Le società di tradizione sciamanica attribuiscono a una élite di uomini una sorta di potere misterioso, a cui si dà generalmente il nome di mana. Il mana, come si evince dall’opera di Marcel Mauss1), è insieme un essere, un’azione, una forza, una qualità e uno stato: è ciò che dà nome alle cose senza nome, è la formula magica e al contempo ciò che fa sì che essa produca un effetto; è il mago e il suo potere, il quale agisce in un ambiente mana e su cose che sono anch’esse mana.
Essendo parte di una realtà magica arcaica, il mana ha un equivalente in altri luoghi e in altre tradizioni, dove viene chiamato in modo diverso (horenda, manitu) ma che serve a designare lo stesso contenuto semantico, che noi possiamo cercare di definire con il nome di “realtà invisibile”.
Realtà invisibile è dunque un termine che fa riferimento al mondo magico e alle forme di ritualità che presiedono a queste società, ancora lontane dallo sviluppo tecnologico e industriale dei paesi ricchi.
Realtà invisibile è un concetto che a noi può apparire un ossimoro, se consideriamo il suo contenuto semantico in relazione alle regole fondamentali del linguaggio, quest’ultimo inteso come il prodotto delle relazioni tra significante e significato; così come esso ci può apparire indimostrabile dal punto di vista scientifico, se guardiamo la scienza come metodo di sapere empirico, basato sull’osservazione diretta dei fenomeni così come essi appaiono.
Per capire cosa si intende per Realtà invisibile è necessario spostarsi su un altro piano della conoscenza, su uno strato che si estende sotto la superficie della realtà così come comunemente noi la percepiamo.
Esiste infatti sotto la superficie del mondo uno strato in cui sono state impresse le tracce dei gesti che sono stati compiuti per centinaia di anni in relazione al territorio e che sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo. Ed è su questo strato di realtà celata, poetica, legata alla trasmissione di memorie e al rituale, che si possono cogliere forme di percezione extrasensoriale, forme subcoscienti del reale.
Jaron Lanier, inventore e guru dei sistemi di Realtà virtuale, definisce quest’ultima come “realtà oggettivamente condivisibile, disponibile per l’umanità dopo il mondo fisico”2).
È interessante mettere in relazione questa definizione con quella di telepatia, offerta da Shirokogoroff in riferimento agli sciamani tungusi, quale “elemento che si esteriorizza in forma di sostanza immateriale – anima – e che comunica con l’anima delle altre persone”3), per rendersi conto di come l’uomo abbia da sempre cercato di trasgredire i limiti del reale allo scopo di estendere le proprie facoltà cognitive.
Essendo infatti le tecnologie digitali pensate come “tecnologie del possibile”, esse tendono a “de-realizzare”, a togliere alla realtà materiale quell’aura di univocità e di immodificabilità con cui ogni essere umano si trova, da sempre, a dover fare i conti.
Ad ogni modo, per capire meglio il significato di Realtà Virtuale è necessario dare una definizione della nozione di cyberspazio. Secondo l’etimologia della parola cyber, che significa “navigante”, il cyberspazio si qualifica come un ambiente virtuale che l’uomo è in grado di navigare attraverso i dispositivi di interfaccia che sono messi a disposizione dalle nuove tecnologie.
Egli ha così la facoltà di scegliere di estendere le proprie facoltà cognitive e di immergersi in un mondo fittizio ma realmente percepibile, nel quale ha la possibilità di avere esperienze con altre entità intelligenti che non hanno riferimento umano al di fuori del sistema.
In questo mondo de-realizzato il corpo materiale non esiste più, almeno così come noi siamo abituati a pensarlo in relazione all’ambiente: c’è solo una personalità disincarnata che può operare nel cyberspazio.
William Gibson ci parlava di un mondo in cui “digitare se stessi” è destinata a divenire una condizione normale, in cui la manipolabilità e l’intercambiabilità dei corpi li spoglia completamente di ogni residuo carattere sacrale e misterioso, per farne elementi di puro segno, dei significanti fluttuanti, che abbiano completamente smarrito il loro significato.
È proprio questa condizione del divenire segno, propriamente segno digitale, offerta dalle RV, e soprattutto dalle RV di tipo immersivo, che entra in vibrazione con la poetica dell’invisibile.
L’invisibile è un dato latente di realtà che non ha mai raggiunto la superficie del linguaggio e che è rimasto allo stato di sensazione e di percezione extrasensoriale. Esso non risponde allo schema comunicativo emittente–ricevente poiché, nell’ambito dell’esperienza, non tutto può essere comunicabile attraverso un messaggio con ricevuta di ritorno, e non tutto può avere un segno corrispettivo del proprio significato.
Quest’ultimo aspetto apre gli orizzonti dell’efficacia simbolica, della manipolazione dei segni, dell’evocazione della formula giacché, come afferma Claude Lévi-Strauss “solo la storia della funzione simbolica potrebbe permettere di render conto di quella condizione intellettuale dell’uomo, che è che l’universo non significa mai abbastanza e che il pensiero dispone sempre di troppi significati per la quantità di oggetti a cui può applicarli”4).
In questo senso si è espresso anche lo stesso Lanier, per il quale il linguaggio è “un fiumiciattolo molto piccolo che scorre sul piano della realtà, ma ne lascia fuori un bel po’…è un flusso di simboli discreti, mentre il mondo è fatto di continuità, è fatto di gesti”5).
Se quindi nel mondo contemporaneo, nel mondo che oggi ci circonda, l’invisibile è ciò che è legato alla nostra produzione di immaginario, nel mondo magico ad esso viene data esplicita intenzionalità ed efficacia. Infatti, se un indiano si perde nella macchia e subisce quello che per noi è un attacco di panico, egli dirà che uno spirito della foresta si è impadronito di lui e gli ha rubato l’anima. È importante tener presente quanto nel mondo magico il pericolo della perdita dell’anima sia un fatto fondamentale nella vita di ogni individuo, nonché un fenomeno di natura collettiva e un valore sociale.
Un esempio di quanto l’invisibile possa divenire efficace ci viene dato dal fenomeno del latah, tipico dei Malesi. Si tratta di una particolare condizione psichica, legata alla perdita del sé, in cui l’indigeno si trova nel momento in cui viene colto da una forte emozione improvvisa: si dice che quando una persona latah viene attirata dal movimento dei rami di un albero scossi dal vento, essa comincia ad imitare compulsivamente tale oscillazione; in un altro caso, due persone latah, sorprese da un rumore brusco, entrarono in una condizione di rispettiva ecocinesia, per cui si misero ad imitare l’uno i gesti dell’altro.
Per percepire l’invisibile bisogna lasciarsi cogliere dagli eventi imprevedibili, inaspettati, e viverli. Sentire l’invisibile significa perdersi. Secondo Franco La Cecla, perdersi è “la distrazione episodica o cronica da cui siamo affetti nelle relazioni con l’ambiente che ci circonda”6).
Io credo che questa distrazione sia diventata la condizione quotidiana dell’uomo nella società contemporanea: infatti, non essendo più al centro dell’universo, l’uomo non è più in grado di capire la realtà e dunque di dominarla, poiché l’accelerazione storica e mediatica che ci investe ogni giorno ha contribuito a creare una condizione di forte destabilizzazione che l’uomo non è più in grado di gestire.
Il ciclo panico-depressione, per dirla con Franco Berardi, ciclo a cui siamo continuamente indotti dal vortice della nostra società occidentale contemporanea, è il segno palese di destabilizzazione dell’io che viene risucchiato dal magma dell’infosfera.
È chiaro come da sempre l’uomo nutra un sentimento di angoscia e di paura nei confronti di quello che non riesce a comprendere e a decifrare; in generale, è nei momenti di crisi, o quando cominciano ad apparire accadimenti insoliti, che si manifesta il pericolo della messa in discussione della propria presenza e si sente il bisogno di ristabilire un certo ordine degli eventi. Questo è altresì ciò che accade nel mondo magico e che costituisce l’essenza del dramma.
Ma il pericolo che l’orizzonte entri in crisi è un fatto che può verificarsi in ogni esistenza poiché, in situazioni particolari di forte sofferenza e privazione, anche un esserci pienamente affermato e radicato può non resistere a tale tensione e cedere all’instabilità. Tutto, ad un certo punto, può rimescolarsi ed essere messo in causa, anche quando ogni cosa sembrava essere garantita poiché, come ha sottolineato giustamente Ernesto De Martino, la nostra presenza al mondo è un bene storico e, in quanto tale, perfettamente revocabile. In questo senso egli ci ha lasciato parole che ora suonano come una profezia: “noi siamo prigionieri di una limitazione culturale per cui la presenza circoscritta è avvertita come peccato: ma nel mondo magico proprio, una presenza circoscritta è la salvezza e il peccato magico, la malignità, consiste nella rischiosa caduta dei limiti… l’esserci si configura allora per quello che è effettivamente, come bene culturale che si è fatto attraverso lotte e pericoli, sconfitte, compromessi, vittorie e, infine, come decisione e come scelta che ancor oggi vivono in ogni nostra decisione e in ogni nostra scelta”7).
Nel mondo magico la rottura di un equilibrio sociale viene ristabilita attraverso la figura dello sciamano che come un Cristo magico entra in rapporto con la propria labilità e, attraverso l’esperienza della propria morte rituale, altrimenti detta estasi, opera il riscatto dal pericolo della perdita del sé e del mondo.
Anche nel mondo contemporaneo questo può accadere, ed effettivamente accade, nella costruzione di mondi virtuali e di sé virtuali, resa possibile dalle nuove tecnologie informatiche. Era il caso delle RV prima, degli Avatars e di Second life adesso.
Nel mondo magico il riscatto dal rischio della perdita del sé e del mondo è offerto altresì dall’incontro dello sciamano con il proprio spirito ausiliario, il quale mette in connessione lo sciamano con il regno dell’invisibile e con gli spiriti delle malattie che affliggono le anime degli indiani; nel mondo contemporaneo una possibilità analoga di riscatto ci è data dai mondi virtuali.
Vorrei a questo punto sottolineare il fatto che il parallelismo più stretto che sto cercando di delineare tra la nostra società e le tradizioni sciamaniche non è tanto in questa comune capacità di de-realizzare la realtà e se stessi, una capacità che forse è una condizione insita nello spirito umano e alla quale abbiamo sempre auspicato.
Quello che maggiormente ci accomuna è, a mio parere, l’effettivo rischio della perdita della propria presenza al mondo e dunque la conseguente necessità, come priorità assoluta, di trovare un mezzo che ci permetta di rimanere in qualche modo legati alla nostra anima. E se lo sciamano ci riesce grazie alla presa di coscienza della propria labilità, attraverso un lungo e doloroso viaggio inziatico, e grazie al consecutivo riscatto dato dalla propria capacità di guarire se stesso e gli altri, noi ci affidiamo alla “seconda vita”, alla nostra seconda chance, la quale ci garantisce un mondo meno reale ma forse più vero.
Concludo con le parole di Cory Ondrejka, direttore creativo di SL, il quale sostiene a proposito dei residenti dei mondi digitali che: “per loro i mondi digitali sono luoghi reali in ogni senso e possono essere capiti soltanto in quel contesto. Chi liquida sommariamente la rappresentazione dei mondi digitali, considerandola di poco valore o irrilevante, si lascia sfuggire gli aspetti basilari di ciò che ci rende umani”.
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Note
- ( M. Mauss, Teoria generale della magia, 2000, Einaudi, Torino. [↩]
- ( J. Lanier, citato da S. Ditela, Inside Artificial Reality, PC Computing, novembre 1989, p. 97, cit. in D. De Kerckhove, Realtà virtuale e processi cognitivi collettivi, in P. L. Capucci (1993), p. 172. [↩]
- ( S. M. Shirokogoroff, The psychomental Complex of the Tungus, 1935, Shangai – London, p. 117 sgg, cit in E. De Martino, Il mondo magic , p. 11. [↩]
- ( C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale , 2002, Net, Milano, p. 207. [↩]
- ( J. Lanier, “An interview with Jaron Lanier” by Adam Heilbrun and Barbara Stacks, Whole Earth Review, Fall 1989, in A. Caronia, L’inconscio della macchina, 2006, Mimesis, Milano, p. 125-126. [↩]
- ( F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, 1988, Laterza, Bari. p. 3. [↩]
- ( E. De Martino, op. cit., p. 161. [↩]
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