Tribù dell’arte è stata l’intelligente formula post-moderna con cui Achille Bonito Oliva ha marcato l’esistenza di comunità d’artisti che vivono – o a noi pare che vivano – al di là dei vecchi continenti o delle vecchie nazioni o semplicemente dei luoghi deputati dell’arte, dei loro sistemi. Un titolo brillante – tribù dell’arte – in cui comunque l’estetico assorbiva in sé il sociale, la diversità dell’artista mimava i diversi della società, quei diversi a cui Bonito Oliva strizza l’occhio attraverso Totò (che sappiamo essere stato maschera non solo del Pittore ma anche di Tartan, eroe dell’innesto uomo-scimmia, società-branco).
Con il titolo Tribù della memoria si tenta un’altra strada. La memoria sta al posto dell’arte e l’arte – proprio in quanto assente dal titolo – viene evocata: invitata a pensare/sentire le inter-zone di senso per lei più pericolose, quelle a più alto rischio di contaminazione, e cioè quelle forme espressive che i sociologi hanno definito come estetizzazione della vita quotidiana e i mediologi hanno sintetizzato nella parola evento. L’ambiguo transito che a somiglianza di un noto slogan della sovranità possiamo dire “l’arte è morta, viva l’arte”.
Il progetto della mostra è nato dentro la attività laboratoriale di un master universitario molto atipico. Un master sugli eventi – la specificazione “culturali” si deve ad un eccesso di scrupolo tipico degli ambienti universitari – e quindi su contenuti formativi che riguardano proprio le soglie tra storia e presente, tra arte e esperienza ordinaria. Soglie rese sempre più fragili e indistinte dai comportamenti tribali innestati dalla progressiva destrutturazione sociale dei sistemi industriali di massa. Abbiamo dunque lavorato al di là dei territori mediali tradizionali, quelli che si esprimono nelle forme identitarie collettive e quindi quelli a cui fanno ancora ricorso sia i modelli seriali della televisione sia i modelli autoriali delle arti. Abbiamo fatto ricerca sul presente e non sul passato della memoria. Sulla memoria attiva, nativa, e non passiva, ereditata. Sulla memoria creatrice, quella che – nell’evento – si inventa in ogni istante un intero lampo di mondo. Questa non è una memoria data per sempre, una memoria a cui appartenere e al massimo da restaurare o cautamente correggere.. Questa è una memoria viva, è un gesto fondatore, l’ingresso in un luogo di appartenenza in cui sradicamento e riconoscimento coincidono. E’ iniziazione.
Una memoria territorio e non grande magazzino. Qui è dunque la tribù a prendere il sopravvento. E non lo prende solo sull’arte ma su tutto ciò a cui l’arte deve la propria aura, le proprie tradizioni e il proprio nome. Su tutto ciò, in sintesi, di cui i musei si sono fatti luogo di cura: ogni oggetto ritenuto significativo per il destino dell’uomo moderno. Sperando di costringere il futuro nella loro stessa matrice celebrativa, i musei – fattisi istituzioni e modelli sapienziali della storia e della società – hanno relegato altrove il senso riposto nel mito delle muse, le divinità multiple di un tempo che non distingueva tra poesia e memoria. La metafora del museo si erge a separare la memoria dal vissuto, la cultura dall’affettività, il sapere dai sensi. Così, tutto ciò che nell’esperienza quotidiana non traccia confini ma crea relazione immediata si è andato sempre più rivelando come vitalità simbolica – questa volta reale e non fittizia, presente e non assente – di tutto ciò che ogni macchina museale di tipo classico ha tentato e tenta di arrestare in sé, nella propria Verità.
Ma la tradizione moderna è bifida. Vero che la sua ideologia dell’arte ha consacrato il museo come grande metafora della proprietà capitalista (nella sua forma privata e pubblica), ma ancor più vero che sempre ancora all’arte moderna – e certamente non solo da ora ed anzi ora forse meno che in passato – si deve la forza di sradicamento, di deterritorializzazione, che molte po-etiche novecentesche hanno espresso contro e al di là della forma-museo, dei suoi canoni estetici e sociali.
A volere essere schematici: mentre le discipline di più solida complicità con la nascita della società industriale – e penso in particolare alla sociologia – sembrano essere poco sensibili a questo doppio movimento dei linguaggi espressivi della modernità, assai più capaci di coglierne senso e prospettive sono invece le discipline direttamente implicate nella svolta delle forme di comunicazione tra ottocento e novecento ma in particolare a partire dalle avanguardie storiche. E penso qui all’indirizzo di studi sulla comunicazione che a me piace chiamare mediologia.
Con alcune delle punte più estreme delle arti, la mediologia si intrattiene oggi assai più facilmente che con un sociologo della comunicazione di tipo ortodosso o con un imprenditore che pensi al marketing solo da economista o con un politico che abbia in testa l’audience televisiva invece che il senso delle cose-mondo. Le arti hanno ancora il linguaggio giusto per dire ciò che è difficile ascoltare, ciò che c’è ma non si vede, ciò che si vive ma non si sa dire.
Ecco perché siamo arrivati a coinvolgere otto artisti partendo da un tema vasto e trasversale come le forme di memoria tribale che fanno da battistrada alla qualità sempre più vocazionale dei nuovi consumi dei sistemi del tardo capitalismo post-fordista. Un’idea semplice e insieme sofisticata: scegliere la GNAM per farla essere teatro dal vivo di un inedito incontro tra prossimità e distanze di linguaggi della memoria tra loro diversi. Tribù versus Arte. Artisti versus tribù.
Lo spazio sociale in cui oggi tutte le istituzioni della memoria sono immerse ha perduto quei tratti di continuità e coesione che alla memoria sono necessari per sopravvivere, per prendere il sopravvento sulla vita. I segni più vistosi di questa progressiva disgregazione di grandi memorie condivise – grandi narrazioni – vengono dalla pluralità di voci che caratterizza i consumi del presente e la loro qualità centrifuga. Quella pluralità in un unico verso, pluralità generalista, va polverizzandosi nella singolarità delle moltitudini e – in tutto refrattaria ai tradizionali standard di mercato dei prodotti di massa e di nicchia – tende con pari forza, con altrettanta potenza, a riaggregarsi in nuove costellazioni: forme di vita affettiva tra loro distinte, autonome, ciascuna in cerca del proprio destino. Prima si trattava di una pluralità di consumatori inclusa in oggetti d’acquisto omogenei e comunque tra loro interdipendenti, ad alta connessione prestabilita. Ora, sullo stimolo e l’urgenza di altre connessioni, più profonde, più s-confinate, si tratta invece di un reciproco sciamare tra consumatori e oggetti di consumo verso condensazioni “altre”, verso sensazioni comuni, in comune, ma sostanza di “altri” riconoscimenti e “altre” congiunzioni: affinità elettive che si spingono fuori dei recinti identitari dei sistemi di massa e dei loro processi di socializzazione collettiva. Inseminazione di territori che richiamano non il tempo nuovo quanto piuttosto il tempo ciclico, quello che ignora la Storia.
Consumi vocazionali, si dice. L’etica weberiana viene messa al lavoro dal basso: Weber non più in fabbrica ma negli iper-mercati. Non più nella produzione ma nel consumo di capitale. Non più, quindi, obbligo della proprietà ma dis-obbligo del lusso, dell’eccedere. Disgregati i diritti celesti e terreni della proprietà, i paradigmi della conoscenza cedono alle forme intuitive e dispersive dei “visionari”, di coloro che abitano nell’imminenza delle loro visioni e ne percepiscono l’interiorità.
Mettere in comune una passione dominante, un univoco desiderio di appartenenza simbolica, determina processi che – per dirlo con il più classico dei linguaggi sociologici – tendono a spezzare l’ingannevole dialettica moderna tra comunità e società. La vocazione tribale recide il reciproco vincolo con cui la società ha nostalgia della comunità e questa desiderio di società. Un vincolo che ha riguardato – e forse ancora non può fare a meno di riguardare – tanto le istituzioni della politica come quelle dell’arte e della vocazione artistica.
La dimensione tribale originaria è quella di una comunità di corpi che calca di sé la terra, segna con la sua presenza i territori della propria stanzialità o del proprio nomadismo. La dimensione tribale del presente viene invece dopo il lungo trascorrere di territori dell’abitare che dalla città, dal libro e dalle merci si sono spinti sino alle piattaforme espressive dei media dello schermo. Oltre c’è la multiversalità delle reti digitali. Ma le tribù del presente sono insorte prima dei “millepiani” del cyber space. Si sono formate proprio nel punto di massima espressione e quindi anche di rarefazione dei regimi sociali collettivi instaurati dalla televisione. Questo è accaduto perché i linguaggi televisivi hanno progressivamente azzerato la storia, traducendo la memoria al di là dei suoi più consolidati confini strategici e rigettandola in zone sempre più prossime al mondo quotidiano, all’esperienza psicosomatica, istantanea, delle relazioni personali. La memoria è parola di qualcosa che non esiste in sé ma che si fa corpo grazie alla potenza immaginativa dell’esserci umano.
La comunicazione come arte – tecnica – della realazione, del con-venire in un luogo, del dare luogo al con-venire. Qui l’abitare non ha più il carattere storico-sociale del tempo moderno. Ciascuna tribù sceglie la vocazione su cui rifondare il proprio mondo, inventarne il passato e il futuro. Qui la memoria ha preso il posto che per le tribù originarie avevano la terra, il suolo, i materiali fisici da raccogliere, manipolare, trasformare.
Tribù che fanno mondi bricoleggiando con luoghi, figure e oggetti strappati al tempo della memoria e trasformati nei propri spazi di vita simbolica e affettiva: millepiani di natura o di macchine o di corpi o di sport o di avventura o di storia. Abili giochi di disincanto e reincanto. Qui, ad esempio, l’immagine di Napoleone – tolta alla letteratura, alla pittura e al cinema che ne hanno creato e custodito la mitica memoria – può essere clonata nel vivo di battaglie al presente, in appartenenze che prendono vita contro e non per la storia. Qui la memoria non è da studiare ma da vivere. E’ la reinvenzione di un set immersivo, di un esserci in cui conta assai più sentire che vedere. Il cui la vista è un “arto” come gli altri. Qui la lunga durata si fa brevissima. Quando l’abitare storico-sociale si rigetta nel tempo tribale, il cielo appare aperto ancora ad ogni artificio, a millemappe di enne sentieri.
Se dovessimo rifarci all’intenso rimpianto che Lukacs, nell’incipit della sua Teoria del romanzo, espresse nel verificare la scomparsa di un sicuro firmamento religioso in cui l’uomo potesse leggere il proprio destino, oggi, a un secolo di distanza, forse dovremmo – questa volta senza rimpianto ma almeno con qualche sofferenza e stupore – interrogarci a nostra volta sulla scomparsa degli orizzonti politici che proprio in quegli anni, al sorgere delle loro nuove promesse, avevano fatto svaporare per sempre le divine luci della Natura.
[Dal catalogo della mostra Tribù della memoria (Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 21/6-24/7, 26/7-4/9, 6/9-18/9 2005). Progetto elaborato presso il Master in Ideazione, management e marketing degli eventi culturali, Università di Roma “La Sapienza”]
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