Mi interessa l’idea del vivente in relazione agli artefatti creati dall’uomo, e in particolare a quelli all’arte. A mio avviso c’è una duplice riflessione da compiere sulle relazioni tra arte e vivente. Ciò che mi sembra emergere dagli interventi di oggi e su cui in particolare voglio insistere sono due articolazioni secondo me fondamentali.
Il rapporto tra arte e materia organica è un rapporto antico. Tutta la storia dell’arte è stata influenzata dal vivente, da “ciò che vive”. Ciò che vive – animali, piante, altri esseri umani… – per millenni ha rappresentato l’ispirazione e il modello degli artisti, l’universo significante nel quale esistevano, che cercavano di esorcizzare, di comunicare, di rappresentare, di problematizzare. Tutta la storia dell’arte si è misurata con la natura, ma un cambiamento importante è avvenuto con le tecnologie che derivano dalla biologia e da alcune discipline che le ruotano intorno.
La prima articolazione del vivente
La relazione tra arte e vivente ha due articolazioni distinte. La prima, che conosciamo si può dire da sempre, ha le radici nella materia organica, è fondata sui composti del carbonio. Il rapporto tra arte e vivente ha tratto nuova linfa dallo sviluppo di discipline scientifiche come la biologia, le scienze derivate e la disponibilità di tecnologie e strumenti come le biotecnologie, la genetica, ecc. Un numero crescente di artisti si è dedicato a forme d’arte che usano questi strumenti. Accanto al miglioramento di pratiche millenarie di incrocio, selezione e ibridazione vegetale e animale, si sono sviluppate pratiche fondate sulle biotecnologie, sull’ingegneria genetica, che hanno dato origine a nuove e spesso discusse forme espressive. La prima articolazione coinvolge l’organico, le biotecnologie e l’ingegneria genetica.
Questa relazione tra arte e scienze avanzate ha dato origine a una serie di forme espressive che sono state chiamate in vari modi: “bioarte”, “arte genetica”, “arte transgenica”… Anche se spesso queste definizioni vengono usate indiscriminatamente, constano in realtà di pratiche, strumenti ed esiti che sono molto diversi e possono anche essere molto distanti tra loro. Tuttavia esistono degli elementi di intersezione e una base comune. Per cercare di dare una qualche sistematicità a questa molteplicità di approcci può forse essere utile un grafico, che ho realizzato prendendo spunto da un intervento di George Gessert – artista e teorico statunitense che dal 1985 opera nell’ambito dell’arte genetica in campo vegetale – in un messaggio inviato su Yasmin, mailing list sulle relazioni tra arti, scienze e tecnologie sostenuta dal programma DigiArtsdell’UNESCO.
Secondo Gessert [1]:
[…] Bioart is art that is alive or has living components. Not all bioart involves biotechnology, or genetic change. Bioart includes some kinds of ecological art and landart, for example Alan Sonfist’s recreations of the original biota of Manhattan. Art that represents life (chromosomes, DNA, etc.) is not bioart. Computer simulations of genetic processes, evolution, plant growth, etc. are simulations of life and not alive, hence not bioart.
Biotech art is bioart that involves biotechnology, in the very broadest sense of that word, to include both genetic and non-genetic manipulations of organisms, including plant and animal breeding, plant and animal selection, chromosome manipulation through colchicine treatments and X-rays, tissue culture, and developmental interventions. Biotech art includes Brandon Ballengee’s frogs and Marta de Meneze’s chemical interventions in butterfly development. Like bioart, biotech art does not include representations (except perhaps some kinds of documentation), or computer simulations of life.
Genetic art is art that involves DNA in the very broadest sense. This includes some kinds of representational work – eg. Alexis Rockman’s paintings of evolution at work, and computer simulations of genetic processes. The term genetic art is potentially confusing, since computer artists also use it in a slightly different way.
Transgenic art, as I understand the term, is bioart that involves genetic engineering. Examples are Alba and most of Joe Davis’s work. Marta de Menezes butterflies are not transgenic art. […]
Ho pensato che potesse essere interessante trasporre graficamente queste definizioni, per visualizzarle. Ho quindi realizzato il grafico che vi propongo, l’ho inviato a Gessert perché ne prendesse visione, dato che trae ispirazione da un suo testo, e lui mi ha risposto che il grafico rispecchia perfettamente le relazioni tra forme espressive così diverse [2].
Il grafico mostra, nella sua dimensione più generale, due grandi insiemi: il regno dell’inorganico (in grigio), e il “regno del carbonio”, della chimica organica (in verde), cioè della chimica basata sui composti del carbonio. All’interno del regno della chimica organica, della materia organica, quel dominio in cui tradizionalmente abbiamo sempre situato la vita sulla Terra, l’insieme più ampio e generale è costituito dalla bioarte, che comprende tutti gli altri e che è totalmente compreso nella dimensione carbon based, basata sul carbonio, della materia organica. La bioarte potrebbe essere definita, secondo Gessert, come quell’arte “che è viva o che utilizza componenti viventi”. Non tutta la bioarte riguarda le biotecnologie o la genetica. L’arte che rappresenta la vita, le simulazioni al computer, non sono bioarte. La bioarte include forme artistiche come l’arte ecologica e la Land Art. Il grafico dunque, tra l’altro, evidenzia proprio la relazione che è al centro di questo convegno: quella tra Land Art e bioarte.
Il primo sottoinsieme della bioarte è quello dell’arte biotecnologica. L’arte biotecnologica, secondo Gessert, è quella bioarte che coinvolge le biotecnologie nel senso più ampio del termine: manipolazioni genetiche e non, allevamento e selezione di piante e animali, manipolazione dei cromosomi, coltura dei tessuti. Per esempio il lavoro dell’artista portoghese Marta de Menezes, che disegna dei motivi sulle ali di alcune varietà di farfalle, appartiene a questa categoria.
Il sottoinsieme successivo è quello dell’arte genetica. Secondo Gessert l’arte genetica coinvolge il DNA, l’uso del DNA e l’intervento sul DNA nel senso più ampio del termine. A questo insieme appartengono alcuni lavori di Eduardo Kac, ma anche opere completamente al di fuori dell’organico, come simulazioni di processi genetici al computer (per esempio alcuni lavori di Christa Sommerer e Laurent Mignonnau, di cui ha parlato prima Lorenzo Taiuti), forme di pittura e rappresentazione, applicazioni di vita artificiale, opere che sono basate sul software. Che si fondano sulla simulazione, cioè che simulano organismi, processi o parti di processi, comportamenti o scenari che sono del vivente o rimandano ad esso. La cosa interessante che il grafico mostra è che in questo insieme c’è una relazione – un dialogo – interessante tra dimensione organica e dimensione non organica. Come si vede, una parte di questo insieme esce dalla bioarte, dunque dal dominio del carbonio, per entrare nel dominio dell’inorganico, e costituisce un ponte interessante, e promettente, tra organico e inorganico.
Infine, compreso nella bioarte e come sottoinsieme dell’arte biotecnologica e dell’arte genetica, c’è l’insieme dell’arte transgenica. L’arte transgenica è quella bioarte che coinvolge l’ingegneria genetica. Forse gli esempi più famosi in questo ambito sono Alba, il coniglio fluorescente proposto da Eduardo Kac e i lavori di Joe Davis.
La seconda articolazione del vivente
La seconda articolazione del vivente è molto più recente della prima, e almeno a partire dalla fine degli anni ‘80 del secolo scorso [3] il campo dell’arte è ricco di applicazioni. Questa seconda articolazione scaturisce da un insieme di varie discipline, tra cui la “vita artificiale” e la robotica sono forse le più rappresentative. In particolare la vita artificiale, emersa ufficialmente in occasione del primo convegno internazionale “Artificial Life I” organizzato da Christopher Langton nel 1989 a Los Alamos [4], sviluppa l’idea di studiare la vita – nella sua organizzazione nel singolo, nella sua dimensione sociale, e nella sua evoluzione – simulandone delle caratteristiche [5]. Caratteristiche che sono costitutive degli organismi viventi, caratteristiche sociali, peculiarità che riguardano il rapporto degli organismi con l’ambiente in cui sono, e l’evoluzione di questi sistemi. Come la robotica – e all’opposto dell’Intelligenza Artificiale – la vita artificiale ha un approccio dal basso verso l’alto, a partire da elementi semplici arriva a configurare sistemi via via più complessi. La vita artificiale simula, per via informatica, i processi della vita mediante programmi e simulazioni al computer, come il calcolo evolutivo (algoritmi evolutivi, algoritmi genetici, programmazione genetica, swarm intelligence, la chimica artificiale, i modelli basati su agenti e gli automi cellulari).
L’altra dimensione interessante è la robotica. La robotica è una disciplina “calda”, in rapida evoluzione. Il numero appena uscito della rivista Le Scienze dedica spazio a questo argomento, ma più in generale il fatto che una testata scientifica importante si soffermi spesso in maniera estesa sulla robotica è molto indicativo [6]. La robotica è una delle discipline più attuali e non dobbiamo intenderla come nei film degli anni ‘50 e ‘60, nei quali i robot erano entità elettromeccaniche costituite di metallo e di circuiti elettronici. Piuttosto dobbiamo considerarla nelle sue attuali ibridazioni con la dimensione biologica, in chiave biorobotica, argomento toccato dall’intervento di Louis Bec.
Uno dei meriti della vita artificiale è stato quello di estendere l’idea di vita al di fuori della chimica basata sui composti del carbonio, rendendo l’idea di vita più generale, universale, anche al di là della dimensione dell’organico. Se le conoscenze che possediamo sulla vita sono strettamente collegate alla presenza della materia organica, del carbonio, la vita artificiale ha cercato di superare questo limite, questa particolarità, creando dei costrutti che hanno le caratteristiche del vivente ma che non necessitano della materia organica per vivere. Dunque, a definire il vivente non è più il “di che cosa il vivente è fatto”, la materia di cui è costituito (tradizionalmente: i composti del carbonio), bensì le istruzioni che lo governano. Per impiegare una metafora informatica, a definire il vivente non è più l’hardware, ma il software.
Secondo Watson e Crick, gli scopritori del DNA, “la vita non è che una vasta gamma di reazioni chimiche coordinate; il segreto di questa coordinazione è un complesso e attraente insieme di istruzioni iscritte chimicamente nel nostro DNA”. Il vivente consueto, organico, possiede il codice del DNA, il vivente artificiale possiede il codice dell’algoritmo. Ma se nel primo caso il codice non può che legarsi alla materia e alla dimensione organica, nel secondo caso il vivente può configurarsi in varie maniere: può essere privo di materia propria ed esistere all’interno di un computer, oppure può possedere un corpo robotico, o ancora può ibridarsi con l’organico e aprire settori e possibilità di applicazione molto interessanti. Da questo punto di vista il vivente non biologico sembra avere una maggiore libertà, maggiori possibilità e opportunità.
Le due articolazioni del vivente che ho proposto indicano due diversi percorsi, due declinazioni del vivente che – anche dialogando tra loro, interagendo o ibridandosi – arricchiscono le conoscenze dell’umanità (e quindi anche gli strumenti a disposizione dell’arte), e delineano nuovi e interessanti orizzonti.
Il vivente
Uno dei concetti più citati negli interventi di questa giornata di studio è stato quello di “vivente”. Per concludere vorrei compiere qualche riflessione su questo concetto, da cui il mio intervento ha preso le mosse e al quale è girato intorno: il vivente, la vita. Il vivente è stato ed è il modello dell’arte, ma è anche il modello della vita artificiale, della robotica, di una vasta pletora di tecnoscienze e di un numero crescente di artefatti, di macchine e di dispositivi che costruiamo e che devono essere in grado di “sopravvivere” a danni, errori, difetti, virus, oppure di “adattarsi” al variare dei contesti, di interagire con le novità e gli imprevisti. Come è in grado di fare il vivente.
Il vivente è il miglior modello di questi artefatti perché ha dimostrato la sua efficienza nel corso di un’evoluzione durata circa quattro miliardi di anni: la strategia migliore è inscritta nell’organizzazione del vivente perché il vivente ha già “esperienza” del mondo. Dunque, come è avvenuto nella storia dell’umanità, e quindi anche nell’arte, il vivente stesso costituisce il miglior modello degli artefatti umani. Quando dobbiamo creare dispositivi, sistemi o macchine che devono trovarsi in situazioni critiche, copiare il vivente può rappresentare la soluzione più efficace.
La biologia e le scienze derivate sono divenute quindi delle discipline chiave, sino a proporsi come paradigmi anche al di fuori dei loro ambiti peculiari, assumendo un peso rilevante anche in ambito culturale. Per fare qualche esempio [7]: negli anni 90 il lavoro di Humberto Maturana e Francisco Varela è divenuto fondamentale per alcuni settori della sociologia, così come quello di Richard Dawkins sul gene egoista, quello di Mauro Ceruti sull’evoluzione, quello di Luigi Luca Cavalli-Sforza sulle relazioni tra genetica e linguistica, e, in epoca più recente, quello di Roberto Marchesini sul concetto di “Post-Human”. In campo artistico sono state realizzate numerose manifestazioni, tra cui, per fare solo un esempio, “The future of evolution”, edizione del ‘96 di Ars Electronica [8].
Per restare nel settore scientifico basta pensare a quanti Premi Nobel sono andati alla biologia e alle discipline correlate negli ultimi venti anni. In campo tecnologico è indicativo il fatto che circa un terzo degli ingegneri al MIT – quello che può essere considerato il “tempio dell’inorganico” – lavori su problemi di natura biologica per realizzare dispositivi destinati a influenzare la vita quotidiana in un prossimo futuro, perché il miglior modello di ciò che dovrà “vivere” è costituito dal vivente stesso.
Tuttavia noi non sappiamo bene che cosa sia il vivente. Alla dimensione umana siamo abbastanza sicuri di distinguere ciò che vive (le piante, gli animali) da ciò che non vive (per esempio le sedie su cui siamo seduti). Ma alla dimensione microscopica, per esempio, la certezza di questi confini sfuma, anche per gli scienziati. I virus sono degli enigmi, perché sono situati al confine tra la chimica inorganica e la vita, e per decenni gli scienziati hanno discusso se debbano essere considerati viventi o meno. Oggi si sa che queste entità così antiche interessano tutte le forme di vita che popolano la Terra, che spesso determinano quali di esse sopravviveranno, che sono responsabili della comparsa o scomparsa delle specie, che hanno giocato – e giocano – un ruolo fondamentale nell’evoluzione. I virus sono una sorta di impollinatori di geni, di impollinatori dell’evoluzione, introducono dei geni negli organismi i quali riescono a sopportare o meno i cambiamenti che ne derivano. Anche i nostri geni recano la traccia di virus. In un suo recente articolo su Le Scienze, Luis Villareal, direttore del Center for Virus Research dell’Università della California a Irvine, sostiene che tra che ciò è vivo e ciò che non lo è c’è una gamma di situazioni intermedie, e che “nonostante che non siano completamente vivi, i virus possono essere considerati più che semplice materia inerte: tendono alla vita.” [9] [9]. Questo “tendere alla vita”, forse perché scritto da uno scienziato, è a mio avviso una cosa più che interessante, quasi affascinante. La vita è forse anche una funzione della scala a cui la si osserva?
Albert Szent-Györgyi, il grande chimico ungherese Premio Nobel per la medicina nel 1937, dava della vita una definizione profondamente inorganica: “la vita non è altro che un elettrone in cerca di un posto in cui riposare” [10]. La contiguità, la commistione della vita con l’inorganico non dovrebbe stupire. In fondo, a partire da circa quattro miliardi di anni fa, l’organico si è evoluto dall’inorganico [11]; organico e inorganico sono universi contigui, osmotici. La creatività, l’arte, hanno già valicato questa barriera: come si vede nel grafico che vi ho mostrato, l’arte genetica getta un ponte tra organico e inorganico, attraversandone il confine. Ma anche molte discipline dell’artificiale inseguono questo percorso [12], le nanotecnologie [13], la biologia sintetica [14]… La doppia articolazione del vivente potrebbe dunque configurarsi, più che come una dualità, come una strategia cognitiva, persino evolutiva.
[Questo intervento è stato presentato alla Conferenza Internazionale “From Land Art to Bio Art,” GAM, Torino, 20 gennaio 2007. E’ stato pubblicato in Ivana Mulatero (ed.), Dalla Land Art alla Bioarte – From Land Art to Bio Art, Torino, Hopefulmonster, 2008, un volume in italiano e inglese che raccoglie gli atti della conferenza]
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Notes
- George Gessert, “Re: [YASMIN-msg] Exhibiting bioart – Yasmin discussion”, messaggio inviato alla mailing list Yasmin, 25 marzo 2006, http://www.media.uoa.gr/yasmin/ [↩]
- La risposta di Gessert:
Da: ggessert@igc.org
Data: 09 gennaio 2007 22:43:23 GMT+01:00
Oggetto: Re: A question
A: plc@noemalab.org
Dear Pier Luigi Capucci,
The day I received your message I was wondering, how would one graphically represent the relationships among genetic art, bio art, transgenic art, etc.? Your timing is perfect! As is your graphic. You have it exactly right. I look forward to seeing the Italian edition of L’Art Biotech with your excellent graphic. Best, George [↩] - Cfr., per esempio, Karl Gerbel, Peter Weibel (a cura di), Ars Electronica 93. Genetische Kunst – Künstliches Leben/Genetic Art – Artificial Life, Wien, PVS Verleger, 1993; Karl Gerbel, Peter Weibel (a cura di), Ars Electronica ‘94. Intelligente Ambiente, Wien, PVS Verleger, voll. 1 e 2, 1994 [↩]
- Christopher G. Langton (a cura di), Artificial Life, Reading (Mass.), Addison-Wesley, 1989. In Italia cfr. Domenico Parisi, “Vita artificiale e società umane”, Sistemi Intelligenti, anno VII, n. 3, dicembre 1995. [↩]
- Domenico Parisi, “Mente come cervello”, Le Scienze, n. 431, luglio 2004. [↩]
- Un altro numero di questa rivista dedicato alla robotica è stato il n. 234, dell’ottobre 2004. [↩]
- Cfr., per esempio, Humberto Maturana, Francisco Varela, L’albero della conoscenza, Milano, Garzanti, 1992; Richard Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Milano, Mondadori, 1995; Mauro Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, Bari, Laterza, 1995; Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, Milano, Adelphi, 1996; Roberto Marchesini, Post-Human, Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, Bollati-Boringhieri, 2002. Sul “Post-Human” cfr. anche Mario Pireddu, Antonio Tursi (a cura di), post-umano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti, Milano, Guerini e Associati, 2006. [↩]
- Cfr. Gerfried Stocker, Christine Schöpf (a cura di), Memesis. The Future of Evolution, Wien-New York, Springer, 1996. [↩]
- Luis P. Villareal, “I virus sono vivi?”, Le Scienze, n. 438, febbraio 2005, p. 43. [↩]
- Citato in Michael Russell, “Agli inizi della vita”, Le Scienze, n. 454, giugno 2006, p. 93. [↩]
- Sarah Simpson, “Le più antiche tracce di vita”, Le Scienze, n. 417, maggio 2003; Michael Russell, op.cit. [↩]
- Mark A. Reed, James M. Tour, “Molecole nel computer”, Le Scienze, n. 384, agosto 2000 [↩]
- Nadrian C. Seeman, “Nanotecnologie a doppia elica”, Le Scienze, n. 431, luglio 2004. [↩]
- W. Wayt Gibbs, “Vita sintetica”, Le Scienze, n. 430, giugno 2004. Anche, a cura del Bio Fab Group, “L’ingegneria della vita”, Le Scienze, n. 456, agosto 2006; Ehud Shapiro, Yaakov Benensono, “Arriva il computer a DNA”, Le Scienze, n. 457, settembre 2006. [↩]
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