1.1 Ordine e disordine
Dopo il boom di diffusione dell’inizio degli anni Novanta, con l’irrompere delle masse nel cyberspazio, la rilevanza acquisita da fenomeni come quelli del file sharing, della sorveglianza elettronica e della tutela dei dati personali, hanno assunto proporzioni che non li rendono ignorabili ed hanno scatenato conflitti che coinvolgono di volta in volta imprese, governi, semplici utenti e organizzazioni per la tutela dei diritti digitali. In questo breve saggio cercherò di ripercorrere, seppur brevemente, le origini della cultura di Internet cercando nel contempo di svelare quei meccanismi che sono alla base dei conflitti odierni.
1.2 Le radici del conflitto
I punti di attrito che possiamo riconoscere fin dalle origini della “Galassia Internet” sono sostanzialmente riconducibili a due tipologie: possono essere di tipo interno ovvero derivare dallo scontro fra due componenti della cultura di Internet, oppure di tipo esterno, quando cioè un soggetto estraneo alla cultura della Rete cerca in qualche modo di esercitare il proprio potere su di essa. Vediamo alcuni esempi.
La comunità hacker si è da sempre caratterizzata come soggetto portatore di istanze controculturali e di rivendicazioni radicali, basti pensare allo slogan Information wants to be free. Già questa prima considerazione dovrebbe essere sufficiente per fondare la necessità di una visione che integri la dimensione conflittuale nell’analisi del panorama di Internet. Andando più nello specifico vediamo come gli hacker siano sempre stati al centro di una serie di conflitti di tipo interno. Questa componente culturale, o per meglio dire controculturale, matura in aperta opposizione allo stile tradizionale di sviluppo del software ed alle prime avvisaglie della chiusura del codice da parte delle imprese. A questo proposito la posizione della comunità hacker è ben riassunta da Levy.
Il simbolo dell’universo burocratico è incarnato da quell’enorme società International business machine: l’Ibm […].Se l’Ibm avesse avuto mano libera […] il mondo sarebbe diventato una macchina ad elaborazione batch, basata su quelle noiose schede perforate, e soltanto ai più privilegiati sacerdoti sarebbe stato concesso di interagire effettivamente col computer.
[Hackers, Steven Levy, 1996]
Questa affermazione è riconducibile alla forte sfiducia nell’autorità centralizzata che gli hacker hanno sempre professato (Levy, 1996 pag. 35) e che li ha portati ad opporsi in modo apertamente conflittuale a quanti promuovevano il monopolio delle risorse informative.
Dal punto di vista dei conflitti esterni possiamo considerare i casi esemplari della Cina, di Cuba (dove il regime ha addirittura proibito la libera vendita di componenti informatici [1] o dell’Iran, nazioni conducono da diverso tempo una politica di fortissime limitazioni nell’accesso alla Rete. Ma questo tipo di conflitti non avviene solo in paesi con regimi non democratici. In Italia, nella seconda metà degli anni Novanta, si sono abbattute su diversi soggetti che costituivano un punto di riferimento per la comunità Internet italiana, una serie di azioni di polizia, come la così detta “operazione crackdown”, la prima operazione anti pirateria in grande stile messa in atto dalle forze dell’ordine italiane, che nel maggio del 1994 portò ad una serie di sequestri indiscriminati di computer ed attrezzature per la connettività ed alla condanna del gestore di Peacelink, network pacifista di telematica sociale oggi ancora attivo. Ma questa è solo la prima di una serie di azioni repressive condotte dalle forze dell’ordine che hanno di volta in volta usato come motivazione lo scambio di software pirata o di materiale pedopornografico. Emerge qui una caratteristica che vale per tutto l’attuale panorama dei rapporti fra il cyberspazio e le istituzioni. L’apparato burocratico dei governi, per sua stessa natura lento e macchinoso, stenta a rimanere al passo delle tecnologie digitali di comunicazione, ma non potendo prescindere dal regolamentarle, tende ad applicare a nuovi ed inediti scenari vecchie regole rozzamente adattate.
1.3 Chi si contende il cyberspazio?
Ci chiediamo quindi, chi si contende il cyberspazio? Alla fine dell’Ottocento gli europei iniziarono la corsa alla colonizzazione dell’Africa pensando al continente come ad uno spazio selvaggio abitato da razze inferiori che non conoscevano la civiltà e non erano in grado di sfruttare a pieno le ricchezze che la natura offriva. Ora non esiste più nulla sul nostro pianeta che possa considerarsi selvaggio o inesplorato, l’uomo ha frugato in ogni angolo della Terra, la nuova frontiera è stabilita nello spazio interplanetario o, più vicino a noi, nel cyberspazio. La Rete è un mondo dove si praticano abitudini nuove e si risponde a percezioni e regole differenti, uno spazio autoregolamentato dove l’unico motore è il progresso tecnologico e la volontà degli individui, guidata da valori fondanti che L. Lessing [2] definisce come il consenso riconosciuto su basi strettamente meritocratiche (Universal Standing) e la continua condivisione di quanto realizzato secondo il principio dell’Open Source (Open Evolution). Possiamo pensare che questo mondo possa apparire ai componenti dell’ordine costituito un po’ come l’Africa appariva agli Europei della fine del XIX secolo: selvaggia, incontrollabile, incomprensibile, ma allo stesso tempo preziosa fonte di risorse. Da qui l’esigenza di riportare all’ordine, come se si trattasse di comportamenti devianti, ciò che si è costituito secondo modalità diverse ed innovative.
1.3.1 Governi
E’ questo il caso dei governi, intendendo con questo termine l’insieme delle autorità politiche istituzionalizzate che presiedono alla regolamentazione delle società. Essi sono per loro natura, quanto di più distante dalla struttura flessibile e modulare dei “network di network”. Anche quando si tratta di Stati dotati di un ordinamento democratico, utilizzano meccanismi di delega e rappresentanza che le comunità virtuali hanno rifiutato e sostituito con logiche che promuovono il decentramento e la democrazia diretta. Gli “stanchi giganti di carne ed acciaio” [3], come li definisce J. P. Barlow, sembrano non avere nessuna ragione per interagire con il cyberspazio, se non fosse che le strutture di collegamento, parte inscindibile della grande rete, risiedono in territori che sono inequivocabilmente sotto il controllo delle autorità locali o nazionali. Non solo. Ai governi ed ai loro rappresentati si rifanno i soggetti, consumatori, imprese o gruppi di pressione, che sostengono di aver subito un danno: le associazioni di genitori denunciano la presenza di contenuti pedopornografici, lesoftware house lamentano il danno economico per la circolazione di software pirata, il cittadino comune vuole essere difeso dalle truffe praticate con il commercio online. Tutti rivendicano la necessità di essere tutelati nel cyberspazio e per questi ed altri motivi i governi non possono fare a meno di considerare la Rete come uno spazio da regolamentare, da inglobare nella sfera del controllo legislativo.
1.3.2 Corporation
In generale possiamo dire con Castells (2002) che la cultura imprenditoriale ha il merito di aver visto le potenzialità del business nella tecnologia di Internet e di aver scommesso su di essa consentendone uno sviluppo altrimenti impossibile. Ciò è sicuramente vero, ma dalla seconda metà degli anni Novanta è innegabile che il panorama dell’imprenditoria in Internet sia radicalmente cambiato. Dopo l’esplosione della bolla speculativa della new economy i protagonisti dell’economia della Rete non sono più i piccoli “artigiani delle idee” che vendevano il futuro perché sicuri di poterlo costruire e modellare in prima persona. Al loro posto si sono affermati gli agglomerati imprenditoriali, le corporation dell’industria culturale in grado di riunirsi in lobby e di esercitare forti pressioni sui governi statali. Come sostiene Edgar Morin:
La stampa, la radio, la televisione, il cinema sono industrie ultra-leggere. Leggere negli strumenti di produzione, ultra leggere nella merce prodotta: la quale è contenuta sul foglio del giornale, sulla pellicola cinematografica, s’invola sulle onde e all’atto del consumo diviene impalpabile poiché il consumo è psichico. Ma questa industria ultra-leggera è organizzata sul modello dell’industria più concentrata tecnicamente ed economicamente. Nel campo privato, pochi grandi gruppi di stampa, poche grandi catene radio e televisive , poche società cinematografiche concentrano gli strumenti (rotative, studi) e dominano le comunicazioni di massa.
[L’industria culturale, E. Morin, 1963 ]
Il testo risale all’inizio degli anni Sessanta ed ovviamente non prende in considerazione Internet che era allora nulla più che un progetto sperimentale, ma il concetto di concentrazione dell’industria culturale può essere felicemente applicato anche a quelle imprese che forniscono strumenti e servizi per la connettività e a quelle che si occupano dei prodotti culturali digitali. Emblematico è il caso della fusione fra il gigante dell’intrattenimento multimediale Time Warner e il colosso della connettività America On Line (AOL). Questa enorme impresa multinazionale comprende in se non solo le attività di produzione di informazione ed intrattenimento (infotainment), ma è anche fornitrice di tutti quei servizi che consentono ad utenti privati o imprese di accedere al cyberspazio. Dal punto di vista strategico sono molti gli elementi che emergono e che sono destinati a cambiare la visione di questi business: innanzitutto andrà completamente ripensato il sistema di distribuzione. AOL con la larga banda è in grado di proporre qualsiasi prodotto di entertainmentdirettamente nelle case di sessanta milioni di abbonati semplicemente con un download. Senza contare che poiché una simile fusione sembra essere una ricetta vincente si potrebbe assistere ad una progressiva diffusione di questo modello societario: i grandi fornitori di accesso alla rete andranno a cercare partner in grado di produrre i contenuti e viceversa.
La capacità delle corporation, riunite in lobby come la Motion Picture Association o la Recording Industry Association of America, di fare pressione sui governi richiedendo ad esempio controlli più severi su quanto gli utenti scambiano nei sistemi di files sharing, è più alta nei paesi come gli Stati Uniti dove le imprese partecipano in fortemente in termini economici all’elezione dei candidati politici. Per definire la collusione fra aziende private e potere pubblico R. Deibert, professore all’Università di Toronto, propone il termine Covernement, nato dalla fusione di corporate e government, una entità vicina al Grande Fratello di Orwell ma anche al Leviatano di hobbesiana memoria.
Le corporations non si rassegnano a comprendere che con la digitalizzazione dei prodotti culturali se da un lato si ha l’azzeramento dei costi marginali di produzione [4], dall’altro sia ha una più facile trasferibilità e riproducibilità delle opere, che rende molto semplice lo scambio fra gli utenti finali. Opporsi a questo stato di cose con operazioni miopi ed al limite del terrorismo (come la pioggia di denunce che ha colpito gli utenti dei sistemi di file sharing alla fine del 2003, ad opera della RIAA e della MPAA) significa ancora opporre vecchie regole e vecchi schemi ad un panorama che è radicalmente cambiato. È questa una forma mentis molto diffusa fra i vertici dell’infotainment, i quali vedono la tecnologia come un’opportunità in sede di produzione dell’opera, ma non come uno strumento per modificare il rapporto di fruizione dell’utente con l’opera e men che meno il modello di business ad esso sottostante. Questa visione miope del ruolo e delle potenzialità della tecnologia ha portato J. Valenti, presidente della MPAA, a paragonare, in un intervista rilasciata nel gennaio del 2002 al New York Times, la guerra di Hollywood contro il peer to peer ad una “guerra contro il terrorismo” (Gulmanelli, 2003). Di fronte ad un simile quadro tornano alla mente le parole di M. Planck, padre della fisica quantistica, pronunciate in una conferenza a New York nel 1949:
un’importante innovazione scientifica raramente riesce a farsi strada vincendo gradualmente la resistenza e la diffidenza dei suoi oppositori: è molto raro che Saulo diventi Paolo. Quello che succede è che i suoi oppositori gradualmente escono di scena e che la generazione che ne prende il posto ha familiarizzato già dall’inizio con le nuove idee
[M. Planck, citato in PopWar, Gulmanelli, 2003]
Secondo questa chiave di lettura diventa comprensibile l’escalation di misure repressive messe in atto dal Covernment. Si comincia con la costruzione di una disciplina legislativa sul copyright e sulla riproducibilità dell’informazione che favorisce enormemente le grandi imprese del settore. Valga da esempio il “Mickey Mouse Act” [5] ovvero la legge statunitense che ha esteso di venti anni la durata del copyright portandolo da cinquanta a settanta anni, proprio pochi giorni prima che decadessero i diritti della Disney sul personaggio che è ormai entrato a fare parte della cultura americana. A questo si aggiungono il Digital Millennium Copyright Act americano e l’Europian Union Copyright Directive europeo, in cui fra le altre cose sono contemplati il divieto di elusione delle misure tecnologiche che limitano l’accesso e la copia di materiali coperti dal diritto d’autore, ma anche la stessa diffusione di informazioni, servizi e programmi che possano agevolare tale elusione. La versione europea del provvedimento inoltre prevede che possano essere vietate la cessione o la rivendita di opere digitali (software o e-book), anche se regolarmente acquistate su Internet il che determina una forte limitazione dell’uso legittimo (fair use) e del diritto di proprietà di una merce acquistata oltre all’impossibilità di far nascere un mercato dell’usato per queste merci.
1.3.3 L’uomo comune
Dalla fine degli anni Novanta, come abbiamo più volte ripetuto, Internet diventa un fenomeno di massa. Il livello di know-how tecnologico e la quantità risorse economiche necessarie per utilizzare la rete si abbassa notevolmente. Il web, inteso come enorme ipertesto composto da tutti i siti visitabili con un browser in grado di interpretare il codice HTML, si diffonde rapidamente e propone una veste grafica molto più accattivante e facilmente fruibile rispetto alle BBS, chat, o newsgroup basati sul solo testo. I contenuti presenti in rete non devono essere più necessariamente letti, ma possono essere guardati, con un dispendio minore di risorse intellettuali. La navigazione si fa sempre più piacevole grazie ad una cura crescente per il design dei siti (nasce un ruolo professionale specifico: il web designer), gli strumenti per la gestione della posta, delle chat e deinewsgroup diventano sempre più user friendly consentendo un approccio intuitivo basato sulla grafica. Tutto ciò contribuisce a fare di Internet un mass medium interpersonale (Rosengren, 2001).
Sostanzialmente quanto accade alla fine degli anni Novanta è l’irruzione delle masse nella Rete. Ma ciò che si vuole intendere quando si parla di “massa” non ha a che fare con le elaborazioni teoriche dei francofortesi. L’espressione non sta qui ad indicare un insieme omogeneo ed indifferenziato di soggetti, quanto piuttosto la somma di una moltitudine di individualità, che attraverso il loro comportamento possono incidere sul futuro del futuro del cyberspazio. Il protagonista non è qui uno scienziato dotato di un vasto bagaglio di conoscenze tecniche, né un hacker con tutta la sua carica ideologica, ma semplicemente un individuo fra i tanti, che usa la Rete come un nuovo e sofisticato elettrodomestico. Non ne conosce la struttura, la storia, le dinamiche, e non è nemmeno interessato a conoscerli come non è interessato ai meccanismi che gli permettono ogni giorno di telefonare o di guardare la televisione. Certo, la Rete è uno strumento nuovo, una tecnologia che ha il sapore del futuro, ma ben presto perderà anche questo fascino essendo in ogni caso alla portata di (quasi) tutti. Gli esseri umani possono passeggiare nel cyberspazio tracciando un numero infinito di rotte diverse, ciò che le caratterizza non è l’omologazione e la standardizzazione della “semicultura” descritta da Adorno bensì una diffusa frammentazione, una estrema libertà di personalizzare la propria esperienza di navigazione seguendo i più vari link ipertestuali.
A causa delle caratteristiche intrinseche del medium-Internet, ciò non poteva che portare ad una serie di cambiamenti, poiché la Rete costituisce uno spazio in divenire, è modellata dai suoi frequentatori ed i suoi tratti si modellano ogni volta che qualcuno accede ad essa. Ecco dunque che un nuovo soggetto deve essere considerato se si vuole elaborare un modello che consenta di cogliere la dimensione conflittuale del cyberspazio. Un esempio è dato dal fenomeno del file-sharing: persone comuni, prive di una particolare alfabetizzazione tecnologica o di una spinta politico ideologica, attraverso le proprie pratiche di condivisione scuotono il cyberspazio e spingono governi e corporation a muoversi per imporre regolamenti ad uno spazio che storicamente è sempre sopravvissuto senza la necessità di leggi provenienti dall’esterno.
1.3.4 Net Attivismo
Con il termine “Net Attivismo” si vuole indicare una “nebulosa” di soggetti individuali e collettivi che si muovono, dentro e fuori il cyberspazio, per la difesa di quelli che vengono chiamati i diritti digitali. Nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 si afferma che i diritti “naturali ed imprescrittibili” dell’uomo sono: la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Duecento anni dopo l’avvento delle nuove tecnologie ha portato con se una serie di nuovi diritti di cui gli individui possono e devono godere. Nella società dell’informazione e dell’intrattenimento digitale, l’accesso ai mezzi di informazione, la tutela della privacy, la libertà di espressione, la tutela dei diritti dei consumatori e la condivisione dei saperi diventano agli occhi dei net attivisti issue fondamentali per garantire che il cyberspazio non venga schiacciato dalle pressioni dei nuovi “colonialisti”.
È difficile disegnare un ritratto fedele del fenomeno del net attivismo in primo luogo per eterogeneità dei soggetti coinvolti. Un caso emblematico è quello della Electronic Frontiers Foundation che conta fra i suoi collaboratori avvocati, esperti di diritto, hacker, programmatori ed ha fra i suoi fondatori un personaggio come J. P. Barlow che fu, fra l’altro, paroliere dei Grateful Dead.
Ciò che definisce il net attivista e lo distingue dall’universo di tutti gli altri attivisti politici o culturali è la centralità rappresentata dalla Rete intesa sia come territorio di azione, sia come strumento di coordinamento e propaganda, sia come canale di comunicazione ed informazione. In altre parole il net attivista usa la Rete per occuparsi della Rete stessa e delle questioni che ruotano intorno ad essa.
Bibliografia
- Berardi F., Pignatti L., Magagnoli M., (2003), Errore di sistema. Teorie e pratiche di Adbuster, Feltrinelli, Milano.
- Carlini F. (1996), Internet, pinocchio e il gendarme, Manifestolibri, Roma.
- Castells M. (2002), Galassia Internet, Feltrinelli, Milano.
- Formenti C. (2003), Not economy. Economia digitale e paradossi della proprietà intellettuale, Etas, Milano.
- Gubitosa C. (1999), La vera storia di Internet, Apogeo, Milano.
- Gubitosa C., Peacelink, (1999), Italian crackdown: BBS amatoriali, volontari telematici, censure e sequestri nell’Italia degli anni `90, Apogeo, Milano.
- Gulmanelli S. (2003), PopWar. Il NetAttivismo contro l’Ordine Costituito, Apogeo, Milano.
- Lessing L. (2001), The future of ideas: the fate of the commons in a connected world, Random House, New York.
- Levy S. (1996), hackers gli eroi della rivoluzione informatica, Shake, Milano.
- Morin E. (1963), L’industria culturale, Il Mulino, Bologna.
- Pasquinelli M. (2002), Media Activism: strategie e pratiche della comunicazione indipendente, DeriveApprodi, Roma
- Williams S. (2003), Codice Libero (Free As In Freedom), Apogeonline.
PDF [172 KB]
Note
- http://punto-informatico.it/p.asp?i=46487 [↩]
- Professore alla Standard Law School, fondatore dello Stanford Center for Internet and Society e del progetto Creative Commons. [↩]
- J.P. Barlow “Una dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio” Davos, Svizzera 1996. Si tratta di uno scritto entrato nella storia della Rete soprattutto per la sua retorica visionaria e utopistica. È reperibile, tradotto in diverse lingue, in moltissimi siti web. Per una versione in lingua italiana si veda: http://www.olografix.org/loris/open/manifesto_it.htm.
Per la versione in lingua originale si veda: http://www.olografix.org/loris/open/manifesto.htm [↩] - Il concetto di costo marginale di produzione è riassumibile come il costo che il produttore deve sostenere per produrre una unità in più di un determinato prodotto. [↩]
- Si tratta del Sonny Bono Copyright Extension Act, firmato il 27 ottobre del 1998 dal presidente Clinton. Per la precisione ha esteso la copertura a settanta anni dopo la morte dell’autore (novantacinque nel caso di work for hire, come è il caso di Topolino). [↩]
Comments are closed