, viene partecipato agli altri. Ecco un’altra differenza tra uomo e computer: il computer non narra e non si narra, non si fa narrare storie che diano significato al suo “essere qui”. Inoltre la narrazione implica un soggetto narrante e un ascoltatore, tra i quali tuttavia è illusorio tracciare una linea di divisione, perché chi narra si ascolta e chi ascolta si narra: questa inseparabilità paradossale, quasi inaccettabile dalla mentalità cartesiana classica, è la base sulla quale si costruisce la mente sociale. Una verità forte di carattere fenomenologico contro i dualismi vecchi e nuovi e a favore di una scienza che recuperi le qualità e l’olismo dell’esperienza, in cui mondo e corpo si vengono incontro e si fondono.
E la dimensione semantica dell’esperienza umana (e non solo umana, ma anche animale) deriva dalla necessità vitale di preservare il corpo e la sua integrità interpretando i fenomeni, i segni, gli eventi del mondo. Questa necessità e la semantica elementare che ne deriva (buono: da mangiare, pericoloso: da fuggire) si complicano fino a costituire la mente, complesso dei significati che ciascun vivente dà al proprio essere nel mondo. La tutela del corpo e la sua necessaria continuità biologica rappresentano il vero e robusto baluardo contro ogni ipotesi, o tentazione, di sublimazione digitale e di assorbimento nel puro virtuale: perché il corpo non è solo un oggetto materiale che si possiede, ma è una dimensione di coincidenza: io sono il mio corpo. Come dice ancora Biuso, il corpo costituisce la pienezza di senso che è il mio essere al mondo, il mio stare nel tempo, il mio essere tempo.
Estetica ed etica
Dopo queste premesse, veniamo al film, del quale, come ho detto, m’interessano gli aspetti legati al corpo, con tutta la sua carica simbolica, estetica, erotica ed espressiva. Oltre ad essere la nostra prima e più importante interfaccia con la realtà, il corpo è anche la teca delle nostre esperienze e il deposito in cui si accumula quel distillato archeologico dell’esistenza che è il senso. Di conseguenza il corpo è un vero e proprio dispositivo semantico, è la bussola che ci guida nel mondo consentendoci di preservare la nostra pienezza e suggerendoci come dirigerci verso ciò che è bello e buono.
L’endiadi che accumuna bello e buono, estetica ed etica, ha profonde radici evolutive e sistemiche, che tento di riassumere in queste definizioni:
• L’estetica è la percezione soggettiva (anzi, intersoggettiva) del nostro legame immersivo con l’ambiente, legame caratterizzato da una profonda ed equilibrata armonia dinamica. Questo legame si esplica nel riconoscimento, in primo luogo sensibile ed emotivo, degli oggetti belli.
• L’etica è la capacità, soggettiva e intersoggettiva, di concepire e compiere azioni capaci di mantenere sano ed equilibrato il legame dinamico immersivo con l’ambiente. Queste azioni mantengono e incrementano la bellezza.
In questa visione naturalistica, l’estetica è legata a doppio filo con l’etica. Esse sono due facce della stessa medaglia perché derivano dalla forte coimplicazione sistemica ed evolutiva tra specie e ambiente e sono entrambe “rispecchiamenti” in noi di questa coevoluzione. Se l’estetica è il sentimento (inter)soggettivo dell’immersione armonica (cioè vitale) nell’ambiente e l’etica è il sentimento (inter)soggettivo di rispetto per l’ambiente e di azione armonica con esso, allora l’etica ci consente di mantenere l’estetica e l’estetica ci serve da guida nell’operare etico. Etica ed estetica affondano le loro radici nella nostra storia evolutiva, anzi nella coevoluzione tra noi e l’ambiente. Questo innesto evolutivo primordiale riguarda gli oggetti belli, mentre i concetti belli, per esempio quelli che alcuni ritrovano nella matematica, sono molto più recenti sotto il profilo della filogenesi e posteriori nell’ontogenesi, quindi il riconoscimento della loro eventuale bellezza è più difficile, passa per la razionalità, è meno spontaneo e richiede un addestramento individuale specifico. Invece, nel caso degli oggetti naturali, questo addestramento l’hanno compiuto per noi le generazioni passate. Vi è qui un residuo di platonismo: gli oggetti belli sono da noi riconosciuti, poiché sono stati racchiusi nello scrigno della memoria di specie grazie alla millenaria contemplazione dei nostri antenati.
In Avatar l’estetica si esplicita nelle splendide danze (non trovo termine più adeguato, anche quando si tratti di imprese venatorie o guerresche) che i Na’vi intrecciano tra loro e con le altre creature di Pandora: alberi e ikram e simil-cavalli e via dicendo, in un tripudio di panpsichismo e di empatia esplicitata nello splendore dei fenotipi. Si capisce che su Pandora, come e forse più che sulla Terra, il corpo è il prodotto raffinatissimo di una lunga co-evoluzione che l’ha adeguato e intonato alle altre creature. Esso ha superato le prove più ardue della selezione e si è armonizzato all’ambiente come il delfino all’acqua o il falco all’aria.
La perfezione di questo adeguamento, di questa immersione coinvolgente, trova le sue manifestazioni più alte nell’albero-casa, il gigantesco essere vegetale che ospita tra le fronde rigogliose una fitta colonia di nativi in una simbiosi arcadica e pastorale, e soprattutto nell’albero delle anime, luogo sacro alla divinità femminile Eywa. L’albero delle anime è l’emblema del legame tra tutti gli esseri viventi di Pandora, è la celebrazione visibile di una sorta di panteismo immanente nelle connessioni che legano ogni creatura ad ogni altra come una gigantesca rete neuronale. Al pari di un’immensa creatura, il pianeta tutto sembra animato da un’attività vitale collettiva, retta da meccanismi simbiotici ed omeostatici, che ricorda l’ipotesi Gaia di James Lovelock e riecheggia le concezioni della mente di Gregory Bateson.
Esempio di questo vertiginoso collegamento fisico-empatico, anima-corporale, è il vincolo che si stabilisce istantaneo quando un Na’vi unisce la propria treccia a quella di un altro o all’appendice cordiforme di cui sono provvisti gli animali: un vincolo inscindibile d’amore e d’alleanza, per il quale corrono messaggi che trascendono le parole e che instaurano una sorta di comunicazione laterale o sotterranea nella quale, sembra, non si può mentire.
Il corpo dei Na’vi
Ma prim’ancora che nell’interazione comunicativa e dinamica con le altre creature, il corpo dei Na’vi è splendido in sé: grande, flessuoso, forte, si esibisce quasi nudo (e non del tutto nudo per un residuo forse di delicatezza, forse di puritanesimo), è dotato di una coda nervosa, palpitante e vibratile (direi espressiva) ed è colorato o meglio striato d’azzurro: colore che ricorda il sangue dei nobili e i bambini indaco, richiami cromatici che sanno di fiaba (si ricordi Barbablù) e di nostalgica mitologia arcadica e new age: l’azzurro è anche il colore del pianeta Terra che gli uomini, nel film ma tendenzialmente anche nella realtà, hanno reso inabitabile. Al di là del cromatismo, molti sono nel film i rimandi simbolici, culturali, mitologici e leggendari, che ne fanno un film di fantasy forse più che di fantascienza.
Al confronto dei magnifici Na’vi, i corpi degli umani appaiono meschini, deboli e scialbi: anche il possente colonnello Quaritch, per affrontare le insidie di Pandora, deve indossare (o farsi inghiottire da) un gigantesco esoscheletro che ne moltiplica le energie e la prestanza. I corpi umani sono fragili e delicati, quando non addirittura infelici e rattrappiti, come nel caso del protagonista Jake Sully che, con un’intuizione brillante, il regista confina su una sedia a rotelle per poi regalargli, a risarcimento, un corpo sfolgorante nella dimensione dell’avatar.
Il contrasto tra corpi umani e corpi pandoriani accentua l’ammirazione e la simpatia che lo spettatore prova per i nativi e di conseguenza per Jake-avatar rispetto a Jake-uomo: infatti già all’inizio, prim’ancora che i terrestri dimostrino tutta la loro malvagità guidata dalla cupidigia e sostenuta, secondo una tradizione antica e un po’ stereotipata di aggressività, da una tecnologia possente ma devastante, Cameron ci fa parteggiare per i Na’vi grazie soprattutto a quel loro corpo di cui – potenza di una simulazione virtuale davvero straordinaria! – par di sentire la pelle in un contatto che sa di delfino o di altro liscio animale marino e favoloso, grazie all’espressività di quegli occhi gialli, intrisi di felinità e di animalesca dolcezza, grazie al sorriso o al ghigno belluino che apre la bocca piccola sulla chiostra smagliante dei denti aguzzi. E il primo sorriso che la guerriera Neytiri rivolge a Jake, dopo tanto sfoggio di animosità e di bellicosa destrezza, è colmo di una soavità struggente e straripante di promesse d’amore. E ciò nonostante le mobili orecchie aguzze e il largo naso camuso.
L’avatar
Il corpo è il protagonista dell’idea di avatar. Nella religione induista, avatar (che significa “disceso”) è l’incarnazione di un dio (di solito Vishnu) in un corpo umano o animale al fine, per esempio, di opporsi alle forze demoniache e al declino della giustizia. Gli avatar sono intermediari tra l’essere supremo e i mortali. Nel film l’avatar è un corpo sintetico (un prodotto della vita biologica artificiale), derivante da una manipolazione che mescola il patrimonio genetico di un uomo con quello dei Na’vi. Nel suo avatar l’uomo può “discendere”, cioè incarnarsi, quando il suo corpo originale è preda di un coma profondo: è un trapianto non di corpo, bensì di mente, o di spirito. O, visto il sapore fantasy del film, di anima.
Splendida la scena in cui la mente di Jake si trasfonde per la prima volta nel suo avatar, animandolo con uno slancio violento, barbarico, in cui si manifesta tutta la gloria ferina e primitiva di possedere finalmente un corpo integro e potente, agile e obbediente (obbediente, a vero dire, dopo un po’ di esercizio), fornito di un’appendice caudale selvaggiamente sferzante e pericolosamente robusta. E, si osservi, il corpo è ancora al centro della promessa che il colonnello Quaritch fa a Jake di dargli un paio di gambe nuove, gambe vere, al posto delle sue, paralizzate, se tramite l’avatar l’ex marine gli porterà, da Pandora e dai Na’vi, notizie utili allo sfruttamento dei giacimenti del prezioso unobtanium.
Tale è il fascino delle immagini, la ricchezza delle sensazioni visive – sconfinanti in quelle tattili per una sorta di contiguità o esondazione sinestetica – che la curiosità di sapere come funziona “davvero”, cioè nella finzione cinematografica, l’interfaccia mentale che collega uomo e avatar scivola in secondo piano: durante la proiezione, sedotto dalle immagini rapinose, non ho mai pensato alle connessioni tra cervello e computer che oggi cominciano ad essere sperimentate nella realtà, non virtuale, dei laboratori. Inoltre la potenza della visione esige che la tecnologia esibita sia quella delle macchine che manipolano materia ed energia: ruspe, elicotteri, missili, robot, esoscheletri: tutto gigantesco, micidiale, ferrigno, catafratto, fragoroso e rombante. Mentre le macchine della mente, computer e via dicendo, che pure ci sono, appaiono recessive: essendo meno spettacolari e meno rumorose delle altre, rimangono inevitabilmente nascoste. Anche questa preferenza è un’indicazione dell’egemonia, nel film, del corpo.
La soglia
L’avatar si anima quando l’uomo che in esso s’incarna è in catalessi: la mente trasmigra e l’avatar prende vita, come un sognante Golem del futuro. Chiuso nella sua teca, attraverso il suo splendido sosia, Jake vive un’altra esistenza, più dinamica e soda, nei boschi di Pandora. Bisogna supporre che l’avatar abbia una vita propria o almeno una libera capacità decisionale, che gli consenta di far fronte alle circostanze anche rischiose in cui può venire a trovarsi. Dunque l’avatar possiede in sommo grado sia la capacità di apprendere (si veda il duro addestramento cui è sottoposto dagli indigeni Jake-avatar fino alla sua promozione a guerriero Na’vi) sia l’autonomia di comportamento che stiamo tentando di instillare nei nostri attuali robot. Ma tra robot e avatar c’è una differenza essenziale: il primo è tutto artificiale, il secondo, a quanto è dato capire, è un prodotto della manipolazione biologica che si sviluppa da un germe organico, da una mistura di DNA terrestre e na’vi, quindi è in grado (siamo nel campo della fantascienza) di provare sentimenti e di rispecchiarsi in una coscienza.
Comunque sia, la grande libertà, l’esperienza vitale di cui Jake, chiuso nel suo sarcofago, gode per interposto corpo come in un sogno profetico, ha una conseguenza importante: la dualità dei corpi in cui di volta in volta abita la sua mente provoca via via una confusione d’identità. L’unità psichica iniziale di Jake si spezza e nel suo stato umano l’ex marine comincia a porsi domande inquietanti: sono Jake-uomo che riceve messaggi onirici dall’avatar mandato ad esplorare Pandora, oppure sono Jake-avatar che ogni tanto sogna di essere un uomo segregato nella base degli invasori terrestri? La vita che conduce sub specie di avatar gli appare sempre più come la vita vera, mentre la vita a basso regime che conduce tra gli umani regredisce allo stadio larvale, tanto che egli prova repulsione per il cibo offertogli da quella specie di hommasse di buon cuore che è la dottoressa Grace Augustine, sua nocchiera nell’impresa dell’avatar. Questa confusione d’identità ricorda il sogno di Chuang Tzu narrato da Borges:
“Chuang Tzu sognò che era una farfalla e non sapeva, destandosi, se fosse un uomo che aveva sognato d’essere una farfalla o una farfalla che sognava d’essere un uomo.”
Ma ricorda anche il caso del dottor Jekyll e mister Hyde. Nella storia di Robert Louis Stevenson tutto comincia con il riconoscimento esplicito da parte di Jekyll della dualità (anzi, oggi lo sappiamo, molteplicità, come del resto intuì Luigi Pirandello) dell’uomo:
“Giorno dopo giorno, e attraverso le due entità del mio spirito, quella morale e quella intellettuale, mi avvicinai sempre più a quella verità la cui parziale scoperta mi condannò a una spaventosa catastrofe, e che riconosce come l’uomo non sia unico, bensì duplice.”
Poi viene a Jekyll l’idea di separare il bene dal male:
“Pensavo che se ognuno di questi [i due esseri che si dilaniano nella coscienza di Jekyll] avesse potuto essere confinato in un’entità separata, allora la vita stessa avrebbe potuto sgravarsi di tutto ciò che è insopportabile: l’ingiusto avrebbe potuto seguire la propria strada di nequizie, svincolato dalle aspirazioni e dalle pastoie del virtuoso gemello; al giusto sarebbe stato dato altresì di procedere spedito e sicuro nel suo nobile intento, compiendo quelle buone azioni che lo avessero gratificato, senza essere più esposto alla gogna e al vituperio di un sordido compagno a lui estraneo. Era una maledizione del genere umano che questo eteroclito guazzabuglio dovesse così tenacemente tenersi avviluppato… che fin nel grembo tormentoso della coscienza questi gemelli antitetici dovessero essere in perenne tenzone. Come fare, allora, a separarli?”
Sappiamo come si sviluppa la vicenda: Jekyll riesce a separare il grano dal loglio, ma trasmutandosi dall’uno all’altro personaggio comincia a gustare il frutto dolcissimo del vizio:
“Ma l’intrinseco dualismo delle mie intenzioni gravava su di me come una maledizione, e mentre i miei propositi di pentimento cominciavano a perdere mordente, la parte peggiore di me, così a lungo appagata, e di recente messa alla catena, prese a ringhiare. (…) e come accade a chi persegue vizi privati, alla fine cedetti agli assalti delle tentazioni. (…) e questa breve condiscendenza al male che avevo in me finì per distruggere l’equilibrio della mia anima.”
Attratto sempre più dal vizio e dal peccato, Jekyll trova via via più difficile tornare in sé. Qualcosa di simile accade a Jake in Avatar: gli è sempre più arduo tornare uomo e preferisce di gran lunga restare tra i Na’vi. Non sono le lusinghe del peccato ad attrarlo, come nel caso di Jekyll, bensì la bontà, la fierezza, l’ingenuità e la vicinanza alla natura che ha scoperto negli indigeni. Pandora gli appare come un mondo gentile e incontaminato, mentre il suo mondo d’origine e la sua stirpe gli appaiono sempre più come il ricettacolo della violenza e della nequizie. Una differenza fondamentale tra il caso Jekyll-Hyde e il caso Jake-avatar riguarda l’ambiente esterno: entrambi Jekyll e Hyde vivono e agiscono nella Londra del XIX secolo, mentre Jake e il suo avatar vivono in ambienti diversissimi. Ne segue che la differenza tra Jekyll e Hyde è primaria ed è tutta interiore (l’aspetto ripugnante di Hyde non è che una proiezione della sua malvagità), mentre è l’abissale differenza tra Pandora e la colonia terrestre che finisce con il condizionare sempre più l’ex marine. Questi ha una mente unitaria, non scissa come Jekyll-Hyde, ma questa mente subisce una trasmutazione progressiva dovuta a cause esteriori. (Sarà un caso, ma tra Jekyll e Jake vi è una certa qual assonanza…)
Il passaggio che la mente di Jake compie dall’uomo all’avatar e viceversa è la trasgressione ripetuta di una soglia. E ad ogni passaggio, come dice Rilke, la soglia si logora un po’. Nel film questo logoramento ha per effetto la progressiva seduzione di Jake: il ritorno al suo stato umano, che dovrebbe essere quello autentico, gli è sempre più difficile. Si radica in Pandora, nella comunità dei Na’vi, vuole diventare uno di loro, s’innamora di Neytiri e si propone di sposarla: come una droga allucinogena e benigna, il pianeta alieno lo affascina e lo conquista, Jake dimentica la propria origine e tradisce il popolo dei terrestri. Non è necessario raccontare la trama, che ricorda tanti film americani in cui i “buoni” finiscono con il prevalere sui “cattivi”, con l’inevitabile corollario di luoghi comuni fin troppo scontati. Il pregio del film non è lì. E non è neppure nella raffinatezza filosofica e nella problematicità tecnologica: sotto questo profilo Blade Runner o Matrix lo superano di gran lunga.
Il valore di Avatar sta nella sconvolgente bellezza delle scene, nella resa “epidermica” delle ambientazioni virtuali (si pensi alla regione delle montagne fluttuanti che ricorda certi paesaggi cinesi, alla straordinaria maestosità dell’albero-casa, al volo rapinoso del Turuk e alla ricchezza espressiva e dinamica dei Na’vi), sta nelle sensazioni tattili e materiche che inondano e letteralmente sopraffanno lo spettatore. Un altro aspetto interessante, anche se meno spettacolare, sta nella ricreazione del mondo di Pandora: non soltanto la flora lussureggiante e la fauna esotica, non troppo dissimili da quelle terrestri per una sorta di convergenza evolutiva, vista la somiglianza chimico-fisica dei due pianeti (la lussureggiante dovizia floro-faunistica del pianeta alieno ricorda, anche simbolicamente, la foresta amazzonica), non soltanto la straordinaria vitalità e bellezza dei Na’vi, ma anche la descrizione della loro civiltà: la lingua, i costumi, le tradizioni, la religione, la fierezza e il senso dell’onore, i riti, la simbiosi con gli animali e la pietà per la selvaggina uccisa. E’ un po’ l’operazione che, su altra scala e con risultati molto più organici, ha compiuto Tolkien, agevolato dalla sua profonda cultura linguistica e folclorica, dando vita, nel Signore degli Anelli e in altre opere, al mondo fantasy della Terra di Mezzo.
Conclusione
Come abbiamo osservato, la continua trasgressione della soglia ne provoca il logoramento: superarla diviene sempre più facile. Ma questa facilitazione è unidirezionale: Jekyll trova sempre più difficile tornare nei propri onesti panni dopo essersi incarnato nel suo malvagio alter ego Hyde. Per Jake Sully il ritorno da Pandora è ancora più arduo, perché il male è dalla parte dei suoi congeneri. La mente dell’ex marine preferisce abitare l’avatar, che le offre esperienze più colorite e soddisfacenti, oltre che preferibili sotto il profilo etico. Non è ben chiaro come da ultimo Jake abbandoni definitivamente il proprio corpo umano e come l’avatar si trasfiguri in un Na’vi, ma la sacralità della cerimonia finale aiuta il regista a giustificare l’arcana transustanziazione.
L’incarnazione di un essere superiore in un corpo terrestre riecheggia molte tradizioni filosofiche e religiose, oltre quella induista cui si è accennato: prima fra tutte quella cristiana, in cui Dio, nella sua seconda persona, si fa Uomo per redimere l’umanità dal peccato originale. Anche nella filosofia platonica, come si legge nel Fedro, tutte le anime immortali assumono periodicamente un corpo terreno, o meglio si trovano incarcerate in esso. E non sono certo gli unici esempi di “discesa”.
Quindi gli avatar di James Cameron sono in buona compagnia.
Ma queste riflessioni vengono dopo: assistendo al film si subisce la sospensione dell’incredulità e si è trascinati dalle immagini spettacolose a trascurare l’analisi razionale del racconto e dei suoi snodi. Ed è giusto che sia così, se vogliamo immergerci nella narrazione, diventarne partecipi e quasi protagonisti.
Nota bibliografica
La traduzione dei versi di R. M. Rilke in esergo è di Enrico e Igea De Portu, Elegie duinesi, Einaudi, 1978.
Per i riferimenti a Alberto Giovanni Biuso si veda il suo La mente temporale. Corpo, mondo, artificio, Carocci, 2009.
Il sogno di Chuang Tzu (o della farfalla) è narrato da Borges in Nuova confutazione del tempo, Altre inquisizioni, Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, vol. I, Mondadori, 1984, pag 1085.
Le citazioni da Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, sono tratte da Romanzi, racconti e saggi di R. L. Stevenson, a cura di Attilio Brilli, Mondadori, 1982, rispettivamente: pag. 627, 628, 641.
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