Dall’occhio al corpo
1983: sospesa nel monitor una piuma di uccello, lieve, immobile; basta un soffio d’aria sullo schermo e la piuma si anima, ondeggia, disegna una voluta di pixel, poi si ferma in attesa che qualcuno di nuovo soffi e le ridia vita, un soffio di vita elettronica.
1997: lo schermo è scomparso, sostituito dal tessuto rigonfio di tre paracadute rovesciati, nuvole artificiali che ricadono mollemente dall’alto; sulla loro superficie (o, sembrerebbe, al loro interno), un gruppo di angeli; figure volteggianti, senza peso, che si dispiegano sulla seta opalescente con movimenti lentissimi, poi all’improvviso guizzano e si distendono in volo, animate da un soffio d’aria sprigionato dalla presenza e dalle azioni degli spettatori.
Si tratta di due opere, La Plume d’oiseau e Il Soffio sull’angelo che ben esemplificano i primi esperimenti e la maturità – ed anche specifiche interpretazioni – di quella che oggi viene definita arte interattiva; una forma d’arte che utilizza una mescolanza di risorse tecnologiche e linguistiche per proporre una particolare relazione, intenzionale e reciproca, tra opera e spettatore (e artista), ponendo in atto non tanto, o non più, semplicemente degli oggetti, ma dispositivi e situazioni che prefigurano, più o meno programmaticamente, un’esperienza partecipativa, psichica e fisica insieme. Le opere dell’arte interattiva richiedono come condizione della propria esistenza un completamento da parte del pubblico, che è indotto a intervenire, interpretare, modificare – in genere animando in tempo reale immagini e suoni – secondo modalità che possono essere molto varie ma che tendono tutte ad approfondire il tracciato di una identità nuova dei concetti stessi di rappresentazione e di comunicazione, di immagine e di relazione con l’immagine.
La Plume d’oiseau è stata realizzata da Couchot in collaborazione con un’équipe di specialisti della simulazione del volo e presentata per la prima volta nel 1983 alla mostra Electra, un’esposizione che riuniva una serie di esperienze artistiche legate dal filo conduttore dell’impiego dell’elettricità e dell’elettronica e da una chiave di lettura modellata sugli interrogativi del rapporto tra arte, scienza e tecnologia [1]: nel catalogo La Plume d’oiseau era definita come «un’immagine concepita in uno spirito realista, e che si può trasformare in tempo reale. […] L’avvenimento sarà controllato simultaneamente dai processi temporali regolati dal computer e dall’intervento del soffio dello spettatore. Un buon esempio del rapporto nuovo che si stabilisce in questo tipo di lavoro d’équipe, e che richiede all’artista la formazione e la competenza del plasticien quanto quella del tecnico. Ne consegue un rinnovamento importante nella produzione dell’immagine. Altro cambiamento profondo: il posto dato primariamente alla “reattività” e all’“interattività” del pubblico» [2].
Avvertita all’epoca come un’esperienza di tipo nuovo, La Plume è considerata ormai un classico dell’arte interattiva. Couchot e i suoi collaboratori l’hanno in seguito rielaborata e perfezionata: nel 1990, in una nuova versione dal titolo Je sème à tout vent, nel monitor ondeggiava un dente di leone (il globo di semi del Taraxacum officinalis), che, al soffio dell’osservatore, si apriva, spandendo in tutte le direzioni i minuscoli semi piumati. «Con il numerico – scriveva allora Couchot – l’immagine si decompone nei suoi ultimi costituenti: i pixel. Ma, mentre questa decomposizione la rende, almeno teoricamente, inalterabile, duplicabile all’infinito, trasmissibile senza alcuna perdita, dunque totalmente stabile, fissa, […] dà nello stesso tempo all’immagine la fluidità dei numeri e del linguaggio, la capacità di rispondere alle minime sollecitazioni del riguardante, alle più inattese, la rende instabile, mobile, mutevole, penetrabile. La vita dell’immagine d’ora in poi non può più dipendere che da un soffio. Ma da questo soffio che semina al vento i frammenti della sua superficie, l’immagine attinge anche il potere di nascere altrove, diversamente, di essere alla fine più che un’immagine» [3].
Il Soffio sull’angelo, primo naufragio del pensiero, è una videoinstallazione interattiva di Studio Azzurro [4]. «Un’opera ‘d’aria’. Un’opera sospesa, aerea, un inserimento leggero, volatile», la definiscono in catalogo i suoi autori, spiegando come il progetto sia stato fortemente stimolato dall’ambiente, una vecchia fabbrica ristrutturata con una grande apertura centrale a due piani, e descrivendo gli effetti e, con essi, le intenzioni dell’opera: «una grande nuvola abitata da esseri che si muovono distorcendosi in modo appena percettibile. Le figure proiettate sulla sua superficie formano una popolazione aerea, leggera, priva di gravità che ricorda certe rappresentazioni angeliche dipinte, con virtuosismo prospettico, su numerosi soffitti secenteschi. […] Sono figure riconoscibili e molto terrene, figure disegnate fuori ma vuote dentro: per questo galleggiano nell’aria. […] Ruotano, si allungano e si allargano, espandendo le loro membra, ma il tutto con una lentezza ossessiva. […] Tutto ciò fino al momento in cui i visitatori (terreni) nel loro ‘stare’ a guardare, nella loro azione quasi contemplativa, involontariamente prima e volutamente poi, attivano un dispositivo che sprigiona un soffio d’aria che colpisce il telo e, quindi, l’immagine proiettata. L’estendersi del paracadute scaraventa il personaggio-angelo fuori dal suo opaco fluire e il suo ‘vuoto’ può esplodere o essere spinto lontano. In quell’istante egli riprende la sua storia e ce la mostra; in quell’attimo, con quella scossa, ci offre un’immagine di altra natura come se si riprendesse un racconto interrotto» [5].
Dunque “più che un’immagine” è “un’immagine di altra natura”. Al di là della pur significativa analogia del ruolo affidato al-l’immateriale fisicità del soffio d’aria, ciò che accomuna La Plume e Il Soffio sull’angelo, pur nelle differenti caratterizzazioni, è la scelta di utilizzare la possibilità di modificare le opere in tempo reale per attivare una reciprocità di reazioni con il pubblico; in ambedue i casi il controllo delle immagini è affidato a dispositivi elettronici ma dipende dall’intervento esterno dello spettatore che le modifica, ponendosi come dato necessario dell’esistenza e del processo stesso dell’opera, e contribuendo a far emergere i suoi contenuti, il suo senso. Inoltre – a differenza di altre opere interattive – sia Couchot sia Studio Azzurro non richiedono allo spettatore di eseguire delle operazioni azionando i comandi di una macchina, ma fanno appello a più spontanee e naturali azioni del corpo, privilegiando così il percorso di un rapporto “umanizzato” con la tecnologia e di implicazioni percettive e psicologiche sottili e nuove con le opere stesse.
L’intervento è più palesemente controllato e predisposto ne La Plume, che implica ancora un confronto diretto con il computer, ma spiazzandone le consuete procedure col proporre, invece della normale digitazione, l’atto corporeo quanto etereo e suggestivo del soffio sul monitor. L’interazione è più libera e istintiva e insieme articolata in modi più complessi ne Il Soffio sull’angelo, in cui gli osservatori attivano per caso la corrente d’aria che muove i paracadute e le immagini, appoggiandosi a delle balaustre interfacciate: un’ulteriore sorpresa si aggiunge così alla magica spettacolarità dell’installazione via via che il pubblico scopre le regole e le necessità del gioco richieste dall’opera. Quasi arcaico l’effetto de La Plume, nel modo straniante e quasi commovente con cui paiono antichi i dispositivi e gli effetti dell’informatica di soli pochi anni fa, più sofisticato, seducente e diversamente problematico, l’evento disegnato nell’aria dagli angeli di Studio Azzurro, proiettato nello spazio e svincolato ormai completamente dalla presenza avvertibile di macchine e strumenti.
In tutti e due questi esempi, l’ibridazione tra caso e programma, tra natura e artificio, tra gioco e apprendimento del gioco, si intreccia con la persuasione seduttiva di un nuovo tipo di immagine-evento reso possibile dai procedimenti informatici; lontane nel tempo – perché il tempo delle nuove tecnologie è ormai rapidissimo – ma ugualmente improntate allo spirito di ricerca e sperimentazione sui media elettronici che ha caratterizzato l’attività di tanti artisti, portando all’elaborazione di un sistema di segni e di nuove relazioni percettive e di comunicazione. Con immateriale leggerezza si è introdotta nelle immagini una fascinazione di tipo nuovo che ha assunto i connotati di un’esperienza legata alle articolazioni di processi sensitivi fisici più che allo sguardo soltanto, all’azione più e oltre che alla contemplazione: dall’occhio al corpo.
Simulazione e percezione
L’arte è per sua natura “interattiva” in quanto comporta sempre una relazione che si stabilisce tra artista opera e spettatore; l’opera è sempre un rapporto e crea rapporti [6]. Ma questa relazione ha tradizionalmente come veicolo fondamentale la vista, il senso più vivo e ricettivo (e il più ingannevole, dicevano gli antichi) dell’essere umano.
Questo tipo di percezione che ha mediato per millenni il rapporto con l’opera d’arte si è modificato negli ultimi decenni del Novecento, di pari passo con l’affermarsi di svolte e fratture che hanno messo in discussione l’identità storica dell’opera d’arte e ridefinito il suo stesso statuto. In connessione con la varietà di orientamenti che puntano a “uscire dal quadro” e dai luoghi deputati delle gallerie e dei musei, a mettere in discussione il ruolo dell’artista e quello del pubblico, a cercare un più diretto immediato ed anche effimero legame tra arte e vita, si è addensato un orizzonte di ricerche mirate a decostruire e mutare la dimensione statica, finita, unica, immodificabile e contemplativa dell’opera. Volgendosi così a privilegiare un coinvolgimento che, con l’affermarsi della multimedialità, è diventato polisensoriale, attraversa il corpo, il vedere e l’udire, la presenza fisica, il toccare, un sentire fisico ed emotivo insieme.
Situazioni, azioni, eventi, ricerche di nuove e diverse modalità della comunicazione estetica, da Fluxus al postmoderno, passando per gli ambienti, gli happenig, la performance, la Body art, l’installazione, hanno imposto un’interazione di tipo nuovo che avviene in diretta e in tempo reale: una sorta di simultaneità tra produzione e consumo dell’arte, nei contesti circoscritti quanto perentori di una durata e di uno spazio determinati e insieme fluidi, in cui il senso e il funzionamento dell’opera sono strettamente legati alla presenza attiva di artisti e pubblico e alle loro risposte più o meno libere, programmate, imprevedibili. Fino a travasare la percezione occhio-cervello in un più coinvolgente, ambiguo e intrigante rapporto corporeo; e fino a postulare, per questa via, lo spettatore non come un ricevente passivo ma come un consapevole “coautore” dell’opera, utente e anche “performer” [7] di un evento artistico di tipo nuovo.
Oggetto privilegiato per secoli della pittura e della scultura, il corpo si reifica fisicamente in soggetto: dal coinvolgimento spazio-temporale degli ambienti, alla presenza e al vissuto degli happening e delle performance, raggiungendo un apice con la materialità visceralmente viva della Body art, in cui l’opera si identifica totalmente con l’agire dell’artista sul proprio corpo per trasmettere agli spettatori sensazioni fisicamente primarie, inquietanti (disgusto, sofferenza, tensione, disfacimento e morte).
Variazioni ulteriori in questo tipo di coinvolgimento sono venute dalle arti elettroniche. Una complessa molteplicità di rimandi tra il corpo dell’artista e quello dello spettatore, si propone nella videoarte, in molti modi diversi. Non a caso tra gli iniziali impieghi della telecamera emerge la registrazione di azioni e performance; non solo quelle tradizionalmente svolte di fronte al pubblico, ma anche quelle pensate e condotte in un solipsistico rapporto con l’occhio artificiale della telecamera, come in opere famose di Acconci e Nauman che rivolgono la telecamera su se stessi per registrare in diretta o in studio le proprie azioni. Mentre trasfonde l’evento performativo nel linguaggio fluido del videotape, la ripresa di azioni concepite espressamente per essere registrate realizza un processo di modificazione delle relazioni tra osservato e osservatore. Smaterializzando la presenza fisica lo schermo assume il ruolo di uno specchio attraverso il quale lo spettatore è ambiguamente catturato nell’analisi densa di tensioni che l’artista conduce su se stesso [8]. Il tema del corpo percorre l’arte video in molte accezioni, come dato primario di un’esplorazione interiorizzata (per esempio in Bill Viola), o come oggetto di un’analisi carnale e ferocemente introspettiva: da Mona Hatoum, che introduce una telecamera al-l’interno del proprio corpo, alle metamorfosi delle operazioni chirurgiche trasmesse via satellite dell’“arte carnale” di Orlan, alla tecnologizzazione “cyborg” dell’umano di Stelarc che sperimenta l’applicazione di arti artificiali mossi a distanza, via computer, da un interlocutore [9].
Una molteplicità di sollecitazioni sensoriali impostate sull’alterazione della percezione del proprio essere nello spazio e del tempo, si incontra inoltre nella dimensione indotta dal circuito chiuso di varie installazioni degli anni ’70, basate sulla peculiare capacità del sistema camera-monitor di riprendere e ri-mostrare in diretta l’immagine degli stessi osservatori, e di alterarla con la presentazione simultanea di momenti successivi, ricondotti a un continuo presente. Numerose opere hanno adottato una serie di varianti sul tema dello spiazzamento dell’osservatore tra un “dopo” o un “prima”, tra vicino e lontano, tra interno e esterno, tra presenza e assenza. Tra le più celebri i corridoi di Bruce Nauman, gli ambienti di Les Levine, di Frank Gillette e Ira Schneider, di Dan Graham, di Peter Campus [10].
In generale, comunque, nelle installazioni il video determina sempre un particolare sistema percettivo, che accentua l’esperienza totalizzante dell’opera tipica degli ambienti e degli environments. Strutturando insieme oggetti, monitor e telecamere, in una pluralità di tipologie, le videoinstallazioni configurano spazi e tempi percorribili, situazioni che l’osservatore esperisce fisicamente, dall’interno, divenendone parte [11].I televisori come materiali di un’architettura e i loro schermi come fonti di luci, di immagini, di suoni, animano l’impianto spazio-temporale di questi luoghi artificiali, attirano l’attenzione nella dimensione multicentrica dei monitor e creano una continua trasformazione di rimandi percettivi; oppure, come nelle più recenti soluzioni installative, le immagini escono dalla gabbia tecnologica del monitor – peraltro ricca di riferimenti simbolici al nostro tempo – si proiettano su grandi schermi, o nello spazio, sulle pareti, su oggetti e persone.
Nel contesto di queste esplorazioni del rapporto immagine-corpo-sguardo si sono inserite infine le potenzialità interattive della tecnologia digitale, che hanno reso più dense le forme di partecipazione e hanno portato ad un nuovo tipo di dialogo con lo spettatore. Con i dispositivi e i programmi del computer svariati tipi di immagini e suoni, ripresi dal mondo reale o creati artificialmente dal mezzo stesso, possono entrare a far parte di un universo ibrido, dinamico, trasformabile, in una infinita gamma di interconnessioni. Tutto ciò ha intensificato un profondo cambiamento dei modi di produzione, comunicazione e fruizione, attraverso la proposta di forme d’arte in cui – sul denominatore comune della reciprocità degli scambi – si intrecciano artificialità e natura, immaterialità e alta definizione, la macchina e il corpo: nella sostituzione di realtà (incorporante, immersiva) della realtà virtuale come nelle flessibili dinamiche dell’arte in rete [12]come nella manipolazione di forme, situazioni e comportamenti.
Difatti nell’arte interattiva l’elaborazione dei dati multimediali, così caratterizzante agli inizi della videoarte e divenuta sofisticata simulazione con il digitale, si è travasata nello spettatore, che oltre ad essere un agente-reagente dell’opera è divenuto esso stesso oggetto di una sorta di manipolazione. L’esperienza estetica coincide, nell’arte interattiva, con lo stimolo ad agire, utilizzando i comandi di un computer, o indossando il casco e i datagloves e rimodellando i meccanismi fisiologici dei sensi nella simulazione del virtuale, oppure operando secondo atti più naturali e spontanei, sempre nell’ambito di un rapporto i cui termini fondamentali, mediati da una dimensione immaginativa e apparentemente spontanea, sono l’artista, i dispositivi tecnologici, lo spettatore.
Alcuni lavori fanno condividere al visitatore l’esperienza di costruire e/o modificare forme, motivi e narrazioni generati dal computer: ad esempio Emerging Forms 3 di Hillary Kapan, in cui lo spettatore-utente adopera un programma scritto dallo stesso artista, per gestire un processo di metamorfosi di forme in rapida trasformazione [13].
In altre opere si ricorre invece a gesti banali e quotidiani, apparentemente privi di aspettative ma che aprono alla sorpresa di effetti illusionistici e stranianti. Tra le prime realizzazioni in questo senso va ricordato Le Bus ou l’Exercise de la découverte (1984-1990) di Jean-Louis Boissier (presentato alla mostra Les Immatériaux nel 1985 e poi in una nuova versione a Artifices nel 1990), in cui la postazione è costituita da un autobus. Seduto di fronte al pulsante di “fermata richiesta” e ad uno schermo che sostituisce un finestrino, lo spettatore può in ogni momento fermare l’immagine che sfila “all’esterno” (il tragitto tra Saint-Denis a Stains), e visitare virtualmente il luogo e i suoi abitanti [14].
Tra le più celebri e spettacolari installazioni interattive in cui le immagini rispondono direttamente ai movimenti dell’utente, va ricordato The Legible City di Jeffrey Shaw (1988-91). Puntando al travaso dello sguardo nella corporeità di una dimensione virtuale, Shaw conduce lo spettatore ad un’esplorazione labirintica e personalizzata di città costruite con la computer graphic come gigantesche sequenze di frasi (Manhattan, Amsterdam, Karlsruhe); il visitatore monta su una bicicletta, pedala e sterza, ed entra così nelle fluidità di un’esperienza spazio-temporale percorrendo strade e architetture fatte di parole che si squadernano di fronte a lui, su un immenso schermo. L’effetto di realtà si intreccia con una dimensione quasi surreale, continuamente trasformata. L’interfaccia è il corpo stesso e il suo moto reale, ma per condurre a sensazioni immateriali che esaltano comunque la centralità della “presenza” fisica e psichica che informa di sé tanta parte dell’arte elettronica [15]. utilizzano una mescolanza di natura e artificio per far sperimentare ai visitatori i meccanismi dei processi evolutivi della crescita sia di organismi vegetali sia delle loro immagini. Toccando delle piante vere si controllano gli sviluppi artificiali di piante virtuali, create da un software, che appaiono contemporaneamente su uno schermo. Al primo impatto di sorpresa e di scoperta delle modalità dell’interazione segue una fase di sperimentazione da parte del pubblico; i visitatori imparano come influenzare la crescita delle piante e possono sceglierne – a seconda della propria sensibilità e della disponibilità a mettersi in gioco – l’aspetto, le tipologie, le posizioni, i tempi di trasformazione.
Le regole del gioco
The Legible City e Interactive Plant Growing fanno parte della collezione dello ZKM, Center for Art and Media di Karlsruhe, nel cui ambito è particolarmente curata la ricerca sull’interattività come forma d’arte autonoma e specifica. I musei che compongono l’istituzione dello ZKM comprendono infatti, accanto alla pittura e alla scultura, fotografia e arte elettronica, con un’attenzio-ne particolare per il digitale, l’interattività, la realtà virtuale e la simulazione [16]. Si tratta di campi di sperimentazione, in sostanza, che caratterizzano oggi altri centri di importanza internazionale, come l’InterCommunication Center di Tokyo e l’Ars Electronica Center di Linz. Spostando lo sguardo sull’Italia si deve purtroppo constatare la carenza di istituzioni e centri rivolti a sostenere e valorizzare le arti elettroniche. Tuttavia è forte la presenza di gruppi di alta qualità che lavorano sui linguaggi artistici audiovisivi e in particolare sull’interattività; forse raccogliendo anche, più o meno consapevolmente, una serie di stimoli e di esperienze fortemente incise in una tradizione culturale. Il Futurismo, ad esempio e gli studi che ne hanno rivelato la portata pionieristica in ambito performativo e multimaterico: e senza dubbio anche la stagione dell’arte programmata e cinetica, nel cui ambito si è rafforzata la ricerca (spesso collettiva) sulla rappresentazione del movimento (reale o indotto dallo spostamento dello sguardo), sui processi della percezione, sugli ambienti, sull’esplorazione della tecnologia di macchine e motori applicati a opere d’arte.
L’intenzione di una continuità tra scienza, tecnologia e mito appare come motivo conduttore della sperimentazione di strutture interattive da parte di Correnti Magnetiche; un gruppo che lavorando sul dialogo con il pubblico ha portato ad una costellazione di proposte: Telespecchio (1992) di Flavia Alman e Sabine Reiff, in cui lo spettatore è invitato a confrontarsi con la propria immagine riflessa e metamorfosata, o Identimix(1994) che spinge ancora a guardare se stessi ma miscelando la propria identità visiva con quella di un altro osservatore; o Audio-ritratto (1996), composto da Il colore della voce e Il peso delle parole che rimandano alla misteriosa entità del suono delle corde vocali [17].
In particolare Correnti Magnetiche ha affrontato il tema della realtà virtuale, cercando di conferire una dimensione estetica e mitizzante ad una forma di interazione di fatto poco esplorata dall’arte e dominio invece di un consumo puramente ludico, proprio per le sue strabilianti (anche se ancora “primitive”) capacità di indurre a ricostruire artificialmente sensazioni fisiche e “immersive”, analoghe a quelle prodotte dai sensi veri, vista, udito, tatto e il connesso sistema di orientamento spazio-temporale. Definita da Mario Canali come “il mondo delle idee-corpo”, la realtà virtuale è stata interpretata come sistema simbolico e matrice di esperienze totalizzanti. Una piena immersione virtuale caratterizza Satori, “luogo alchemico d’esplorazione”, che fa comunicare e incontrare due visitatori provvisti di casco e Joystick; vincolato alle loro azioni e percezioni, si produce uno scenario di materia dinamica, lo spazio-tempo di una storia personalizzata e popolata di suoni, oggetti, luoghi, eventi, metafore immateriali della storia della materia: lo spazio del vento e quello della luce, lo spazio della pioggia e lo spazio dell’obelisco, fino allo spazio principale, quello degli uomini [18].
In Oracolo-Ulisse (1995) i battiti del cuore e la posizione del corpo dello spettatore-viaggiatore, seduto su un trono fiabesco, con uno scettro in mano, sono rilevati da una serie di sensori, trasmessi al computer e rielaborati in scenari visivi e sonori che si svolgono su uno schermo a forma di vela teso davanti al trono [19].
Sul fronte dell’interattività, ma con intenti e soluzioni diversi, si muove Piero Gilardi che ha integrato la tecnologia informatica con la natura artificiale dei suoi Tappeti natura (dal 1965), interpretando l’interattività come relazione collettiva e sociale, coerentemente con il proprio percorso di artista e animatore politico [20].
Anche nelle opere recenti di Studio Azzurro è fondamentale la dialettica tra opera, artista e spettatore, ma condotta secondo modalità leggere, distanziate dal diretto contatto con macchine e dispositivi; utilizzando tecnologie sofisticate ma invisibili, Studio Azzurro invita a vivere le immagini attivandole con atti comuni, istintivi («interfacce semplici, sistemi amichevoli» come afferma Paolo Rosa [21],che comunque introducono ad una dimensione di sorpresa e di fantasmagoria; toccare su un tavolo degli oggetti che si spostano e si trasformano (Tavoli – perché queste mani mi toccano?, 1995), calpestare corpi immersi del sonno, che, senza destarsi si agitano grevi e immemori (Coro, 1995), soffiare su paracadute luminosi e transeunti come nuvole per far volare degli angeli senza ali.
Si è verificata infatti nelle loro opere più recenti una liberazione del corpo e del gesto dai vincoli e dalle indicazioni della macchina e l’immagine è uscita definitivamente dallo schermo. «Le figure si muovono senza più cornici, fuori dai perimetri astratti e luminosi dei cinescopi, ma anche degli spazi convenzionali dell’inquadratura, si confrontano con superfici differenti, si ritagliano proprie nicchie da cui comunicare», scrive Paolo Rosa in un testo che si impegna a definire e spiegare le scelte di Studio Azzurro sull’interattività dal «punto di vista esclusivo dell’arte» [22] : dalla creazione di spazi di fruizione collettiva attraverso interfacce naturali alla ricerca di intrecci narrativi nel contesto audiovisivo e multimediale; dalla sensibilizzazione di una relazione aperta tra persone, opere e strumenti, alla definizione del sistema simbolico formato dai dispositivi tecnologici; dal carattere “eventuale” dell’opera a quello di esperienza; dalle regole al caso, dalle reazioni comportamentali all’assunzione di responsabilità di pubblico e artisti, dai desideri al gioco.
Il discorso di Studio Azzurro affronta infatti anche il tema della componente ludica, che costituisce forse l’elemento maggiormente caratterizzante dell’arte interattiva, o almeno il più evidente per il pubblico. Non vi è dubbio che nella produzione di molti protagonisti dell’arte elettronica (e anche nelle parole con cui spesso la commentano), i modi di partecipazione si strutturano come un invito al gioco [23]. E non senza motivo: il gioco è una forma primaria di interazione; è un’attività strutturata da regole, libera da finalità pratiche, mirata ad una gratificazione individuale e/o collettiva. Il gioco stimola l’esperienza, la conoscenza, la comunicazione, l’immaginazione, l’apprendimento, esplora il mondo e i comportamenti, ha un carattere rituale e significati simbolici; si associa alla competizione, alla verifica di capacità, produce situazioni ed eventi. Metafora del reale e insieme distrazione e allontanamento in un’altra dimensione, il gioco rilassa e rassicura, dà spazio e sfogo a impulsi e desideri, anche a quelli remoti e inconfessabili, vietati dalle convenzioni sociali [24].
Il rapporto tra arte e gioco ha radici profonde e diramazioni diverse che sarebbe troppo lungo analizzare in questa sede; ma si può notare come esso si sia strutturato – anche – come discorso sulle proprie regole. Regole teorizzate ad esempio da Quatremère de Quincy che definiva nel 1823 l’illusione della pittura come “gioco dell’imitazione” e ne stabiliva limiti e confini [25], e in seguito sovvertite con sistematico vigore dalle avanguardie, che hanno inventato il gioco di infrangere le regole dell’arte. Dalle provocazioni liberatorie del Futurismo a quelle del Dada e delle articolazioni del Neodada, dal gioco intrinsecamente destabilizzante di un Duchamp a quello deflagrante di creatività di un Picasso, dagli stimoli inesauribili di Munari agli inquietanti giocattoli di Tinguely, da Manzoni ai giochi percettivi dell’arte cinetica, fino al crollo dell’ultimo divieto, quello di toccare le opere d’arte (al quale proprio Piero Gilardi ha invitato, tra i primi, con i Tappeti natura, degli anni ’60).
La nuova regola del gioco dell’arte interattiva sembra essere proprio quella di dover giocare, con il corpo e con la mente, attivando un’esperienza che coincide con l’esperienza dell’opera. Si tratta di un gioco diverso da tutti gli altri in cui nessuno vince e nessuno perde, ma in cui si naviga in un mondo immaginario, come spiega Mario Canali: «In Satori non c’è nessuna meta da raggiungere, nessun nemico da distruggere, nessun punteggio da completare, nessun compito da eseguire, se non quello di esplorare gli spazi, di giocare con gli oggetti e i suoni, di inseguire il filo d’Arianna della propria curiosità e delle proprie emozioni, un personale percorso di senso. Gli spazi di Satori presentano oggetti, architetture personaggi, eventi e ‘regole del gioco’ in attesa di un elemento coagulante, l’ingresso del visitatore, per dare inizio ad una storia, una vicenda, per aggregarsi in una forma, per aprirsi alla possibilità di lampi di illuminazione. Satori, per la cultura Zen, è l’illuminazione improvvisa, è il risveglio della nostra consapevolezza, la comprensione immediata e senza mediazioni intellettuali, con l’unità di tutto il nostro essere, mente e corpo, dell’evidenza della realtà» [26].
Interpretato dunque dagli stessi artisti come veicolo di una serie di relazioni, questo gioco appare come purificato dalla volontà comunicativa che lo impregna; cavalca una dimensione simbolica ma prende le distanze dalla provocazione, dalla messa in discussione di valori acquisiti, dalla denuncia e al limite dalla violenza, così presenti invece nella struttura del gioco praticato da tanti protagonisti delle avanguardie e neoavanguardie. È un gioco non aggressivo e non competitivo, a differenza, forse volutamente, dalla asettica quanto feroce distruttività delle simulazioni dei videogame (che utilizzano commercialmente gli stessi dispositivi dell’arte interattiva); un gioco postmoderno, sostanzialmente rassicurante, persuasivo, connotato da una leggerezza che tende a distendersi come un velo su contenuti e messaggi.
La coscienza critica dell’osservatore, imperiosamente messa in causa dagli stimoli e dalle dialettiche dell’arte contemporanea, è messa in gioco a livelli fluidi e immaginosi che tendono a espungere inquietudini e contraddizioni. La carica eversiva (e anche, certamente, datata) del divertimento come opposizione alla cultura ufficiale di cui parlava Ben Vautier a proposito di Fluxus [27],e per far prevalere l’intento di far condividere agli spettatori, attraverso il gioco interattivo, le responsabilità del progetto degli artisti, e, in fondo, perfino la “tenuta” estetica dell’opera.
Il senso di una «ricerca di leggerezza come reazione al peso di vivere» di cui parla Calvino [28],il trasmigrare dalla rappresentazione all’azione ludica, sul crinale spettacolare di una trasformazione epocale, si inserisce comunque nel contesto, ancora poco sedimentato, di un ennesimo processo di ridefinizione dell’arte e dei suoi rapporti con l’esistente; ed è probabilmente destinato ad affinare le proprie armi e a modificare in un prossimo futuro le proprie iniziali esperienze.
[Testo tratto dal libro di Silvana Vassallo e Andreina Di Brino (a cura di), Arte tra azione e contemplazione. L’interattività nelle ricerche artistiche, Pisa, ETS, 2003. In una versione leggermente diversa e con il titolo La piuma e gli angeli. Il corpo leggero dell’arte interattiva, questo testo è stato pubblicato in «Ricerche di storia dell’arte», 71, 2000, pp. 23-34. Ringrazio la redazione e l’editore Carocci.]
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Note
- F. Popper (a cura di), Electra. L’éléctricité et l’électronique dans l’art au XX siècle, catalogo della mostra, Paris, 1983. [↩]
- F. Popper (a cura di), Electra … cit., pp. 72-73. [↩]
- Je sème à tout vent, di E. Couchot, con la collaborazione di M. Bret e M.- H. Tramus, è stata presentata nella mostra Artifices, J.L. Boissier (a cura di), Saint-Denis, 1990; cfr. F. Popper, L’art à l’âge électronique, Hazan, Paris, 1993, p. 114. [↩]
- S. Vassallo (a cura di), Studio Azzurro, Il Soffio sull’angelo, catalogo della mostra, Associazione Culturale L’Occhio, Pisa, 1997; F. Cirifino, P. Rosa, S. Roveda, L. Sangiorgi (a cura di), Studio Azzurro. Ambienti sensibili. Esperienze tra interattività e narrazione, catalogo della mostra, Electa, Milano, 1999, pp. 67-76. [↩]
- S. Vassallo (a cura di), op. cit., pp. 67-68. [↩]
- Tra i contributi più recenti su questo tema, N. Bourriaud, Esthétique relationelle, Les presses du réel, Dijion, 1999. [↩]
- A.M. Duguet, Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza, in V. Valentini (a cura di), Visibilità zero, Graffiti, Roma, 1997, p. 16. [↩]
- Cfr. R. Krauss, Video: the aesthetics of narcissism, in «October», 1976, traduzione italiana Il video, l’estetica del narcisimo, in V. Valentini (a cura di), Allo specchio, Lithos, Roma, 1998, pp. 50-61. [↩]
- Cfr. R. Krauss, Video: the aesthetics of narcissism, in «October», 1976, traduzione italiana Il video, l’estetica del narcisimo, in V. Valentini (a cura di), Allo specchio, Lithos, Roma, 1998, pp. 50-61. [↩]
- A.M. Duguet, Dispositifs, in «Communications», 48, 1988, pp. 221-242; S. Fadda, Definizione zero, Costa & Nolan, Milano, 1999, pp. 80 sgg. [↩]
- M. Morse, Video, Installation Art: the Body, the Image and the Space-in-Between, in D. Hall e S.J. Fifer (a cura di), Illuminating Video, Aperture, New York, 1990. [↩]
- G. Romano, Artscape. Panorama dell’arte in rete, Costa & Nolan, Milano, 2000. [↩]
- F. Popper, L’art à l’âge électronique, … cit., p. 106. [↩]
- F. Popper, L’art à l’âge électronique, … cit., p. 107. [↩]
- M. Abel (a cura di), Jeffrey Shaw: a user’s manual, ZKM, Karlsruhe, 1997. [↩]
- H. Klotz, Contemporary Art. The Collection of the ZKM: Center for Art and Media Karlsruhe, Prestel, Munich-New York, 1997; H.P. Schwarz, Media-Art Hi¬story. Media Museum ZKM: Center for Art and Media Karlsruhe, Prestel, Muni-ch-New York, 1997; tra le altre opere vanno ricordate: Piano – as image media, di T. Iwai; Flora petrinsularis, di J.L. Boissier (1993); Gravity and Grace, di Y. Matsmoto (1995) e The Winds that Wash the Seas, (1995) di C. Dodge, in cui i sensori montati attorno al monitor consentono allo spettatore di soffiare attraverso strati sovrapposti di immagini video, svelandole una dopo l’altra [↩]
- M.G. Mattei (a cura di), Correnti Magnetiche. Immagini virtuali e installazioni interattive, catalogo della mostra, Arnaud-Gramma, Perugia, 1996. [↩]
- M.G. Mattei (a cura di), Correnti Magnetiche, … cit., pp. 53-55. [↩]
- M.G. Mattei (a cura di), Correnti Magnetiche, … cit., p. 55. [↩]
- P. Gilardi, Dall’arte alla vita, dalla vita all’arte, La Salamandra, Milano, 1982. [↩]
- P. Rosa, Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva, Appendice, pp. 270-271. [↩]
- P. Rosa, Rapporto… cit., Appendice, p. 268. [↩]
- Si vedano, ad esempio, anche le installazioni di M. Cittadini e G. Verde (cfr. M.C. Cremaschi, Dalla videoarte all’arte interattiva, in P. Sega Serra Zanetti e M.G. Tolomeo (a cura di), La coscienza luccicante, catalogo della mostra, Gangemi, Roma, 1998, pp. 193-99. [↩]
- Si vedano i saggi e la bibliografia in A. Santacroce (a cura di), Il gioco e la cultura moderna, Lerici, Roma, 1979. [↩]
- A.C. Quatremère de Quincy, De l’imitation dans les Beaux-Arts, Paris, 1823, pp. 119 sgg. [↩]
- M.G. Mattei (a cura di), Correnti Magnetiche, … cit., p. 53. [↩]
- B. Vautier, Tout cela est difficile, in A. Bonito Oliva (a cura di), Ubi Fluxus ibi motus, catalogo della mostra, Mazzotta, Milano, 1990, p. 270. [↩]
- I. Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano, 1993, p. 33. [↩]
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