LA VIOLAZIONE DELLA REGOLA MATEMATICA NELL’ARTE
INTRODUZIONE
“L’arte deve disturbare, la scienza deve rassicurare” –Georges Braque
E’ universalmente riconosciuto il forte legame tra la Matematica, mezzo per la scoperta e la descrizione della realtà e l’Arte che questa stessa realtà vuole raffigurare.
La storia della civiltà è testimone delle forti influenze che la Matematica ha avuto ed ha sull’Arte. L’Arte classica obbedisce a regole su misure e proporzioni, gli artisti (in senso lato: pittori, scultori, architetti) utilizzano il rettangolo aureo, fanno ricorso alla sezione aurea, alla teoria delle proporzioni che era alla base della Geometria e della Scienza Greca. Nella civiltà greca, uno dei criteri per l’Arte è proprio la teoria delle proporzioni. Oggetti matematici, creati da filosofi e matematici greci, sono stati considerati simboli della bellezza classica. Basti pensare, ad esempio, ai solidi platonici (esaedro, tetraedro, ottaedro, icosaedro e dodecaedro) definiti da Platone nel Timeo come gli oggetti più belli dell’universo.
Nel Rinascimento l’artista si presenta come un intellettuale completo: è pittore, scultore, architetto, matematico, uomo di scienza e, non solo dipinge, scolpisce, progetta, ma pubblica opere di argomento matematico e geometrico di interesse. Tanto è vero che Piero della Francesca, Brunelleschi e Alberti possono essere considerati tra i matematici dell’epoca. L’esigenza dei pittori di rappresentare fedelmente il mondo tridimensionale su tele a due dimensioni finisce con il mettere in crisi la geometria introdotta e formalizzata da Euclide e porta alla nascita di nuove teorie geometriche che diano ragione dei punti di fuga. Da questo intreccio tra Matematica e Arte nasce la geometria proiettiva.
Nella seconda parte del diciannovesimo secolo muta l’idea di spazio e della sua descrizione; la negazione del V postulato di Euclide porta alla geometria iperbolica e in campo artistico all’affermarsi dell’impressionismo. Si scopre che lo spazio visivo non è esattamente euclideo, ma iperbolico (Rudolf Lunenberg, 1947) e gli artisti cominciano a mettere su tela ciò che l’occhio effettivamente vede e non ciò che esso dovrebbe vedere. L’introduzione del tempo come quarta dimensione da affiancare ad altezza, larghezza e profondità attribuisce dinamicità agli oggetti. E il problema della loro rappresentazione su tele bidimensionale sembra insormontabile. Eppure artisti come Giacomo Balla (Dinamismo di un cane al guinzaglio), Umberto Boccioni (Dinamismo di un ciclista) e Marcel Duchamp (Nudo che scende le scale) riescono a dare una rappresentazione pittorica del movimento.
La storia della civiltà è dunque testimone delle influenze che la Matematica ha avuto sull’Arte e sugli artisti. Lo stesso M. C. Escher, indiscusso “inventore” di oggetti impossibili e di mondi immaginari, fu influenzato, nel realizzare le sue opere più belle e note, dalle teorie matematiche di Poincaré e Penrose.
Da una analisi delle influenze della Matematica nell’Arte è inoltre possibile dedurre che nel corso del tempo è cambiato il modo stesso di utilizzare la Matematica da parte degli artisti.
Infatti, nell’arte classica e in quella Rinascimentale, la Matematica è stata utilizzata come “strumento tecnico”. Con l’utilizzo di canoni matematici ben precisi, quali ad esempio le misure e le proporzioni, gli artisti dell’epoca rappresentano forme caratterizzate dall’essere rigide ed immutabili, rispondenti a canoni di invarianza metrica. Ciò è evidente in opere come la Venere di Botticelli, l’Uomo Vitruviano di Leonardo o il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca.
Invece, nell’arte contemporanea essa diventa uno “strumento creativo”: gli artisti si lasciano ispirare da essa, le opere ricordano “oggetti matematici” ben precisi e codificati. Si pensi ad esempio ad opere come Numeri Innamorati di Giacomo Balla la quale raffigura, tra gli altri, alcuni numeri che compaiono nella successione di Fibonacci e alla bellissima scultura di Max Bill che raffigura il Nastro di Moebius, uno degli oggetti topologici più affascinanti.
La Matematica offre quindi una chiave di lettura di molte opere d’arte, talvolta un’insospettabile chiave di lettura come quando le sue rigide regole, i suoi assiomi, le sue dimostrazioni vengono violati intenzionalmente dall’artista.
Questa trattazione, attraverso la presentazione di alcune opere, vuole indagare i motivi che spingono l’artista a infrangere consapevolmente la legge matematica, a mostrarsi così apparentemente irriverente nei confronti della Matematica, “Regina delle Scienze”.
Il Doriforo di Policleto
La ricerca della perfezione corporea nell’arte greca
Uno degli artisti greci che nelle sue opere ha cercato di rappresentare il corpo in modo perfetto è stato lo scultore Policleto di Argo nel Peloponneso, vissuto intorno al V secolo a.C. . Purtroppo non ci sono pervenute sue opere originali, ma solo copie di cui la maggior parte d’età romana. Oltre che per le sue opere scultoree è ricordato anche per un trattato teorico, intitolato “Kanon”, cioè canone, che definisce le regole di ciò che noi oggi chiamiamo “canone policleteo”: l’equilibrio raggiunto nelle statue (ponderazione) e la corrispondenza inversa fra gli arti inferiori e quelli superiori (il chiasma). Le statua che maggiormente mostra la sua concezione è il Doriforo. Nel Doriforo (dal greco “portatore di lancia”) si può notare che la testa è un ottavo dell’intera altezza; il busto, dal pube al collo, è tre ottavi; tre ottavi è anche la larghezza massima e così via; si appoggia su una sola gamba, quella destra (portante), e non è più sostenuta ugualmente dalle due gambe in modo rigido. La gamba sinistra (flessa) bilancia il corpo siccome è leggermente arretrata e posa in terra, senza compiere sforzo, solamente con la punta del piede. Diversa è l’articolazione, che nasce da questa posizione naturale, delle parti superiori del corpo: il bacino si inclina scendendo verso la gamba flessa mentre la linea delle spalle è inclinata in direzione opposta; il braccio destro è flesso mentre quello sinistro è portante; il collo seguendo l’inclinazione delle spalle è piegato dal lato opposto di quello della testa, che si incurva verso destra. E’ qui spiegato il cosiddetto “chiasma” o “chiasmo” (incrocio) cioè la relazione inversa delle gambe e delle braccia: la gamba destra e il braccio sinistro sono portanti mentre la gamba sinistra e il braccio destro sono flessi. Tramite questa relazione e un gioco sapiente di rapporti, Policleto raggiunge un equilibrio detto “ponderazione” che si presenta stabile e immutabile.
In questo modo, l’artista greco idealizza la figura: il Doriforo rappresenta l’ideale greco della coerenza razionale, di rapporto reciproco fra le varie parti e fra queste e il tutto, ossia l’ideale di perfetta proporzionalità. Come era scritto nel “Canone” di Policleto, la bellezza consiste nell’armonica proporzione delle parti, di un dito rispetto all’altro, di tutte le dita rispetto alla mano, del resto della mano rispetto all’intero braccio, infine di tutte le parti a tutte le altre.
Così l’equilibrio raggiunto da Policleto è ciò che la letteratura definisce “canone” , e che noi naturalmente associamo all’idea di “armonia”.
Ma a questo punto occorre chiedersi: che cos’è l‘armonia nell’arte? L’armonia, in Policleto prevedeva il rispetto del canone, la proporzione e la perfezione nella composizione. Ma in verità, essa è un nostro modo di inquadrare l’ordine, al di là delle regole. Ne è prova, il discobolo di Mirone in cui, accantonata l’evidenza empirica della sproporzione, prevale la forza dell’aspetto teorico in termini di “armonia”, come accadrà in musica con Schoenberg , uno dei primi compositori a scrivere musica completamente al di fuori dalle regole del sistema tonale.

Policleto, Doriforo; 450 a.C. circa; copia romana in marmo (originale in bronzo); alt. 2,12; Napoli, Museo Nazionale
IL DISCOBOLO DI MIRONE
La violazione della regola è determinata dalla sproporzione tra le dimensioni del disco e la figura dell’atleta.
Mirone era uno dei bronzisti più famosi dell’antichità (500-450 a.C.), ma tutte le sue opere sono andate perdute. Così di lui ci restano solo alcune copie di età romana. Tra queste compare il Discobolo.
Nel Discobolo, Mirone tratta il tema, consueto all’antichità, dell’atleta; ma il suo non è l’atleta vincitore, è colto nel momento dell’azione, mentre sta per lanciare il disco. Egli non coglie la continuità del movimento, piuttosto ne coglie l’immobilità. Infatti l’atleta è rappresentato in quell’attimo di stasi totale in cui, avendo sollevato il braccio destro fino alla massima altezza, si accinge a scattare nella direzione opposta.
Il movimento è dato dall’intersezione di due archi: il primo arco è quello che percorre tutto il corpo partendo dalla testa e poggia sulla gamba destra. Il secondo arco comincia dal disco, prosegue nelle due braccia aperte fino all’appoggio sul ginocchio e termina con la gamba sinistra indietro.
Sembra quasi un meccanismo a molla che si “carica”, raccoglie tutte le energie prima di liberarle nel lancio. Infatti il discobolo viene colto nel momento di massima tensione muscolare, un attimo prima dello scatto.
La testa è molto pesante poiché è rappresentata da una figura solida (la sfera), quindi per equilibrare il tutto, Mirone ha dovuto realizzare un disco molto più grande rispetto alle sue reali dimensioni.
L’ARRINGATORE DEL TRASIMENO
La violazione è dettata da un bisogno espressivo di caratterizzazione.
Statua bronzea etrusca (90 a.C. circa) che rappresenta Aulo Metello nell’atto di tenere un discorso, come si vede dall’iscrizione incisa sul bordo inferiore della toga. Il nome della statua è tratto dalla tradizione che la dice scoperta nel 1566 a Sanguineto sulle rive del lago Trasimeno (Umbria).
Non è il giovane armonicamente strutturato dei greci, non è idealizzato, bensì è un uomo di mezza età con la pancia e solcato da rughe sulla fronte e alle estremità degli occhi. Ma proprio questo esprime la maturità, raggiunta attraverso la vita vissuta, e quindi la pacatezza, la saggezza e l’equilibrio dell’eloquio. Le linee del panneggio della toga e del corpo conducono obliquamente, partendo dalla gamba flessa e avanzata, verso sinistra, verso il braccio alzato e,infine, verso la mano proporzionalmente più grande del naturale, è enfatizzata. Ma non è né un caso, né un errore. L’arringatore è l’avvocato che occupa la difesa; l’arringa è il discorso giuridico pronunciato nelle aule della difesa. La mano è l’elemento che accompagna, con i suoi movimenti, la parola; sottolinea l’importanza di un passo del discorso; visualizza e rende più chiaro, il significato; mima il contenuto. L’oratore non parla ad un singolo; parla a un vasto uditorio che, attraverso il suo gesto, deve intuite i concetti, prima ancora che comprenderli con la ragione.
LA VOCAZIONE DI SAN MATTEO DI CARAVAGGIO
La violazione, rappresentata dall’origine della luce, vuole evocare una dimensione semantica diversa ed “altra”, per rappresentare un significato nascosto.
La vocazione (da voco=essere chiamati dentro) di San Matteo illustra il passo evangelico che narra la chiamata inaspettata del pubblicano (colui che estorce le tasse) Matteo: “Seguimi” -gli dice Gesù, “e quello, alzatosi, lo seguì”. Caravaggio accentua il significato della fede che improvvisamente tocca chiunque, anche il peccatore, anzi più questo di altri perché più ha bisogno dell’aiuto di Dio (nei Vangeli “non sono i validi che hanno bisogno del medico, ma i malati”).
La scena si svolge in un ambiente buio e squallido; seduti attorno ad un tavolo alcuni uomini contano del denaro; è il momento della riscossione delle tasse. Improvvisamente, accompagnato da Pietro, entra Gesù accennando a Matteo, che indica se stesso, stupefatto. C’è dunque istantaneità nella chiamata e nella risposta: la volontà di Dio è espressa e ricevuta contemporaneamente; un attimo ancora e Matteo, abbandonati il suo lavoro, il suo guadagno e i suoi compagni, si alzerà per seguire il Redentore.
Tra i presenti solo Matteo capisce; i due giovani a destra si voltano, all’apparire di Cristo, incuriositi dal nuovo venuto; gli altri neppure si accorgono del miracolo e continuano avidamente il conteggio. Il significato del fatto narrato (la grazia che discende nel buio del peccato) è reso mediante la luce di cui non conosciamo l’origine fisica. Essa non proviene dalla finestra, che pure è chiaramente visibile davanti a noi, ma intensa e obliqua, viene da destra. Proprio perché non possiamo renderci conto della sua origine, perde il significato razionale, concreto, di luce reale; è una luce morale, che scende sfiorando la testa di Gesù, esaltandone ed individuandone la mano, si sofferma sugli astanti, bloccandoli nell’atto che stanno compiendo, conferendo loro intensa vita plastica.
Il dipinto è realizzato su due piani paralleli, quello più alto vuoto, occupato solo dalla finestra, mentre quello in basso raffigura il momento preciso in cui Cristo, indicando San Matteo, lo chiama all’apostolato. Il santo è seduto ad un tavolo con un gruppo di persone: sono vestite alla moda dell’epoca del pittore ed hanno il viso di modelli scelti tra la gente comune e sono raffigurate senza alcuna idealizzazione, con il realismo esasperato che ha sempre caratterizzato l’opera di Caravaggio. Tutto questo trasmette la percezione dell’artista dell’attualità della scena (con la quale vuole comunicarci che la chiamata di Dio è universale e senza precisa collocazione nel tempo: ognuno di noi sarà chiamato) e la sua intima partecipazione all’evento raffigurato. Su un piano altro, totalmente metastorico, si pongono giustamente il Cristo e lo stesso Pietro, avvolti in una tunica senza tempo.
Caravaggio immerge la scena in una fitta penombra tagliata da squarci di luce bianca per accentuare la tensione drammatica dell’immagine e focalizzare sul gruppo dei protagonisti l’attenzione di chi guarda. Una luce che fa emergere visi, mani (per evidenziare e guidare lo sguardo dello spettatore sull’intenso dialogo di gesti ed espressioni) o parti dell’abbigliamento e rende quasi invisibile tutto il resto. Forse non è casuale che uno dei compagni di Matteo porti gli occhiali, quasi che fosse accecato dal denaro.
L’opera prende vita, movimento dalla luce ed i personaggi si muovono sulla tela come attori su un palco grazie ad essa.
Di grande intensità e valenza simbolica, nella Vocazione, è il dialogo dei gesti che si svolge tra Cristo, Pietro e Matteo. Il gesto di Cristo (che altro non è che l’immagine speculare della mano protesa nella scena della Creazione di Adamo della Cappella Sistina michelangiolesca) viene ripetuto da Pietro, simbolo della Chiesa Cattolica Romana che media tra il mondo divino e quello umano ed a sua volta ripetuto da Matteo. È la rappresentazione simbolica della Salvezza, che passa attraverso la ripetizione dei gesti istituiti da Cristo (i sacramenti) e ribaditi, nel tempo, dalla Chiesa.
La tela, così, è densa di significati allegorici.
La luce, grande protagonista della raffigurazione pittorica, assurge a simbolo della Grazia divina (non a caso non proviene dalla finestra dipinta in alto a destra che, anzi, resta del tutto priva di luminosità, ma dalle spalle di Cristo), Grazia che investe tutti gli uomini, pur lasciandoli liberi di aderire o meno al Mistero della Rivelazione.

Caravaggio (Michelangelo Merisi), “La vocazione di San Matteo”; 1598-1601; olio su tela; m 3,22x3,40; Roma; San Luigi dei Francesi
CONCLUSIONE
Se la Matematica è lo studio e la descrizione scientifica del mondo dell’esperienza secondo criteri formali, l’Arte è invece la ricerca della “eccezione” all’interno dello schema rappresentativo. Ogni epoca ha dettato regole più o meno universali e condivise per l’attività artistica (dalla prospettiva non matematica di Giotto a quella “rigorosa”di Dürer e Piero della Francesca), ma all’interno di questi linguaggi universali, che in alcuni casi hanno strette parentele,come abbiamo visto, con la Matematica, l’artista tende ad introdurre una violazione che è l’elemento di radicalità soggettiva.
In altri termini, è la volontà dell’artista di mostrare una realtà che scavalca la logica, che supera le regole assolute per giustificarne altre, la necessità di sottolineare qualcosa o anche di rivelare qualcosa di nascosto….
PDF (331 KB)
Comments are closed