Introduzione
“Mah, io non ci capisco nulla…”, “tu cosa ci vedi?”, “a me non dice niente”, “questo lo sapevo fare anch’io!” … sono solo alcune delle frasi più ricorrenti che capita di udire ad una mostra d’arte contemporanea…”.
Iniziava così un mio articolo di qualche anno fa, scritto riguardo ad un’opera di Kandinskij e stampato su un giornale “amatoriale” che vantava una tiratura per pochi intimi.
Oggi, dovendo iniziare a parlare di arte multimediale, non so come mi è tornato in mente questo brano, probabilmente perché anche questo tipo di arte, come quella astratto-concreta, suscita nei visitatori delle mostre le più vivaci reazioni. Certo le esclamazioni che capita di sentire sono diverse, perché una delle differenze tra queste due forme d’arte è che quella tecnologica è sicuramente più accessibile e immediata nella sua comprensione.
L’interattività è la caratteristica peculiare di questo tipo di installazioni e realizzazioni ambientali che coinvolgono in prima persona il molto spesso ignaro visitatore, il quale si ritrova impegnato nel processo artistico del “fare” l’opera.
Così di solito si commenta “Davvero si può toccare?”, “Divertente!”… e poi l’interrogativo principale: “Ma che tipo di arte è questa?”
Già, dove sono finiti i quadri, le sculture? Com’è che siamo arrivati a questa nuova forma d’arte? Qual è la sua funzione?
Con questo scritto si vuole fare una riflessione su questi interrogativi, partendo proprio dall’esperienza di fruizione dell’opera multimediale. In questo modo si cercherà così di capire quali siano i nuovi meccanismi che la caratterizzano.
I – Sinestesie
Il rapporto tra l’opera d’arte e il pubblico può essere visto come un eterno tentativo di seduzione. Anche quando l’arte, nei secoli scorsi, aveva come compito principale quello di restituirci un modello della realtà, essa cercava sempre, tramite artifici tecnici, di coinvolgere lo spettatore all’interno della scena rappresentata; un personaggio dipinto che si girava improvvisamente verso di noi, oppure faceva un gesto come per invitarci a entrare nel quadro… i trucchi erano molteplici. Per non parlare poi della stessa costruzione prospettica, che organizzava anche lo spazio esterno della rappresentazione, imponendoci un preciso punto di osservazione.
Questo coinvolgimento avviene tramite la vista; contemplare un’opera d’arte scatena però emozioni che necessitano di molte più componenti, per questo si è parlato di una comunicazione di tipo sinestetico.
Le forme simboliche figurative hanno quindi sempre tenuto conto anche dello spettatore. Da quando però, ormai da più di un secolo a questa parte, la figurazione è cambiata, anche questo tipo di rapporto è cambiato.
Dando un rapido sguardo all’arte contemporanea, ci sono almeno tre modi in cui un’opera ci può stimolare a più livelli.
Può avvenire in modo concettuale, mentale, in un tipo di operazione come quella operata in primo luogo da Duchamp: oggetti tolti dal loro contesto ed esposti, senza alcun intervento da parte dell’artista, vengono investiti di un significato estetico nuovo e sorprendente, stimolante. In generale appartengono a questo gruppo tutti quei tipi di intervento artistico di ordine concettuale, più “freddi”, perché usano materiale “secondario” cioè oggetti fabbricati dall’uomo, dati come realtà in se stessa.
Un altro modo è quello di sollecitare invece una reazione di tipo sinestetico attraverso l’uso di materiali più “caldi”, naturali, pastosi. Rauschenberg ad esempio lavorava sugli oggetti con il colore o altri tipi di intervento “primario” che comunque li rendeva più “tattili”. Anche in questo caso si tratta di un coinvolgimento che avviene attraverso sensazioni provocate tramite la vista. Si arriva così al terzo modo, che è quello di coinvolgere più sensi contemporaneamente ma in modo diretto, toccando, annusando, guardando.
L’opera d’arte si è fatta interattiva, esigendo un rapporto fisico con lo spettatore, che così viene coinvolto in prima persona e non più a livello sinestetico attraverso la fruizione solo visiva di un’opera. Tralasciando di analizzare le varie implicazioni che riguardano il fatto che è lo stesso fruitore a dare un senso all’opera d’arte, che esiste ed è compiuta solo nell’interazione, vorrei tentare di analizzare ciò che questo rapporto di interazione significa per lo spettatore stesso.
II – Fredde seduzioni
L'”amatore” di oggi [] fonda il proprio rapporto
con l’opera d’arte innanzitutto su un’esperienza
di fruizione edonistica e si preoccupa solo marginalmente
del soggetto rappresentato, il quale, appunto lo interessa
solo in quanto sia per lui fonte di piacere sensuale.
Jean Seznec
L’arte multimediale è una delle espressioni artistiche che hanno caratterizzato gli ultimi anni di ricerca. Dopo un secolo in cui l’arte aveva cercato di trovare forme di espressione adatte a rappresentare il cambiamento operato dalle nuove tecnologie nella nostra società, adesso i nuovi strumenti tecnologici sono entrati direttamente a costituire l’oggetto artistico stesso. Usare tutte queste novità, materiali e non, per farne un nuovo tipo di opera d’arte, non più pittura o scultura o polimaterismo, ma arte elettronica, sistema di processi, che nel suo stesso essere materiale è tipica dei nostri tempi è stato visto forse come il miglior modo di rappresentare appieno questa nuova era.
Questa in poche parole la trasformazione avvenuta a livello formale dell’oggetto artistico: non più quadro, scultura da guardare, ma installazione ambientale tecnologica.
Questo però non è il solo modo d’impiego dei nuovi media nell’arte. C’è anche chi preferisce usarli come tecniche e forme simboliche, rimanendo così nell’ambito del “quadro”. Si tratta di una scelta artistica che il critico Gianluca Marziani ha ribattezzato come NeoPop:
Le logiche del Nuovo Quadro hanno compreso i potenziali espansivi dei mass media e non li sfidano sul loro terreno. Al contrario, ne cercano l’alterazione funzionale, il territorio autonomo in cui le esperienze mediali dell’artista si sintetizzano nelle ipotesi mature del tecnoquadro. []
Gli artisti NeoPop dialogano con le altre culture visive senza voler simulare quel che non si può essere. Vivono la coscienza della propria dimensione, afferrando l’interattività culturale per poi sublimare i percorsi nel proprio linguaggio. Anche se entrano in altri settori restano se stessi: per loro conta combinarsi restando autonomi nello specifico campo d’azione.
In questo modo si cerca quindi di salvaguardare la peculiarità del fare artistico, facendo un
“…uso “caldo” della tecnologia affinché lo si mescoli con le forme manuali della creatività.”
Si può intuire dalle sue parole quasi una certa avversione o disapprovazione per chi invece ha scelto di andare oltre il quadro, per immergersi totalmente nell’artificiale.
A mio parere, invece, sono solo due modi diversi di sfruttare le stesse risorse, due percorsi possibili che partono dagli stessi presupposti per dividersi poi in due strade opposte. La seconda scelta è infatti quella più “fredda”, ma anche quella più coinvolgente, perché la comunicazione tra opera e spettatore non avviene più, come abbiamo detto, sinesteticamente tramite la vista, ma mettendo direttamente il nostro corpo in gioco.
L’interattività, la “coevoluzione mutualista” come la chiama Tommaso Tozzi, il maggior grado possibile di interscambio tra opera d’arte e fruitore, avviene usando direttamente le nuove tecnologie. Le installazioni multimediali, al contrario dell’opera d’arte tradizionale, non sono “belle ” da vedere, (con tutte le implicazioni che comporta questo termine), non sembrano nemmeno più polisemiche, il loro valore non sta nell’oggetto ma nell’idea, la loro “bellezza” sta nella funzione e nella loro diretta fruizione.
Una scelta sicuramente meno “estetica” ma più funzionale.
Il fatto di ritrovarsi al centro del processo di costituzione dell’opera diventa per noi qualcosa estremamente irresistibile, fa leva sulla nostra volontà di protagonismo di warholiana memoria.
Per dirla con Perniola, “l’inorganico” esercita su di noi il suo “sex appeal”.
Le installazioni non devono essere considerate come l’oggetto della valutazione di un visitatore; il rapporto con quest’ultimo è completamente rovesciato rispetto alla tradizionale visita dei musei e delle gallerie. E’ l’installazione che sente il visitatore, lo accoglie, lo tasta, lo palpa, si protende verso di lui, lo fa entrare in se stessa, lo penetra, lo possiede, lo inonda. Non si va più alle mostre per vedere e godere l’arte, ma per essere veduti e goduti dall’arte.
Una delle prime occasioni in cui il pubblico di una mostra d’arte si è trovato in questa situazione è stato all’epoca degli “specchi” di Pistoletto. Improvvisamente la nostra immagine, il nostro essere lì entrava a far parte dell’opera, specchiandosi.
Questo tipo di opere soddisfa il nostro edonismo, solletica il nostro narcisismo nel renderci protagonisti, ripresi; ci compiacciono e noi ci compiaciamo di noi stessi. Ci seducono: e quale miglior campo da gioco per questo se non il letto?
III – “Telematic Dreaming”
Arslab, Torino, gennaio 1999.
In uno degli spazi della mostra, immerso in una semioscurità, campeggia un letto a due piazze. Al piano di sotto ce n’è un altro, come ci informa un operatore.
Io mi avvicino al bordo del primo letto, mentre due miei amici vanno al piano di sotto.
Inizio timidamente a toccare il letto con una mano (il pensiero dell'”aura” è ancora molto presente in me!)… il materasso è coperto con un lenzuolo bianco, un po’ stropicciato. Mi siedo, e l’immagine di me seduta sul letto appare sui due monitor posti ai suoi lati, anche al piano di sotto; una telecamera è piazzata sopra il letto e mi riprende. Quando anche i miei amici si gettano sul letto al piano di sotto, la loro immagine viene proiettata sul mio, e loro possono vedere la scena sul monitor.
Inizia così un gioco basato sulla telepresenza: io interagisco con loro, con la loro proiezione. Le nostre mani cercano di afferrarsi, in un gioco del gatto col topo. Ci cerchiamo, ma non ci troviamo. Mi sdraio, mi rigiro nel letto mentre la loro immagine mi tocca, mi si sovrappone, mi investe e mi riveste. Anche se non ci tocchiamo realmente, il mescolarsi del mio corpo con le loro proiezioni mi fa provare una strana sensazione, come se la mia pelle riuscisse ugualmente a sentirseli addosso… una sensazione tattile della loro telepresenza. Questo strano interagire si rivela anche un momento particolare di propriocezione.
Il gioco dura a lungo, le sensazioni piacevoli aumentano, faccio tutto quello che mi passa per la testa: guardo loro che si azzuffano tra di sé e mi lamento perché non mi fanno partecipare. Mi sdraio a pancia in su, braccia aperte, e guardo la telecamera sopra di me, lasciandomi narcisisticamente riprendere appieno e sbirciando lateralmente il monitor. Sentendomi improvvisamente vulnerabile, mi tiro su e vedo diverse persone a pochi metri dal letto, che mi osservano divertite. Il sogno è finito, tutto si è dissolto improvvisamente, come quando nei cartoni animati scoppia la bolla al naso. L’incantesimo si è rotto, bruscamente ritorno alla realtà, mi alzo e raggiungo i miei amici.
Ho scelto di raccontare questa esperienza di fruizione, tra le tante della mostra, perché offriva particolari spunti di riflessione.
A ben guardare, ogni installazione aveva un suo fascino particolare, sia che offrisse un tipo di interazione individuale o di gruppo. Ma Telematic dreaming era sicuramente la più ambigua, la più direttamente seducente, con questa sua scelta di tirare in ballo scopertamente le tematiche dell’erotismo, del desiderio, del gioco, del sogno.
Certamente qui il fruitore si ritrova al centro dell’attenzione, i suoi desideri sono esauditi, il suo ego soddisfatto. L’opera svela il suo senso grazie a lui, e lui si sente parte di questo tutto. Ma questo meccanismo di seduzione di cui abbiamo parlato finora, è solo ciò che c’è alla base. Perché l’interazione sia veramente completa
…deve essere di tipo mutualista, ovvero ‘deve’ produrre un beneficio per ciascuna delle parti che viene coinvolta in essa.
L’installazione trae sicuramente il suo beneficio, in quanto si realizza come opera, riesce a produrre senso, a mettere in pratica l’idea che la sottende.
Da parte del fruitore però non può bastare il solo fatto di sentirsi lusingato per essere stato scelto dall’artista a svolgere questo compito al posto suo.
Deve invece riuscire a cogliere, allo stesso tempo, quel senso che egli stesso
contribuisce a svelare, uscendo così arricchito da questa nuova esperienza.
Nell’opera di Sermon si gioca col senso del tatto, il senso più primordiale, evocato e negato allo stesso tempo da artifici tecnologici che ci offrono una presenza-assenza, ma lo fanno su di un letto, che di nuovo ci può rimandare ad istinti primordiali. Un alternarsi di vicinanza-lontananza che ci richiama alla mente quelle stesse componenti che caratterizzano l’uso dei moderni mass media, e sulle quali Telematic dreaming offre un’occasione per riflettere, mettendone direttamente in scena le contraddizioni.
IV – Conclusioni
Bisogna fare attenzione quindi a non considerare questo genere di arte solo un gioco o un’occasione di spettacolarità.
L’interattività offerta dall’arte multimediale, il coinvolgimento totale che suscita, serve appunto a farci riscoprire un tipo di conoscenza che avevamo trascurato da tempo, l’operare cognitivo che Francesco Antinucci chiama “percettivo-motorio”, definendolo come “…primario rispetto a quello simbolico-ricostruttivo”, che è invece quello a cui siamo ormai più abituati.
Per questo la comunicazione che si stabilisce nel rapporto di interazione con l’opera è più coinvolgente e immediata di quella di tipo sinestetico attraverso la sola contemplazione. L’apprendimento di tipo percettivo-motorio avviene a più livelli, non solo concettualmente, necessitando di un tipo di sensibilità globale, quella che ci è stata “narcotizzata” dagli stessi nuovi media. Questo loro uso alternativo e critico da parte degli artisti serve proprio a questo. Uso e difesa al tempo stesso.
E’ da notare che questo recupero della sensibilità primaria, di ciò che sembra la cosa più naturale, avviene nel campo del secondario, di quelli che abbiamo detto essere artefatti dell’uomo, nell’artificiale insomma. Però qui non si sta parlando di interagire con ciò che tradizionalmente è considerato naturale, il reale fenomenico. Stiamo parlando di arte, che a sua volta produce costrutti simbolici.
McLuhan stesso dice che non possiamo non prendere atto di questi nuovi media e dei loro effetti, quindi anche l’arte non può far finta che non esistano e continuare con le tecniche tradizionali. Per questo vedo il loro impiego in questo campo come un uso alternativo dei loro effetti, un “usarli contro loro stessi”,
come creare un vaccino iniettandoci il virus stesso.
Piero Gilardi, un pioniere di questo tipo di ricerca artistica, racconta:
Negli anni ’80, quando ho cominciato a interessarmi delle nuove tecnologie, sono partito dalla constatazione che intorno a noi il mondo stava radicalmente cambiando in virtù dei nuovi mezzi tecnologici, e che dunque occorreva usarli per i bisogni umani. Di qui una concezione dell’opera d’arte come qualcosa di utile…
Derrick De Kerckhove, continuando il lavoro del suo maestro, affida all’arte il compito di aiutarci a metabolizzare, se così si può dire, i cambiamenti culturali che i mass media operano a livello inconscio nelle nostre vite:
Scopo dell’arte tecnologica non è quello di diffondere la tecnologia senza anteporvi un’analisi critica, bensì quello di preparare la società all’impatto con le nuove tecnologie, facilitandone il processo di integrazione.
Ma… non staremmo parlando di arte se non ci fosse un ma.
Il vero problema è proprio questo: la spiegazione e l’occasione di creatività che intravedono questi ultimi studiosi [] risale ad una funzione molto didattica dell’arte che molto spesso esula da quella che dovrebbe essere l’attenzione alla sua natura ed alla sua episteme. Va bene il metodo, va bene la tecnica, ma nonostante la digitalità, non spetta a me dirlo, l’arte non è solo questo…
Rimane da chiedersi a questo punto, cosa si è perso e cosa si è guadagnato? Siamo davanti ad un cambiamento totale dello status di opera d’arte o tutto ciò è solo una delle tante correnti a cui continuerà ad affiancarsi l’arte “tradizionale”?
L’esperienza ci ha insegnato che, nell’era del consumismo, ogni percorso artistico segue il suo corso ascendente e discendente, per poi lasciare il passo abbastanza velocemente alle nuove proposte.
Certo , all’alba del nuovo millennio, nuove regole, nuovi meccanismi potrebbero anche sorprenderci. Personalmente, nonostante l’arte multimediale mi affascini moltissimo, mi auguro solo che accanto ad un’arte che “mi tocca”, che dialoga coi miei sensi, continui ad esistere un’arte della pura contemplazione, che parli direttamente al mio spirito.
BIBLIOGRAFIA
- AA. VV., Arslab. I labirinti del corpo in gioco, catalogo della mostra, Torino, Hopefulmonster, 1998.
- AA. VV., Labirinti del corpo-mente. Arte, semiologia e filosofia dei nuovi media, raccolta di scritti a cura di Piero Gilardi, proprietà Comitato Progetto Arslab, Torino, 1998.
- AA. VV., Segnali d’opera. Arte e digitale in Italia, XIX Premio Nazionale Arti Visive Città’ di Gallarate, 19 ottobre – 23 novembre 1997, catalogo della mostra a cura della Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate, 1997.
- Capucci, Pier Luigi (a cura di), Il corpo tecnologico. L’influenza delle tecnologie sul corpo e sulle sue facoltà, Bologna, Baskerville, 1994.
- Capucci, Pier Luigi, Realtà del virtuale. Rappresentazioni tecnologiche, comunicazione, arte, Bologna, Clueb, 1993.
- Faure, Claude – Mattei, Maria Grazia – Torriani, Franco (a cura di), Arslab. I sensi del virtuale, cat. della mostra, Milano, Fabbri Editori, 1995.
- Marziani, Gianluca, N. Q. C. Arte italiana e tecnologie: il Nuovo QuadroContemporaneo, Roma, Castelvecchi, 1998.
- McLuhan, Marshall, Understanding Media, 1964 (Trad. it. Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1990.)
- Perniola, Mario, Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi, 1994.
– Spadoni, Claudio, (a cura di), Piero Gilardi, catalogo della mostra, Ravenna, 20 giugno – 28 agosto 1999, Milano, Edizioni G. Mazzotta, 1999.
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