1. Futuro, passato e presente
a. La capacità proiettiva.
Immaginare il futuro può essere un esercizio rischioso, specie per chi si occupa di nuove tecnologie. Come in ogni sistema complesso, infatti, è sufficiente l’irruzione di una nuova variabile, la sottostima di un dato apparentemente insignificante o il mutamento impercettibile di qualche contesto per vanificare – e talvolta persino ridicolizzare – qualsiasi previsione. La Storia è costellata di vittime illustri e previsioni mancate. “Questo ‘telefono’ è troppo poco affidabile per essere seriamente considerato un mezzo di comunicazione. Non interessante” (memo interna della Western Union, 1876); “Macchine volanti più pesanti dell’aria: impossibile” (Lord Kelvin, membro della Royal Society, 1895); “Chi diavolo vorrebbe mai sentir parlare gli attori?” (H.M. Warner, della Warner Brothers, 1927); “Credo che nel mondo ci sia mercato per… mah, direi cinque computer” (Thomas Watson, fondatore dell’I.B.M., 1943); “I computer in futuro non dovrebbero pesare più di una tonnellata e mezzo” (l’autorevole rivista tecnica statunitense Popular Mechanics, 1949); “E… a che cosa servirebbe?” (un ingegnere dell’Advanced Computing System dell’I.B.M. commentando l’invenzione del microchip, 1968); “Credo proprio che 640 K saranno abbastanza per tutti” (Bill Gates, presidente di Microsoft, 1981. Oggi la RAM di base installata nei personal computer è venticinque volte maggiore). In quanti, prima del 1994, anche tra gli addetti ai lavori, avevano previsto la travolgente crescita di Internet?
Tuttavia è questa speculazione complessa e ingrata ai margini della veggenza e ai limiti della ricerca, i cui risultati riempiono gli spazi dei media, che viene sempre più richiesta a chi si occupa di tecnologie. La domanda non proviene solo dal mondo imprenditoriale o da quello della comunicazione ma, in forma di interrogativo forse meno esplicito ma non meno intenso, pervade tutto l’universo culturale. Cercare di conoscere e di controllare la dimensione a venire, anche solo col pensiero e l’immaginazione, consente di “prepararsi al futuro”, di adottare o adeguare azioni, strategie e comportamenti ritenuti appropriati al modello di futuro che cerchiamo di immaginare. L’obiettivo di questa immaginazione non è solo il “successo”, inteso nel senso lato di affermazione di un’attitudine, ma anche il miglioramento dell’immediato presente e delle condizioni di esistenza del futuro più prossimo. In tal modo la dimensione simbolica consente di immaginare e vivere il futuro in anticipo, di creare e mettere alla prova ipotetici modelli venturi per prepararsi al confronto col reale a venire, ponendone le basi.
Questa capacità simbolico-proiettiva, evolutasi nel volgere di milioni di anni, molto più sviluppata di quella degli altri esseri viventi, è lo strumento più efficace con cui l’umanità cerca di garantirsi il miglioramento della propria esistenza. Essa è ben più che una speranza proiettiva. Il fatto che questo tentativo spesso fallisca o si riveli illusorio non inficia i termini generali della questione. Una prova della sua efficacia e utilità biologica sta nell’influenza che la nostra specie ha acquisito sul controllo dell’evoluzione del proprio ecosistema, nella consapevolezza che oggi sta maturando verso le problematiche ambientali. In questa chiave l’attività delle formazioni ambientaliste e la sensibilità culturale al riguardo che ne sta derivando possono essere lette come tentativo comune della nostra specie di garantirsi la sopravvivenza e di migliorare l’esistenza.
b. Pensarsi al futuro
Nei confronti delle scienze e delle tecnologie la cultura occidentale ha un atteggiamento ambivalente. Da un lato su di esse impernia la propria immaginazione del futuro, dunque implicitamente riconosce loro una centralità rilevante. Ciò è avvenuto anche in passato, dall’avvento della capacità simbolica in poi, perché è a partire da essa che la dimensione proiettiva ha costituito il motore delle pulsioni evolutive e comportamentali della nostra specie, e le tecnologie che ne sono derivate hanno costituito gli strumenti su cui fondare la progettualità e il successo evolutivo. Affronterò meglio questo argomento in seguito.
Oggi quasi non esiste prodotto, attività, servizio, di qualsiasi tipo, anche i più comuni, che non siano comunicati insistendo su contenuti tecnologici o scientifici, persino nell’ambito di quei generi che si presentano come “naturali”. Ma se è vero che per molti aspetti la nostra cultura ha il culto delle tecnologie è egualmente vero che verso di esse nutre una diffidenza viscerale, quasi che tema i pericoli di una degenerazione. Come se la fascinazione e ad un tempo l’oscurità tecnologica nascondessero la conclusione dell’eredità culturale di cui siamo parte e l’avvento di una sorta di alterità verso la quale siamo inadeguati, in cui non ci possiamo più riconoscere. Ciò forse ha a che fare con la capacità proiettiva e la progettualità della nostra cultura, in grado di spingersi più avanti nel tempo di quelle dei nostri avi, limitate dall’hic et nunc della sopravvivenza, da un impatto più duro col mondo, da una vita media più breve, dalle minori conoscenze… L’odierna progettualità è temporalmente più ambiziosa, si fanno previsioni che si spingono fino alla metà del prossimo secolo, esistono svariati istituti che si occupano solo di questo, la nostra operatività e la nostra vita si basano su aspettative misurabili in anni se non in lustri, ciascuno di noi è impegnato a pensarsi al futuro, a “programmarlo”, a viverlo e organizzarlo in anticipo.
Questa attività proiettiva, tuttavia, è costellata di fallimenti. Spesso le politiche economiche, sociali, la ricerca, sono accusate di miopia o di non essere abbastanza lungimiranti; fenomeni di massa, esodi, migrazioni, eventi naturali e sociali ci trovano spesso impreparati. La possibilità di controllare un futuro che si sposta in avanti nel tempo e che richiede previsioni a lungo termine si scontra con l’inevitabile innalzarsi geometrico delle probabilità di intervento di nuove variabili. Si scontra col fatto che ciò che deve adeguarsi al futuro, l’organizzazione dei sistemi sociali (dalla burocrazia delle nazioni all’attività delle società commerciali, dalle dinamiche comunitarie fino alla vita del singolo), è già di per sé un sistema ad elevata complessità. Tutto ciò in un processo di internazionalizzazione di scambi, relazioni e culture che rende globali le variabili. Se quindi è sempre più importante interrogarsi sul futuro, questa attività diviene sempre più complessa via via che si sposta in avanti nel tempo: quanto più questo futuro è proiettato in avanti, tanto meno è prevedibile; ma quanto meno riusciamo oggi a prevederlo, tanto più ci coglierà sprovveduti.
Questa dimensione proiettiva non va confusa né col sogno né con l’utopia. Il sogno è una forma di immaginazione libera il cui legame fattuale col presente e col reale può essere, e in genere è, molto debole. Il sogno è una forma di trascendenza del reale, un’attività psichica in cui il nesso di causalità col reale si situa a livello pulsionale ed emotivo e si struttura in maniera non logica, e infatti il significato del sogno è spesso incomprensibile persino a chi lo fa. Si sogna ciò che, anche se sembra reale, per definizione è irrealizzabile o illusorio. Il sogno è un esercizio della fantasia e dunque non influenza direttamente la nostra dimensione pratica (in ciò sta il suo fascino). Il suo valore profetico, se esiste, sfugge alla logica, il sogno deve essere infatti interpretato. Il sogno è un evento straordinario e irrazionale, non programmabile, inaspettato, imprevedibile e incontrollabile: un’epifania, l’illuminazione improvvisa e abbagliante di un’insondabile oscurità.
Dal canto suo la dimensione utopica, nonostante la sua pretesa regolativa del reale si colloca al di fuori della storia. Nasce da una progettualità del tutto ideale, con scarse radici nell’attualità pratica, la cui attuazione implica la necessità di un azzeramento dell’esistente a favore di una speranza proiettiva finale auspicabile e conclusiva. L’utopia è tipicamente un sistema teorico normato rigido e coeso la cui strutturazione non scaturisce da aspettative e pulsioni concrete provenienti “dal basso” ma da astrazioni teoriche generalizzate e formalizzate provenienti “dall’alto”, da una prospettiva particolare che si pone come assoluto universale.
Rispetto al sogno e all’utopia la dimensione proiettiva si fonda invece sulla progettualità e sulla concretezza, sul confronto e sulla verificabilità, sulla coniugazione del presente al futuro. È il prolungamento dell’esistente, le sue radici affondano nella dimensione pratica dell’esistenza. Quando ci pensiamo al futuro noi non sognamo, né teorizziamo l’assoluto, bensì costruiamo.
c. Ricostruire il passato e archiviare il presente
Accanto alla dimensione proiettiva, in stretta relazione con essa, in forma compiuta almeno dal Settecento, oggi esiste anche una grande sensibilità verso il passato, un rispetto e un comportamento di fedeltà al testo(scritto, oggetto, immagine, edificio, monumento…) paragonabili a quelli che il Medioevo nutriva nei confronti dei libri dell’antichità. Per noi i testi del passato devono riacquistare il loro volto originario, quello “della prima volta”, attraversare il tempo che inesorabilmente li separa da noi perdendo il minimo di informazione. Come per il compilator medievale, che non aggiungeva al Libro mai nulla di suo, così il nostro inevitabile intervento di interpretazione nella ricostruzione o nel restauro deve essere il più possibile “neutro”, non invasivo. Lo testimoniano le discussioni che si accendono intorno al restauro di affreschi: sono i colori originali? È giusto riportare alla luce un “pentimento”, un disegno o una sinopia che erano stati coperti?
Così, mediante vari metodi di individuazione, analisi, restauro, catalogazione, conservazione e presentazione, tutto un passato che si estende dagli albori della vita fin quasi all’altro ieri viene rinvenuto, raccolto, catalogato, ricomposto, ricostruito, preservato, organizzato, registrato, archiviato, interconnesso, studiato, mostrato…, messo agli atti del futuro. Se ogni testimonianza dice della civiltà che l’ha prodotta, se è unamemoria di essa, allora anche l’oggetto più insignificante può rappresentare una chiave preziosa per comprendere quella cultura, da cui discendiamo, e mediante essa la cultura in cui viviamo, il presente, noi stessi.
Noi disponiamo di una poderosa collezione di vestigia del passato che continuamente viene arricchita da nuove acquisizioni. A differenza, per esempio, dei Romani, che riutilizzavano i materiali dell’antichità all’interno della loro cultura materiale (basta visitare i Musei Vaticani, in particolare la sezione di statuaria, per vedere moltitudini di corpi decollati la cui testa originaria è stata sostituita con quella di modelli successivi), la nostra riattualizzazione del passato passa attraverso la dimensione simbolica della conoscenza e dell’informazione.
A questa imponente collezione si aggiunge, in vertiginoso accrescimento, quella del presente, egualmente analizzato, sondato, organizzato, schedato, riprodotto, meticolosamente archiviato, conservato, interconnesso, mediante gli strumenti e i supporti dell’elettronica e dell’informatica. Il grande sviluppo e la diffusione delle tecnologie incidono pressoché su tutti gli ambiti della nostra esistenza. Porzioni sempre più rilevanti della nostra vita quotidiana possono essere monitorate e archiviate all’interno di qualche remota banca dati per essere richiamate e usate per qualche finalità, anche a nostra insaputa. Ciò ripropone, accanto alle potenzialità democratiche, di rappresentatività diretta insite nei nuovi media, le delicate e irrisolte questioni del rapporto tra democrazia e controllo sociale. Nella società del futuro questi due aspetti saranno contigui, separati solo da una labile e delicata cortina legislativa.
Questa gigantesca banca dati, questa cultura della quantità che fa della nostra, più di ogni altra nel passato, la civiltà della memoria e dell’archivio, dei musei e dell’anamnesi, viene incessantemente tradotta in informazioni nella speranza che la sua dimensione qualitativa possa illuminare il presente e contribuire a controllare il futuro. E tuttavia questa dimensione della memoria è frammentaria, il suo senso rimane oscuro, non riusciamo a derivarla rispetto al tempo per espungere un sapere risolutivo per il presente e decisivo per il futuro.
2. La capacità simbolica come strategia evolutiva
a. La fondazione del sapere
Dunque, nonostante sia un compito complesso, pensarsi al futuro è un comportamento normale. Acquisendo conoscenza mediante modelli del passato e del presente è possibile comporre un modello di futuro in cui immaginare l’esistenza. Quanto meglio conosciamo ciò che è stato e ciò che è (quanto più le informazioni sul passato e sul presente sono abbondanti e precise), tanto meglio riusciremo a immaginare ciò che sarà, e, se la previsione è corretta, ad avere successo. È mediante questo processo, tutto compreso all’interno della dimensione simbolica, che la nostra umanità si è evoluta fino a imporre le proprie leggi sul Pianeta. E, per quanto ne sappiamo dall’etologia, siamo l’unica specie ad aver fatto di questa abilità il proprio genio, basando su di essa una parte rilevante della conoscenza e della cultura.
Ma che cosa ha significato per la nostra specie inventarsi e imparare a usare i segni, scambiare e condividere informazioni sempre più velocemente ed efficacemente nello spazio e nel tempo? Come ha inciso questa evoluzione sulla nostra cultura?
Sappiamo che, in linea generale, la conoscenza – il sapere – degli organismi viventi è fondata su due modalità di trasmissione che si influenzano a vicenda. Un tipo di conoscenza, innato, deriva dall’eredità genetica che contiene sia le linee evolutive della specie che quelle dell’individuo. La trasmissione genetica delle informazioni determina ciò che l’individuo è, contiene le specializzazioni che nel corso di innumerevoli generazioni si sono prodotte per selezione naturale. La seconda modalità di trasmissione è culturale, e si determina mediante un sapere maturato e appreso dal confronto dell’individuo con l’ambiente e coi suoi simili. L’eredità genetica è più generale e contiene in potenza tutti i comportamenti dell’individuo, ma procede per generazioni, i suoi meccanismi dipendono dalla selezione naturale e dal caso. Può essere lenta e fragile rispetto ai mutamenti dell’ambiente, e quando il sapere che contiene si rivela inadeguato a fronteggiare il contesto (rapidi mutamenti dell’ambiente, l’irruzione competitiva di altre specie…), la specie si estingue. Il sapere culturale, invece, nonostante non sia primario e debba essere compatibile con quello genetico, è più agile. Siccome non è radicato nell’organismo, per trasmettersi non dipende dai cicli generazionali degli individui. È un sapere più plastico, adattabile ai contesti e alle situazioni, nasce anzi in risposta alle varie occorrenze ambientali, contribuendo a stabilizzare e a migliorare il rapporto dell’individuo col mondo. Poiché è un sapere comportamentale, può essere appreso e condiviso, quindi trasmettersi e diffondersi molto più rapidamente di quello genetico.
Nella notte di tempi senza memoria un nostro avo arcaico sviluppò la capacità di utilizzare una parte del corpo per indicare ciò che lo circondava. Da questa prima acquisizione, i segni indicali, si è evoluta quella capacità di mediare il mondo e di condividerlo che ha rappresentato il vantaggio peculiare dei nostri predecessori sull’ambiente e che oggi costituisce il nostro habitat primario.
Ma in che cosa consistono questo vantaggio e questo habitat? Per cercare di capirlo dobbiamo regredire all’indietro nel tempo. Prima della parola, dell’immagine, della scrittura, in un mondo dominato dalla primità dei meccanismi naturali.
b. Viaggio al termine della capacità simbolica. I segni indicali e il linguaggio orale
Per “dire” un oggetto con l’ostensione diretta bisogna che esso sia a portata del corpo e che entrambi abbiano un ordine di grandezza paragonabile (non è possibile ostendere una montagna, o la Luna). Il corpo deve avere una prossimità fisica o un contatto diretto con l’oggetto, quindi quest’ultimo non può essere distante, troppo grande o pericoloso per l’individuo. L’ostensione diretta limita notevolmente le possibilità di comunicazione, il mondo è a contatto diretto del corpo. I segni indicali aprono numerose opportunità in più: diviene infatti possibile, con una piccola parte del corpo, “dire” oggetti le cui dimensioni fisiche possono di gran lunga superare quelle del corpo, indicare situazioni pericolose per l’individuo e la collettività, mostrare contesti. E, ciò che è importante, consentendo di affrancarsi dalla prossimità fisica con queste occorrenze, i segni indicali iniziano a stabilire una distanza simbolica “di sicurezza” dal reale fenomenico. I segni indicali cominciano ad allontanare il fiato diretto del mondo sull’individuo, con essi i nostri avi remoti iniziano a costruire un riparo simbolico. Tuttavia, coi segni indicali non è ancora possibile inventare i contenuti della comunicazione: quei gesti devono avere dei referenti reali, quegli oggetti e quelle situazioni non possono essere astratti, devono essere là, esistere fisicamente ed essere compresenti agli attori della comunicazione.
Col linguaggio orale, di cui la specie umana è l’unica depositaria, si apre invece la possibilità di comunicare, ancora con una piccola parte del corpo, oggetti ed eventi non necessariamente compresenti all’atto comunicativo, anche lontani nello spazio e nel tempo, ma, soprattutto, che possono anche non esistere nel mondo fisico. Diviene possibile astrarre, evocare, ricostruire, descrivere e comunicare realtà anche soltanto possibili, liberando la comunicazione dall’obbligo della referenza reale, materiale. Col linguaggio orale si possono produrre costrutti inventati, è facile mentire. Si possono trasportare e comunicare mondi virtuali, condividerli, discuterli, modificarli, arricchirli, tramandarli; si può produrre un sapere comune separato dalla sostanza del reale fenomenico, riflettere sul mondo senza bisogno di toccarlo o di mostrare la sua presenza.
Lo spazio del linguaggio orale diviene il luogo dell’astrazione, delle ipotesi, dello scambio, della condivisione, dell’accumulo e della trasmissione di informazioni, esperienze, valori, luogo di mediazione dei conflitti. Riflettendo su se stesso il linguaggio pone le condizioni per trascendere l’hic et nunc fisico e creare un mondo parallelo. È il primo laboratorio in cui, mediante l’elaborazione di modelli simbolici, si possono sperimentare indirettamente ipotesi e costrutti e simulare il loro impatto col reale fenomenico, originare una progettualità capace di produrre artefatti complessi. Interposto tra l’individuo e il reale fenomenico, lo spazio del linguaggio orale li allontana ulteriormente, e mentre crea una rete per possedere e interpretare il mondo accresce quella distanza simbolica “di sicurezza”.
La comunicazione orale, tuttavia, ha ancora dei limiti fondamentali. Richiede la compresenza fisica spazio-temporale degli individui, a una distanza tale da poter essere comprensibile, e soprattutto l’informazione orale, senza l’impiego di tecniche di registrazione, non può essere conservata che con la memoria individuale, non può assurgere a documento. Il sapere che produce non può essere esattamente fissato e trasmesso, e, in mancanza di tecniche affidabili di comunicazione a distanza come quelle odierne, vive della dimensione locale, esiste solo con gli individui che ne sono depositari, che l’hanno creato e tramandato. Quando questi vengono a mancare, quel sapere si perde per sempre.
c. L’immagine e la scrittura
È possibile fornire solo un’indicazione temporale orientativa, all’incirca da quattro a due milioni di anni fa, per lo sviluppo del linguaggio orale negli ominidi. Si ritiene che alla fine del Pleistocene medio, circa cinquantamila anni fa, con gli ultimi uomini di Neanderthal, il linguaggio orale sia ormai in grado di comunicare complesse informazioni concrete e astratte. Gli sviluppi successivi riguardano soprattutto la conservazione dell’informazione e la sua trasmissione codificata mediante mezzi meno effimeri dei gesti e delle parole.
Al di là di qualche scarno indizio precedente, è con l’Homo sapiens sapiens, fin dal suo primo apparire all’inizio del tardo Pleistocene (circa quarantacinquemila anni fa), che inizia l’età figurativa, che si svilupperà nel tardo Paleolitico. Con l’immagine viene data una forma visuale a idee, pratiche, situazioni, comportamenti, fissandoli nello spazio e nel tempo per molte occorrenze in maniera più sintetica e precisa rispetto all’oralità. Il sapere viene appuntato al di fuori del corpo, nello spazio sociale, dove permane al di là delle parole. Talvolta questo sapere configurato in immagini è così resistente che riesce a superare le decine di migliaia di anni che lo separano da noi, anche se non lo iato culturale che ci divide da esso.
Infine, con la scrittura, circa cinquemila anni or sono, ha inizio la Storia. Le informazioni, in configurazioni codificate, sono poste all’esterno dell’individuo. Diviene ora possibile fissare il sapere al di fuori del corpo (anche qui impegnandone una piccola parte), in forma stabile su supporti durevoli. Questo sapere viene reso duraturo, controllabile, verificabile, diffondibile nello spazio e nel tempo, è possibile percorrerlo e approfondirlo anche in assenza della presenza fisica dell’estensore del testo, può essere condiviso da individui estranei a quel sociale che l’ha originato, è fruibile da altre culture, può essere utilizzato e tramandato come documento. L’immagine e la scrittura inseriscono l’informazione su supporti materiali durevoli in configurazioni visuali spazio-temporalmente stabili, attivabili e richiamabili, riproducibili, immagazzinabili e conservabili al di fuori del corpo. La memoria culturale, intesa come collezione quali-quantitativa di dati, si scinde dall’individuo e viene esteriorizzata e conservata al di fuori di esso. La conoscenza codificata è ad un tempo sapere, memoria e documento, traccia e certificazione dell’esistenza.
Con l’immagine e la scrittura si accresce la capacità di controllo sul presente e la capacità progettuale sul futuro, e nel contempo si estende il diaframma culturale col mondo reale, che viene trasdotto e metabolizzato all’interno della dimensione simbolica dai vari strumenti di cui ormai essa si serve. Il confronto col mondo fenomenico si trasferisce sempre più massicciamente all’interno di questa dimensione, che finisce col costituire il laboratorio in cui sperimentare il rapporto col reale fenomenico in tutta la sua complessità macroscopica e microscopica. La dimensione simbolica diviene un universo sempre più autonomo in perenne ampliamento e ristrutturazione che si affianca e si sostituisce a quello della realtà fenomenica.
Mediante la capacità simbolica l’umanità ha quindi allontanato l’esperienza fisica diretta del mondo fenomenico delegando questo rapporto a modelli, artefatti, “rappresentazioni”, e ha intrapreso quel lungo cammino che l’ha portata alle odierne conquiste tecnologiche. Si è così ampliato, sostituito da questa delega, lo iato col mondo reale, i suoi confini con l’habitat simbolico sono divenuti sfumati. È in gran parte all’interno di questo habitat che noi oggi viviamo e che in futuro vivremo in maniera sempre più estesa. Ma è proprio grazie a questo habitat, reale quanto quello fenomenico, utilizzandolo come filtro, cognitivamente e come protesi, che la nostra specie ha conseguito, strettamente correlati tra loro e vitali per la sopravvivenza e il successo evolutivo, i tre obiettivi fondamentali di protezione dal mondo reale (grazie a quel diaframma “di sicurezza”), diconoscenza del mondo reale (grazie all’uso e alla condivisione dei modelli simbolici) e di effettualità sul mondo reale (grazie agli artefatti che da questi modelli sono scaturiti) [1]
La capacità simbolica e gli artefatti originatisi da essa hanno conferito all’umanità una straordinaria adattabilità e stabilità, le hanno consentito di diffondersi in ambienti molto diversi senza significative mutazioni biologiche. Questo sapere è riuscito a controllare porzioni sempre più ampie dell’ambiente, a intervenire positivamente sui meccanismi ereditari, sul corpo, sulle condizioni di esistenza (dall’aumento della durata della vita media alla varietà delle tecniche mediche), ha allontanato lo spettro della selezione naturale, è divenuto un vero è proprio habitat. Questa eredità culturale, che si evolve molto più rapidamente di quella genetica, è divenuta preminente nella nostra evoluzione, probabilmente per la prima volta nella storia della vita sul nostro pianeta.
Grazie alla facilità di condividere, trasmettere e diffondere informazioni simboliche, in maniera di gran lunga più rapida ed estesa delle possibilità genetiche; grazie alla modifica e all’ampliamento di questo sapere mediante l’apporto delle varie collettività che l’hanno condiviso, discusso e diffuso nello spazio e nel tempo; grazie all’espansione della dimensione simbolica, delegata a rappresentare, sostenere e mediare il rapporto fisico col reale fenomenico, è migliorata l’interazione col mondo, la sua conoscenza, la possibilità di controllarlo impossessandosene teoricamente e praticamente, in un processo di accelerazione che vede oggi nelle tecnologie del virtuale gli strumenti più recenti. Dai supercalcolatori con cui studiamo, elaborando modelli simbolici, i segreti più intimi della materia alla comunicazione planetaria “in tempo reale”, dai viaggi su Marte alle acquisizioni della medicina, sono tutte conquiste che derivano da queste possibilità.
La capacità simbolica ha migliorato il sapere e l’ha proiettato nel futuro. Quel che hanno fatto le tecniche e le tecnologie posteriori alla scrittura è stato soprattutto rendere più massicci, efficienti, affidabili, rapidi ed estesi lo scambio e la condivisione di informazioni. La dimensione del “virtuale tecnologico” è il volto contemporaneo dell’evoluzione di quell’antica capacità. Del resto spesso i nuovi media, alle origini della loro tecnologia, ricapitolano le tappe di questa evoluzione. Per esempio, per spostarsi nei mondi della realtà virtuale bisogna indicare alla proiezione virtuale di noi stessi l’obiettivo verso cui muoversi.
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[Testo originariamente pubblicato in Mario Morcellini, Michele Sorice (a cura di), Futuri immaginari, Roma, Logica University Press, 1998]
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Note
- Cfr. il nostro “Il trionfo del corpo”, in Pier Luigi Capucci (ed.), Il corpo tecnologico, Bologna, Baskerville, 1994. [↩]
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