Arte e interattività
L’arte, in quanto specchio della società che la produce, prende possesso dei nuovi mezzi di comunicazione, influenzandone l’evoluzione, e lasciandosi influenzare.
Si può affermare che buona parte delle esperienze più interessanti di questi ultimi anni, realizzate con l’ausilio di strumenti tecnologici, vada nella direzione della trasformazione dell’opera da “oggetto materiale” a “processo di relazioni”, da forma immutabile e autosignificante a forma metamorfica in perenne trasformazione, a seconda dell’interazione con l’osservatore, con l’ambiente, con il contesto nel quale è situata, e di come l’interazione con l’elemento umano si compia nel segno della multimedialità e della polisensorialità
Le distinzioni stabilite tra autori e lettori, produttori e spettatori, creatori e interpreti si confondono a favore di un continuum di lettura-scrittura che va dagli ideatori di macchine e reti fino ai ricettori finali, ciascuno dei quali contribuisce ad eliminare di riflesso l’azione degli altri (declino della firma)
Sono sempre più diffuse opere d’arte che lo spettatore deve attivare, azionare, utilizzare. Sembra che ci si stia dirigendo verso il superamento della concezione di un’arte della contemplazione verso un rapporto più attivo tra artista e spettatore, il “nuovo artista” così non consegnerebbe più un prodotto finito, un oggetto da contemplare, ma piuttosto una “macchina per significare”, uno strumento che ha un senso solo se “utilizzato” da un pubblico non più di “spettatori” ma di “coautori”. E’ infatti necessario, perché l’opera esista e produca senso, che venga utilizzata, che venga attivata. Ciò che distingue le nuove forme d’arte ad alto contenuto tecnologico sembra così essere l'”interattività”.
Critica dell'”interattività”
E’ nostra opinione che l”interattività” come la si intende solitamente, sia un’illusione. Quando l’utente “utilizza” una delle suddette opere (nel caso della net.art, ad esempio, si tratterebbe di fruire un sito), con la sua “interazione” sceglie solamente un percorso. Le possibilità che ha a disposizione sono già state previste dall’autore, l’utente non fa altro che ritagliarsi un tragitto all’interno del labirinto delle possibilità. Ma tale labirinto offre un numero finito, e spesso piuttosto limitato, di possibilità. Considerare perciò l’utente un “coautore” semplicemente in quanto si trova a relazionarsi con l’opera, ci sembra quantomeno illusorio. Ciò che viene venduto all’utente è in questo senso una dose d’illusione di libertà, un libertà dai confini ben definiti, sacri ed inviolabili. Aldilà delle apparenze infatti esiste un codice legislativo preciso che regolamenta la fruizione dell’opera, al punto che violare tale codice comporta le conseguenze più drammatiche: da multe ed espulsioni fino a galere ed ospedali psichiatrici. Il confine che separa lo spettatore emancipato dal vandalo è sottilissimo, e chi viola questo tacito accordo di fruizione, anche solo di pochi centimetri – lo spessore di una teca -, ne paga le conseguenze.
La fruizione dei moderni oggetti d’arte è spesso schizofrenica: ci viene detto che Duchamp ha esposto un comune urinatoio in un museo, e poi tale urinatoio viene acquistato per decine di milioni ed esposto sotto teca, come oggetto da contemplare e conservare. Studiamo sui libri di un’arte da usare, di sculture al servizio dello spettatore – ad esempio le macchine di Tinguely – che poi non possiamo guardare se non in presenza di guardiani che le proteggono dallo spettatore. Esiste una sorta di codice comportamentale, tutto un’insieme di regole, non dette ma inflessibili, che “protegge” tacitamente il pubblico dalle vere innovazioni dell’arte, dal reale progresso dell’arte.
Scrive Enrico Mascelloni:
Chi vorrà negare che i resti dell’epoca rivoluzionaria – una testa africana di Picasso, un collage di Hausmann, un’opera con fiammiferi di Picabia – sembrino sottoposti, nelle asettiche sale di un museo, a trattamento rieducativo? Ad una terapia che non nasconde, piuttosto esaltandola, quella trascorsa sovversione che contenevano, irridendola però costantemente in forza del processo stesso di musealizzazione, che è come una bonaria pacca sulle spalle accompagnata da un sorriso consolatorio. L’opera, ostaggio un po’ appassito ma comunque monitorio, può solo parlare dell’avvenuto recupero, ad un pubblico che pur generalmente privo di paure rivoluzionarie, sente in quelle carcasse, quasi fossero conchiglie fossili, l’eco lontano di un pericolo scampato, non mancando di avvertire, contemporaneamente, la forza consolatoria e generosa della società tutta intera che ha scampato quel pericolo
Non bisogna dimenticare che anche l’arte più moderna, per quanto “interattiva” ed “innovativa”, è sempre e comunque presentata e fruita in un contesto appropriatamente artistico, che automaticamente ne attenua il potere “sovversivo” (dei meccanismi di fruizione) rendendola innocua.
Una nuova “interattività”
E’ nostra opinione che l'”interattività” possa sì esistere, ma non nel modo in cui ci viene “tradizionalmente” intesa. Nella nuova accezione che vorremmo dare al termine, interattività sarebbe una caratteristica propria dell’uomo, non delle cose. In questo senso affermare che un’opera d’arte sia interattiva sarebbe un po’ come affermare che un sasso sia sensibile o introverso.
Interattivo verrebbe ad essere un atteggiamento dell’utente, di un nuovo tipo di pubblico emancipato e consapevole del proprio ruolo, un pubblico non più disposto ad eseguire pacificamente il proprio “compito”, ma invece smanioso di “interagire” concretamente con l’oggetto d’arte. Un tipo di utente che diverrebbe così, automaticamente, artista, e forse qui sta l’aspetto più notevole, un nuovo genere di artista in grado di tornare ad essere spettatore. Il confine tra i due ruoli si dissolverebbe; si dissolverebbe non una volta per tutte (illusione questa delle avanguardie storiche), ma solo in determinate situazioni, “hic et nunc”. Secondo Goodman la domanda è mal posta, non dovremmo più chiederci “cosa è arte?” ma “quando è arte?”. Un oggetto comune può divenire arte, e poi, una volta esaurita la sua funzione, tornare ad essere un oggetto comune. E l’utente sarebbe il vero autore di questo slittamento.
Parleremmo così di interattività solo ed esclusivamente nel momento in cui un’opera d’arte viene utilizzata dall’utente in modo imprevisto (non previsto e non prevedibile) dall’autore. Solo nel momento in cui uno spettatore riutilizza spontaneamente un’opera d’arte si sta comportando in modo “interattivo”. E in quel momento egli diviene incontestabilmente artista, mentre l’artista diviene spettatore (semplice testimone di ciò che sta avvenendo alla propria opera). Questa azione deve essere imprevista, non pianificata dall’artista “originale”, altrimenti rientrerebbe automaticamente nel regno della fruizione tradizionale, e il potenziale artista tornerebbe ad essere un innocuo fruitore che, come tutti e come sempre, non fa altro che accettare il proprio ruolo di spettatore modello: contemplare (includendo in questo termine anche tutta la gamma di azioni che vengono spesso incluse tra i compiti dello spettatore: azionare leve, premere pulsanti, muovere oggetti, cliccare il mouse e così via).
Perché avvenga questa inter-attività è necessario che il pubblico abbandoni tutta una serie di consuetudini e preconcetti che lo incatenano alla propria sicura poltrona, e che rimetta in gioco, oltre all’oggetto d’arte, anche il proprio ruolo di spettatore. In questa accezione, l’interattività non è assolutamente nulla di nuovo o necessariamente ad alto contenuto tecnologico, ma anzi, considerando le modalità di fruizione e produzione dell’arte prima dell’avvento dell’idea romantica di “autore”, una pratica spontanea ed antichissima.
Rivoluzione digitale
Possiamo schematizzare in sei punti l’essenza della rivoluzione digitale considerata dal punto di vista che più ci sta a cuore, ossia il repentino cambiamento di alcuni tra i più radicati paradigmi culturali che concernono produzione, distribuzione, fruizione e conservazione della proprietà intellettuale, e la conseguente caduta della nozione tradizionale di diritto d’autore.
1. Innanzitutto la facilità di duplicazione, aspetto che pone un gran numero di sfide per la legge sul copyright. Il copyright chiaramente costituiva un diritto legale ben più utile in un mondo in cui l’unico metodo mediante il quale le opere potevano essere copiate era una macchina da stampa oppure la copia a mano.
2. La facilità con cui le opere in forma digitale possono essere trasmesse ed usate da più di un utente. Questo presenta una radicale modifica del processo di distribuzione di quelle merci che sono costituite quasi esclusivamente di “informazione”, al punto da gettare nel panico i tenutari dei diritti d’autore.
3. Un terzo aspetto intrinseco la media digitale è la sua malleabilità. Possiamo correggere errori, aggiungere commenti, alterare la struttura delle frasi, cancellare ciò che non desideriamo, modificare informazioni e via dicendo, sconfiggendo pertanto uno dei maggiori svantaggi del mezzo stampato. Tali cambiamenti possono avvenire rapidamente e senza che nessuno sia in grado di affermare che siano stati apportati.
4. La quarta caratteristica consiste nell’equivalenza tra loro delle opere in forma digitale, cosa questa che suona in contrasto con la vigente regolamentazione del copyright a livello internazionale. Il diritto d’autore ha sempre mirato a proteggere in maniera difforme le singole opere, definendole al contempo all’interno di singole classi, ognuna di esse con un regime particolare di protezione.
5. La quinta risiede nelle compattezza delle opere in forma digitale, elemento che ha in sé la potenzialità di creare nuovi tipi di problemi legali. Se si confrontano con i libri e altri media tradizionali, le opere in forma digitale non necessitano di grande spazio. Di conseguenza diventano intrinsecamente semplici non solo da conservare ma anche da rubare.
6. La sesta caratteristica, conseguente per certi versi alla precedente, è la potenzialità dei media digitali di fornire agli utenti esperienze non lineari con i testi per lo sviluppo di nuovi metodi di ricerca e di collegamento dei testi medesimi. A seconda di come viene progettato il sistema, si può addirittura salvare il proprio cammino tramite segnalibri, in modo da potervi ritornare e riattraversare lo stesso percorso in un altro momento e magari estenderlo.
La digitalizzazione della cultura rappresenta perciò non solo un semplice cambio di supporto fisico – quale avrebbe potuto essere in passato il passaggio dalla carta alla pellicola – , ma una vera e propria rivoluzione di tutti i meccanismi di produzione, fruizione, distribuzione e conservazione dei beni intellettuali (e non solo). Questa rivoluzione ha creato un gap che continua a crescere, tra il progresso tecnologico e, ad esempio, il sistema legislativo, il quale, vincolato da enormi apparati burocratici e da radicati preconcetti, non è assolutamente in grado di regolamentare o anche solo comprendere la rivoluzione in corso.
No-copyright
Ci sembra di avere dimostrato come la rivoluzione digitale in atto, la digitalizzazione della cultura, comporti l’abbandono del copyright. Il genio isolato dal mondo ispirato dalla musa non esiste, esistono solo persone che si scambiano informazioni e rielaborano quello che è stato già detto in passato, la cultura è solo un enorme ed infinito plagio in cui nessuno inventa nulla, e tutto viene rielaborato collettivamente.
Non bisogna dimenticare che l’informazione (quindi la sua produzione, diffusione, fruizione e via dicendo), rappresenta l’oro del futuro, siamo infatti entrati a pieno regime nel periodo “Infoware”. Possiamo delimitare, in modo assolutamente schematico e tutt’altro che esaustivo, almeno tre periodi, tre “ere informatiche”, con i rispettivi protagonisti, che si sono succedute negli ultimi cinquant’anni:
– Periodo “Hardware” (’50 – ’80): l’IBM da una parte e schiere di hackers dell’hardware dall’altra, con la necessità di crearsi i propri computer manualmente, perciò di avere accesso ai kit di montaggio, senza poi sapere, nella maggior parte dei casi, come utilizzare questi calcolatori tanto affascinanti ma praticamente inutili.
– Periodo “Software” (’80 – ’90): da una parte la Microsoft intuisce l’aumento del valore del software e investe nella creazione di un sistema operativo unico e “universale”, dall’altra gli hacker del software: programmatori in grado di crearsi i propri strumenti di lavoro e di far funzionare calcolatori ancora inaccessibili al grande pubblico.
– Periodo “Infoware” (oggi?): Internet come unico campo di gioco, e il flusso di informazione come suo unico scopo. L’accesso all’informazione non è più appannaggio degli addetti ai lavori ma diviene patrimonio comune (considerando il punto di vista di una società industrializzata come la nostra). Aumenta enormemente così la competizione e contemporaneamente si azzera la competenza minima indispensabile: si raggiunge così finalmente un’epoca in cui la pura informazione, i “contenuti” e non più le capacità tecniche, rappresentano la principale moneta di scambio.
Conclusione
Nel momento in cui l’informazione diviene il bene più prezioso, la sua condivisione diviene automaticamente una pratica in grado di pesare enormemente sulla sua gestione, diffusione e fruizione. L’abbandono del copyright diviene così condizione necessaria all’avvento di nuove forme di interattività. Lavoriamo quotidianamente alla nascita di una nuova “cultura della rete”, che della rete sfrutti lo specifico e non semplicemente certi aspetti indubbiamente “attraenti” e in qualche modo innovativi ma assolutamente innocui (si pensi alla tanto decantata “multimedialità”). Forse, all’attuale momento, una delle condizioni essenziali da raggiungere è l’abbandono di teorie, e pratiche, assolutamente sorpassate quali l’ideologia cyberpunk e la cultura hacker , legata indissolubilmente a un’epoca oramai trascorsa.
La guerriglia mediatica (comprendendo in questo termine anche gli esempi più evoluti dell’arte contemporanea in Internet, che sempre più spesso coincide con l’attivismo tout court) non vuole svelare la “verità più vera” di cui i grandi mass media ci terrebbero all’oscuro: condizione preliminare per questa pratica è l’abbandono della recriminazione e di ogni teoria del Grande Fratello, ovvero quella che vede gli operatori che gestiscono i mezzi di comunicazione di massa come astuti ed efficienti “disinformatori di regime”. Il conformismo e la compattezza dei mass media non nascono da una particolare capacità strategica di fantomatici gestori del “potere mediatico”, quanto piuttosto dall’estrema ignoranza, malafede, meschinità e grettezza di piccoli uomini e donne che si fingono professionisti dell’informazione e non sanno fare altro che appiattirsi gli uni sugli altri, dando in questo modo l’impressione (ma solo quella) di essere uno schieramento compatto e potente. Le apparenze ingannano. La guerriglia mediatica non serve nemmeno a dimostrare la natura mendace dei media. Lo sanno tutti che mentono, è senso comune, anzi, è “discorso da autobus”. Non per questo la gente smette di comprare i quotidiani, guardare i telegiornali o navigare in Internet.
BIBLIOGRAFIA
- AAVV, Open Source, voci dalla rivoluzione Open Source, Apogeo, Milano, 1999.
- Pier Luigi Capucci, Realtà del virtuale, Clueb, Bologna, 1993.
- Pier Luigi Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico, Baskerville, Bologna, 1994.
- Pier Luigi Capucci, Arte e tecnologie, Edizioni dell’Ortica, Bologna, 1996.
- Katie Hafner e Matthew Lyon,La storia del futuro, le origini di Internet, Feltrinelli, Milano, 1998.
- Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva, per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1998.
- Steven Levy, Hackers, gli eroi della rivoluzione informatica, Shake, Milano, 1996.
- Raf Valvola Scelsi (a cura di), No copyright, nuovi diritti nel 2000, Shake, Milano, 1994.
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