Transidiomen
Un’introduzione alla teoria della modernità diffusa di Arjun Appadurai
Drita è Albanese, ha lasciato Tirana agli inizi degli anni 90, prima per la Germania e poi per New York, dove abita ad Astoria, nel Queens in un quartiere di cristiano-ortodossi greci. Questa residenza è stata scelta dal marito, Alket, dopo essersi convertito alla fede ortodossa in Grecia, durante una permanenza durata 5 anni. Drita parla correttamente albanese, tedesco ed inglese, parlicchia e capisce l’italiano. Alket parla correttamente albanese, greco, inglese ed italiano. Drita ha un fratello ed una sorella. Il fratello vive nello stesso abitato, due piani più in alto. La moglie del fratello, Susan, è di nazionalità tedesca, frutto di un matrimonio multietnico, il padre un immigrato turco, la madre una del posto. Susan ha vissuto 6 mesi a Tirana nella casa di famiglia ed ora parla albanese, tedesco e inglese. L’estate scorsa se ne è andata in vacanza nel villaggio d’origine del padre, in una zona della Turchia centrale dove si erano installati molti gruppi d’albanesi. In quel periodo ha fatto amicizia con delle vicine di origine albanese, in grado ancora di esprimersi in un albanese vecchio di 200 anni. Ha scoperto che usando l’albanese imparato a Tirana poteva comunicare agevolmente. La sorella di Drita, Ilirijana, vive anche lei a New York, nel Bronx. E’ sposata con un cittadino americano, George, nipote d’immigrati italo-albanesi venuti negli Stati Uniti all’inizio del secolo. La famiglia di George parla in privato arberesh, l’albanese delle comunità residenti in Italia, ed in pubblico inglese. La famiglia di George comunica con Ilirijana usando un albanese cinquecentesco, fissatosi all’epoca della migrazione di cattolici albanesi in Italia. Questo esempio di gruppo translinguistico non è certamente un nuovo fenomeno, da sempre gruppi sociali limitrofi e non, si sono appropriati delle rispettive lingue per scambi di ogni genere. Questa tendenza si è accelerata nei secoli, soprattutto a causa del ruolo svolto dalle varie politiche mercantili e coloniali occidentali nella creazione di varie lingue franche, pidgins, e linguaggi creoli.
Quel che più impressiona è che questo fenomeno translinguistico tardomoderno, che chiamerò il transidioma, avviene soprattutto nelle aree occidentali, in quei territori cioè dove negli ultimi due secoli, governi nazionali, intellettuali, gruppi di potere hanno lavorato alla progressiva standardizzazione della lingua, riducendo bilinguismi, sanzionando creolizzazioni e multilinguismi, distruggendo varietà dialettali, tutto per la creazione della lingua nazionale – ritenuta condizione necessaria per lo sviluppo di un’identità nazionale, e quindi per la creazione di uno stato-nazione solidale. Il fenomeno transidiomatico è uno dei prodotti del passaggio dal mondo delle nazioni all’universo della globalizzazione transnazionale.
Dopo due secoli di sovranità delle nazioni, ora la supremazia politica, sociale e culturale passa nelle mani degli organismi internazionali (FMI in testa, e poi ONU, NATO, CEE, ANSEA,…), delle corporazioni multinazionali, delle holdings di aiuti umanitari, delle varie forze di pronto intervento militare. In questo contesto cambia il regime di appartenenza, non più – o non solo – legato ad una terra, una lingua, un popolo, bensì ad un’area cosmopolita (fatta di aeroporti, hotels e ristoranti, luoghi di transito), ad un linguaggio globale, ad una comunità diasporica, corporation o organismo internazionale (governativo o non). In quest’ottica il transidioma è il risultato dell’intrecciarsi dei due processi sociali che stanno configurando questa tarda modernità: la mobilità delle persone e la comunicazione elettronica.
Media e migrazioni
Arjun Appadurai è lo studioso che più di ogni altro si è preoccupato d’investigare questa nuova configurazione antropologica, questo passaggio nell’evoluzione della modernità, da lui definita modernità diffusa (in originale “modernity at large” titolo del suo ultimo libro, pubblicato nel 1996 dalla University of Minnesota Press). Questa transizione epocale è caratterizzata da una rottura col passato che si manifesta attraverso una nuova configurazione comunicativa, frutto appunto dell’interconnessione di media elettronici e migrazioni sociali. Appadurai ha studiato le realtà post-coloniali soprattutto indiane, analizzate attraverso gli strumenti di lettura offerti dall’antropologia culturale (per lo più americana). Da questo punto d’osservazione, negli ultimi dieci anni ha messo a punto una riflessione teorica sulla cultura globale del mondo transnazionale che si avvale di esempi tratti da diverse fonti, anzitutto quella autobiografica: figlio della borghesia moderna indiana educato negli Stati Uniti è ora professore alla University of Chicago. Il suo campo etnografico si estende dai villaggi Tamil dell’India del Sud ai gruppi informatici della Silicon Valley. Al centro di questa riflessione, media e migrazioni assumono il ruolo di motori della trasformazione sociale e culturale. La prima parte di questa trasformazione avviene a livello delle comunicazioni di massa. Appadurai vede i media elettronici come la forza principale che ha trasformato il vasto campo dei mass media, comprese forme più consolidate di comunicazione sociale come la stampa o le assemblee politiche. La priorità accordata al mezzo elettronico non è segno di un feticismo ma deriva dal riconoscimento di due effetti mediatici: la capacità d’inglobare al suo interno tutte le forme di comunicazioni di massa pre-esistenti, e le nuove risorse e discipline (nel senso di Foucault) per la costruzione di identità immaginate e mondi immaginari. L’elettronica permette il costituirsi di un campo delle comunicazioni globale e variegato, al cui interno si ricollocano tutte le altre forme di mediazione comunicativa, dalla stampa, al cinema, alla telefonia, all’oralità faccia a faccia.
Ma l’effetto dei media elettronici non è solo tecnico-comunicativo. L’elettronico scatena vertiginosi esperimenti di autorifacimento dell’identità, sia individuale che sociale, permettendo la costruzione di possibili scenari di vita direttamente influenzati dal glamour delle stars cinematografiche o televisive, dalle fantastiche trame dei film d’amore, ma anche dalla realtà dei telegiornali, documentari, servizi giornalistici.
A causa della molteplicità delle forme in cui appaiono (cinema, televisione, computer, telefonia) e della rapidità con cui le immagini mediatiche si muovono nella vita quotidiana, i media elettronici ci forniscono le risorse per un auto-immaginarsi come progetto sociale quotidiano. Una giovane ragazza indiana il cui futuro è già stato deciso dalla famiglia può trovare nei film di Bollywood materiali per accettare la sua situazione oppure per opporvi resistenza, un giovane albanese improvvisamente decide d’imparare l’italiano per conoscere i testi delle canzoni di Al Bano, uno studente inglese s’improvvisa viandante dopo aver visitato il sito www di trekking nel Chianti. Come per i media, così per le migrazioni. Il fenomeno delle migrazioni (volontarie o forzate) non è certo un fatto nuovo nella storia umana, ma quando i flussi migratori si uniscono al rapido flusso mediatico di immagini, scenari, o emozioni, il risultato è un nuovo ordine d’instabilità nella produzione della soggettività moderna. Ogni qualvolta immigrati marocchini guardano videocassette di matrimoni a Beni Mellal nei loro appartamenti di Milano, coreani a Los Angeles si vedono le Olimpiadi di Seoul trasmesse in coreano via satellite, tassisti pachistani di New York ascoltano prediche registrate in moschee di Kabul o Teheran, assistiamo all’incontro tra immagini mobili e soggetti deterritorializzati. Questo fenomeno produce ciò che Appadurai chiama “spazi pubblici diasporici”, luoghi lontani anni-luce dalle logiche organizzative o corporative dello stato, animati come sono da un senso di appartenenza che non riesce più, o non solo, ad identificarsi con una dimensione puramente territoriale. Per Appadurai è importante capire che questa unione di mediazioni elettroniche e migrazioni di massa caratterizza il mondo presente non perché siano nuove forze, bensì perché mai come ora esse sono in grado di influenzare (e spesso determinare) il lavoro dell’immaginazione sociale su scala globale. Sia i testi elettronici che le migrazioni non rientrano più in circuiti facilmente riconducibili a realtà locali, nazionali, o regionali. Naturalmente non tutti gli utenti dei media sono degli immigrati, e molti eventi mediatici sono prodotti da logiche estremamente locali. Però bisogna riconoscere che sono ormai pochissimi i film importanti, notiziari radio, o spettacoli televisivi che non hanno riferimenti ad altri eventi mediatici provenienti da distanti realtà. E sono ormai pochissime le persone che non hanno amici, parenti, o colleghi di lavoro che sono in viaggio, sono appena tornati, oppure provengono da territori lontani, e portano con sé storie e possibilità diverse. Questa relazione mobile e cangiante tra eventi mediatici e pubblici migranti forma per Appadurai il nucleo centrale del legame tra globalizzazione e modernità. In questo contesto, la produzione di desideri di mobilità, voglie di cambiamento, fantasie emotive, non produce corpi totalmente emancipati né interamente disciplinati, ma apre uno spazio contestato e contestabile nel quale soggetti e gruppi sociali cercano di immaginare, dare senso, introducendo il globale nelle loro pratiche di vita quotidiana.
Il lavoro dell’immaginazione
E’ a questo livello che conviene riaprire una riflessione sul lavoro dell’immaginazione, e da subito riconoscerla come pratica sociale (da cui il termine “immaginazione” invece che “immaginario”). Per Appadurai, la più importante trasformazione subita dall’immaginazione negli ultimi decenni è di essere diventata un fatto collettivo, sociale. A prima vista sembrerebbe assurdo suggerire che qualcosa è cambiato nel ruolo dell’immaginazione nel mondo contemporaneo. Dopo tutto, ci siamo abituati a pensare a tutte le società come produttrici di molteplici espressioni artistiche, mitiche, e narrative. In tutte le società il ricorso a mitologie di vario ordine transcendeva e riconfigurava la realtà quotidiana, aprendo un complesso dialogo tra immaginazione e rituale in cui le norme del vivere quotidiano erano rese più complesse nel ricorso a pratiche d’inversione carnevalesca, a retoriche ironizzanti, a potenti atti performativi. Appadurai propone tre ragioni per spiegare il nuovo ruolo assunto dall’immaginazione nella tarda modernità. Innanzitutto, l’immaginazione non è più relegata agli spazi riservati e claustrofobici dell’arte, mito, o rituale ma è diventata parte del lavoro mentale quotidiano della stragrande maggioranza della popolazione mondiale. E’ entrata nella logica della vita ordinaria da cui in precedenza era rimasta quasi sempre esclusa (a parte singolarità come le grandi rivoluzioni, i cargo cults o i movimenti messianici). Ora però non solo è entrata nel quotidiano ma la ritroviamo diffusa in tutte le classi sociali, non più unico privilegio di un particolare gruppo (avanguardie artistiche, salotti letterari, gruppi rivoluzionari) ma strumento con cui chiunque può progettare nuove e singolari pratiche nella propria vita di tutti i giorni.
Questo fenomeno diventa chiaro nella contestualizzazione reciproca di migrazioni e mediazioni.
Sempre più persone immaginano la possibilità che essi stessi o i loro figli vivranno e lavoreranno in luoghi diversi da quelli in cui sono nati. Questi moti diasporici possono essere motivati dalla speranza oppure dal terrore e dalla disperazione (in casi di guerre, pulizie etniche, carestie, disastri naturali) ma hanno tutti in comune la capacità di far entrare nella vita quotidiana il lavoro dell’immaginazione-intesa come memoria e desiderio.
L’emergere dell’immaginazione nel quotidiano crea nuove mitografie che diventano statuti per creativi progetti sociali, e non semplici contrappunti alle regole e certezze della vita quotidiana. Dalla forza glaciale dell’habitus della sociologia francese (si pensi a Bourdieu) si passa ai rapidi spostamenti dell’improvvisazione come pratica sociale. Ed è qui che le immagini, gli scenari, i modelli, e le storie offerte dai mass media fanno la differenza con le migrazioni del passato. Chiunque si voglia muovere, si sia mosso, o voglia tornare a casa, raramente costruisce il proprio progetto senza l’aiuto di radio e televisione, cassette e video, giornali e telefoni. Per chi si sposta o decide di rimanere, sia le politiche d’insediamento che lo stimolo a muoversi o ritornare sono influenzati da un’immaginazione mediatizzata che sovente trascende l’ambito nazionale. In secondo luogo, Appadurai riconosce all’immaginazione mediatizzata un valore radicalmente diverso da quello sviluppato dai primi studi sui mass-media (soprattutto dalla scuola francofortese), dove l’immaginazione veniva travolta dalle forze del consumismo, del capitalismo industriale, e dalle generalizzata irregimentazione e secolarizzazione del mondo. In quest’ottica, i mass media diventavano il nuovo oppio dei popoli. Per Appadurai si tratta invece di vedere come il consumo dei mass media provochi non solo torpore ma anche resistenza, ironia, selettività, in generale capacità d’azione. Terroristi che si pensano Rambo, casalinghe che si vedono le telenovelas per dar senso alla propria vita, famiglie di musulmani raccolte intorno alle trasmissioni radio del loro leader islamico, sono alcuni degli esempi forniti per riflettere sulla capacità d’intervento sui media oggi a disposizione dell’umanità. L’immaginazione acquista così un senso progettuale, non rimane sterile fantasia, e può essere utilizzata non per fuggire la realtà ma per agire sul mondo.
L’immaginazione acquista infine un senso collettivo, non è più appannaggio di individui straordinari (come nel romanticismo) bensì capacità comune a tutti.
I mass media permettono pratiche collettive di lettura, critica ed intrattenimento che aggregano individui all’interno di gruppi chiamati da Appadurai “comunità di sentimento”, gruppi di persone che cominciano ad immaginare e sentire le cose in comune (il 77 bolognese con le sue strutture di case abitate da giovani aggregatesi intorno a Radio Alice, l’emigrazione studentesca meridionale, le assemblee universitarie, i graffiti ed i vari fogli di movimento è forse l’esperienza italiana che più si avvicina a questa definizione). Esperienze collettive dei mass-media, soprattutto film, video, o chat rooms informatiche, possono creare potenti solidarietà tra i consumers e permettere di passare dal semplice condividere una determinata emozione all’immaginare la possibilità d’azione collettiva. Per Appadurai, quel che distingue queste solidarietà da simili progetti del passato è il fatto di essere per lo più transnazionali, spesso postnazionali, e di operare quindi al di là dei confini della nazione. A queste sfere pubbliche coltivate nelle diaspore appartiene la sola possibilità di far politica nella mediatizzazione della modernità diffusa, nel bene come nel male, dall’attivismo pro-Tibet all’affare Salman Rushdie. E’ in questi momenti che possiamo vedere come processi globali – attivati da testi in circolazione allargata attraverso l’interazione con pubblici migranti – creino eventi implosivi capaci di collassare forze globali in piccole arene politiche, gestibili sì localmente, ma solo tenendo in mente la loro natura globale.
Transidiom
Mediazioni elettroniche e migrazioni sociali subiscono un’intensa accelerazione dovuta all’acquisita velocità delle comunicazioni, per cui ora il mondo può essere attraversato non solo in 24 ore ma in più direzioni e modi. E’ questo sviluppo rizomatico e centrifugo che caratterizza la modernità diffusa. I centri metropolitani perdono o vedono diminuita la loro capacità attrattiva perché possono essere facilmente superati per raggiungere direttamente il villaggio dove vive il cugino o la costa più distante. In questa deterritorializzazione parliamo tutti la stessa lingua, l’inglese, solo per poi accorgerci che nella pratica comunicativa dobbiamo considerare le numerose varietà locali se vogliamo essere capiti. Come il consumo può essere solo locale, così la ricezione dei messaggi comporta questa capacità di articolare flussi culturali globali nelle specificità del proprio essere nel mondo.
Vista in quest’ottica, la modernità sembra aver sempre meno a che fare con la linearità che dall’Illuminismo va fino ai progetti per lo sviluppo del terzo mondo elaborati nel dopoguerra, e sempre di più con il groviglio di micronarrazioni cinematografiche, programmi televisivi, musica ed altre forme comunicative utilizzate da pubblici diasporici per la costituzione del proprio essere nel mondo. Questo ci permette di riscrivere il concetto di modernità diffusa non nei macrolinguaggi delle politiche nazionali o internazionali, ma nei molteplici transidiomi della globalizzazione culturale.
Una lista di siti dedicati a cultural studies e letteratura postcoloniale
- http://www.upress.umn.edu/Books/A/appadurai_modernity.html
- http://members.tripod.com/~warlight/index.html
- http://members.tripod.com/~warlight/index.html
- http://www.uiowa.edu/~commstud/resources/
- http://www.ljudmila.org/nettime/zkp4/toc.htm
[Tratto dalla rivista Tempós mediaevo]
Testo in PDF (20 Kb)
Comments are closed