Il 29 gennaio scorso a New York si è spento Nam June Paik. Nato nel 1932, Paik è uno di quegli artisti che possono essere considerati l’emblema di un’epoca: quella dello sviluppo della televisione di massa, del video, della diffusione dell’elettronica, delle telecomunicazioni analogiche. Coreano di nascita, la sua famiglia si trasferisce in Giappone a causa della Guerra di Corea, e Paik si laurea all’Università di Tokyo in Storia dell’Arte e della Musica con una tesi su Arnold Schönberg. Fin dall’inizio della sua attività di artista – dal rapporto con Karlheinz Stockhausen, nella seconda metà degli anni ’50, e poi con John Cage e il movimento Fluxus, dalla fine degli anni ’50 ai primi anni ’60 – Paik ha cercato di interpretare elementi espressivi diversi ma onnipresenti nell’esperienza quotidiana e nella comunicazione mediata: l’immagine e il suono.

Nam June
Soprattutto Paik ha mostrato agli artisti che i ‘nuovi media’, che allora erano la televisione, i sistemi elettronici analogici, il video, e i mass media, il cui ruolo sociale e politico si stava facendo rilevante nella cultura di massa, potevano essere alleati degli artisti, che gli artisti non dovevano snobbarli o rifiutarli, temerli o percepirli con rivalità ma che potevano servirsene, in maniera creativa e critica. Nel 1965 egli affermava che se la televisione aveva costituito un’aggressione alla vita delle persone ora era finalmente possibile ‘rispondere’, producendo e diffondendo da sé i propri contenuti, la propria visione del mondo, la propria creatività, diventando attori mediali del quotidiano. Così il suo primo video, realizzato con una delle prime videocamere portatili lungo il tragitto tra il negozio in cui l’aveva acquistata e un caffè del Greenwich Village, viene presentato come videoarte.

Nam June Paik con Charlotte Moorman e TV Bra, scultura vivente, 1969
Con Paik l’arte si estende agli strumenti della televisione, del video, rafforza la sua presenza – inaugurata dalla Pop Art e oggi abituale grazie a strumenti come Internet – nell’ambito delle comunicazioni di massa. E va a compimento quel declino della presenza della materia nell’opera d’arte, inaugurato dalla fotografia, che qualche anno più tardi, nel 1973, sarà celebrato dalla critica d’arte Lucy Lippard nel suo celebre The Dematerialization of the Art Object. Per capire la portata del cambiamento, che non riguardò solo la produzione dell’opera d’arte, la sua estetica e la sua esibizione ma anche il suo mercato, il collezionismo, il suo unicum, basta leggere l’impasse della critica d’arte coeva nel cercare di inquadrare i lavori di Paik, e più in generale le opere di ‘videoarte’.

Tv Garden, videoinstallazione con piante vive e monitor, 1974
A oltre quarant’anni dai primi esiti la ‘videoarte’ (con le sue numerose declinazioni: videoscultura, videoinstallazione, videoambiente, television art…) è abbondantemente presente nelle manifestazioni artistiche contemporanee. E’ una forma d’arte accettata e consueta che vede stuoli di giovani che vi si dedicano. Nel 1965 Paik era convinto che gli schermi avrebbero sostituito le tele e che l’elettronica possedesse in se stessa un potere creativo da attivare e aggiungere all’intelligenza dello spettatore. Nel 1974 dichiarò che il video avrebbe consentito di creare ‘High Art’, cioè programmi per un sistema ‘minimediale’ con un pubblico circoscritto, anche se poi nel 1984 realizzò Good Morning Mr. Orwell, un programma televisivo trasmesso dal Centre Pompidou la prima notte di quell’anno in Francia, Germania e Stati Uniti che fu seguito da milioni di telespettatori. Anche se non tutto ciò che aveva previsto si è avverato, Paik resterà per sempre dovunque un dispositivo elettronico sarà utilizzato per fare arte e riflettere sull’arte.
[Immagini tratte dal sito ufficiale dell’artista / Images from the artist’s official website]
Website: http://www.paikstudios.com/
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