E lo chiamano Nuovo Mercato
Collocazioni furenti, crescite esponenziali, movimenti di capitale inediti: a Piazza Affari la febbre internettiana pare non fermarsi. Sarà il caso di ricorrere ad un antipiretico?
E’ stato denominato Nuovo Mercato e parrebbe, almeno in apparenza, una specie di Nasdaq all’italiana, vale a dire uno spazio dedicato esclusivamente a titoli più o meno tecnologici. Recentissimo per costituzione e ancora relativamente piccolo quanto a numero di società (40) e capitalizzazione, NM non solo ha destinato agli investitori italiani gioie (poche) e dolori (qualcuno in più), ma è stato anche protagonista a Piazza Affari di enormi movimenti di capitali e di un paio di storie davvero senza precedenti. Qualche cifra innanzitutto. Nell’anno che ci siamo lasciati alle spalle, NM ha accolto ben 34 società, perdendo complessivamente circa il 30 per cento, un dato in verità piuttosto buono se confrontato con il Nasdaq (-39 per cento), il cui netto calo ha direttamente e indirettamente condizionato l’andamento di tutti gli altri, e soprattutto con il Neuer Markt tedesco, da poco protagonista di un crollo pericoloso culminato a fine dicembre in un -8 per cento netto nel giro di un giorno.
In questo articolo e in altri due che seguiranno proveremo a dare uno sguardo critico a NM, evidenziandone alcuni punti deboli, e ci soffermeremo brevemente sui titoli che hanno fatto più discutere, tentando di comprendere il motivo per cui i mercati finanziari, e a suo modo il nostro, paiono tutti “incantati dalla rete”, per citare un noto libro di Carlo Formenti.
La prima storia degna di nota è quella di Finmatica, società bresciana di software per le banche, servizi finanziari e gestione di documenti con un fatturato di un’ottantina di miliardi. Il 24 novembre del ’99, giorno di sbarco al NM, succede qualcosa di incredibile: per la prima volta nella storia della Borsa italiana il titolo non riesce neanche a segnare il prezzo e quello virtuale risulta circa 6 volte il valore di collocamento. Il giorno dopo, Borsa Spa si vede costretta ad una procedura mai utilizzata prima: l’allargamento del margine di oscillazione al 999 per cento. Tra i 930 mila risparmiatori che hanno prenotato le azioni, ne vengono sorteggiati 7750 ai quali vengono assegnati lotti da cinque milioni l’uno. In serata, ne valgono 60 e il valore dell’azienda schizza a 3500 miliardi. Cosa importante, l’azienda non ha niente a che vedere con Internet al momento della collocazione: gli investitori sono attirati dal progetto di collocare in network i direttori degli acquisti di circa 11000 aziende. Nelle strategie della società, il business dovrebbe portare utili per il 6 per cento dei ricavi nel 2000 e passare al 15 nel 2001.
Pare ovvio chiedersi il perché di questa impennata furente. Il progetto non è di per sé eccezionale e in più l’azienda non appare affatto molto tecnologica. Le ragioni del successo sono altre. Tanto per cominciare gli investitori italiani, con un passato legato ai bot e poco avvezzi ai meccanismi della finanza, vivono la Borsa in chiave esclusivamente speculativa: capital gain anzichè redditività del titolo a medio-lungo termine. Si potrebbe obiettare il fatto che le speculazioni di questo tipo avvengono ovunque, specie negli USA. Ciò è parzialmente vero, se non fosse per il fatto che le tecnoaziende a stelle e striscie sin dall’inizio vedevano alternati investimenti del tipo “faccio i soldi in due giorni” ad altri più lungimiranti. Un ruolo fondamentale hanno poi giocato i media. Il grosso degli investimenti non passa più per i broker, un tempo unici guru del settore e perennemente attaccati a servizi finanziari tipo Bloomberg e simili: oggi l’investitore italiano si fida dei quotidiani, anche quelli non specializzati, al massimo dà un’occhiata a CNN Financial News. E non appena vede qualcosa che abbia anche lontanamente a che fare con Internet, acquista a piene mani. Quale migliore società su cui scommettere se non Finmatica, strombazzata dai quotidiani nostrani come se rappresentasse la maggiore società del decennio? Paolo Panerai, uno che di certi argomenti se ne intende, ha azzeccato in pieno il problema asserendo che “chi compra titoli Internet in realtà, nella stragrande maggioranza dei casi, investe in attività alle quali si affiancano solo marginalmente strategie e tecnologie legate alla rete” (MF, 27 novembre ’99).
E poi, ovviamente, anche le aziende hanno avuto la loro parte. Ecco cosa dice Pierluigi Crudele, presidente di Finmatica, a Repubblica qualche giorno dopo l’uragano: “(…) Il prezzo di collocamento l’ho scelto io, i collocatori suggerivano un prezzo più alto. Io ho detto no.” (26 novembre, intervista a Eugenio Occorsio) Bella forza: un prezzo di collocamento fissato a vanvera fa in modo che l’altissima domanda (quasi sempre ampiamente prevista) faccia innalzare in modo del tutto anomalo il valore dei titoli, facendo venire fuori dal nulla una quantità di denaro micidiale. In questo modo si favoriscono soprattutto quella ristretta cerchia di amici, parenti e squali in generale che acquistano al prezzo di collocamento. Quello che può accadere è che nei giorni immediatamente successivi il titolo crolli improvvisamente per un assestamento, mandando in malora gli ignari, oppure che il valore rimanga altissimo fino a che non vengono pubblicati i resoconti trimestrali e lì, se le cose vanno male, scatta il panico: il titolo va in picchiata, a netto discapito tanto dei dipendenti dell’azienda quanto di coloro i quali hanno cacciato i quattrini. In soldoni, il ruolo dell’advisor va rivisto con attenzione e massima deve essere la severità con cui vengono selezionate le società da quotarsi. Il rischio di tirare dentro delle mele marce appare ancora elevatissimo, e questo potrebbe causare ulteriori situazioni di instabilità del mercato nonché vere e proprie catastrofi per gli investitori meno scafati.
Allo scopo di mantenere una forbice accettabile fra valore effettivo dell’azienda e relative possibilità d’espansione nella fase successiva al collocamento, arriva dagli USA il GARP (growth at reasonable price), vale a dire la stima a prezzi ragionevoli del valore del capitale dei titoli di compagnie con future prospettive di crescita. Leggiamo alcune righe da un illuminante editoriale pubblicato sul Foglio dell’11 ottobre scorso, “La vita difficile dell’high tech europeo”: “Prima o poi anche da noi si comprenderà che vi è un certo contrasto fra la previsione di aumento del parco clienti, quella del volume del fatturato e quella dei profitti: anche perchè l’acquisizione di nuova clientela si accompagna a riduzioni dei prezzi e dunque si collega alla diminuizione nei margini di profitto (…)”. La notevole concorrenza fra le nuove iniziative dell’economia elettronica, assieme magari a congiunture internazionali sfavorevoli e ad una minore velocità dell’espansione di innovazioni commerciali nel nostro Paese e nel resto d’Europa in generale si rivelano insidie pesanti per queste aziende, le quali devono ancora darsi dimensioni adeguate per l’equilibrio fra costi di struttura e ricavi. Metodi come questi possono essere efficaci per prevenire crack o effetti domino simili a quelli visti in questi mesi su varie piazze del mondo.
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