Dialogo tra Pier Luigi Capucci e Vincenzo Guarnieri
Vincenzo Guarnieri (VG)
L’evento “Folle di Scienza” che si è tenuto a Strambino dal 20 al 22 ottobre 2017 ha visto la partecipazione di 50 divulgatori della scienza da tutta Italia. Persone con competenze e professionalità diverse (giornalisti, ideatori di mostre e laboratori, youtubers, ricercatori, ecc.) hanno potuto conoscersi e confrontarsi. Le lezioni hanno lasciato ampio spazio ai workshop in cui si è discusso di come “raccontare” efficacemente la scienza.
Il mondo della ricerca artistica può fornire ulteriori stimoli per alimentare tale discussione? In che modo l’arte può interagire con la comunicazione della scienza?

Il flyer dell’incontro “Folle di Scienza”
Pier Luigi Capucci (PLC)
Le scoperte scientifiche, ma anche il continuo lavoro quotidiano dello scienziato, devono essere comunicati al di fuori della ristretta cerchia di addetti ai lavori. Le narrazioni della scienza integrano le conoscenze sociali, aiutano a comprendere le direzioni della ricerca, rendono consapevoli di ciò che è possibile, approfondiscono le visioni del mondo o ne creano di nuove, contribuiscono a definire la realtà e i suoi limiti, aiutano a guardare al futuro. La condivisione delle informazioni ha generato una grande crescita e accelerazione della dimensione culturale nelle società umane, dall’acquisizione della capacità simbolica fino a Internet, che dimostra la straordinaria propensione e abilità umana alla condivisione del sapere. La scienza stessa e le sue narrazioni mostrano che la dimensione culturale umana sta diventando troppo invadente, indicando dei limiti, delle alternative, delle soluzioni.
Dal canto suo l’arte può estendere e arricchire la comunicazione della scienza in vari modi. Può coinvolgere dei pubblici che altrimenti, per varie ragioni, volontariamente o meno, resterebbero esclusi. Può generare sensibilità nei confronti dell’impatto culturale di quelle narrazioni. Può mostrare nella scienza la qualità poetica di visioni del mondo che presentano delle affinità con le proprie. Oggi è difficile riuscire a comprendere e descrivere la complessità del mondo senza attivare atteggiamenti e approcci artistici. Anche per la sua dimensione sincretica, l’arte è una sorta di filosofia della contemporaneità, una risorsa determinante per capire il presente e guardare al futuro. Arte e scienza integrano le conoscenze e costituiscono il carattere di una società. L’arte possiede, inoltre, una vocazione critica fondamentale che si traduce in una preziosa indipendenza: secondo McLuhan, teorico dei media e della comunicazione, l’artista è “l’uomo della consapevolezza integrale”.
VG
Vocazione critica e consapevolezza (delle potenzialità e dei limiti della scienza e delle sue narrazioni) sono aspetti molto cari anche a chi appartiene al mondo della comunicazione della scienza. Come hai sottolineato, la condivisione della conoscenza è stata alla base dell’evoluzione culturale di Homo sapiens (aspetto che gli ha permesso, come sostengono diversi ricercatori, di non fare la stessa fine di Homo neanderthalensis) e oggi più che mai, dal momento che la scienza e la tecnologia diventano strumenti sempre più potenti (nel bene e nel male) nelle mani dell’uomo, è fondamentale promuovere una condivisione efficace della conoscenza scientifica. Nel nostro ambito si parla di “cittadinanza scientifica”. Tra fake news e polarizzazione estrema delle posizioni nei dibattiti, i comunicatori si trovano a svolgere un compito sempre più delicato. E spesso non sono nemmeno riconosciuti come veri e propri professionisti.
Da questa prospettiva e da quello che dici, appare evidente che l’artista sembra avere qualcosa in comune con chi fa comunicazione della scienza. Entrambi contribuiscono a creare le narrazioni della scienza e lo fanno (o dovrebbero farlo) attraverso una visione critica. E, paradossalmente, entrambi possono essere ingenuamente reclutati dal mondo scientifico per produrre “belle illustrazioni” o “vetrine” della scienza.
Poi c’è l’aspetto della complessità. Nel dibattito avvenuto a Strambino è emersa con forza l’esigenza di non far passare un’idea di scienza “assoluta” e priva di incertezze. Raccontare la scienza significa soprattutto raccontare la complessità. Ed è forse su questo aspetto che gli artisti e i divulgatori scientifici (e gli scienziati stessi) possono lavorare insieme. Esistono delle situazioni curiose in cui gli artisti sono chiamati a interagire con la scienza. In alcuni casi si tratta di laboratori artistici che usano strumenti scientifici (come il Genspace o il Nature and Technology Lab di New York), in altri di laboratori artistici allestiti in centri di ricerca scientifica (come il laboratorio degli artisti australiani di SymbioticA), in altri ancora di veri e propri laboratori scientifici (come il CERN di Ginevra).
Tra le esperienze di questo tipo ne esiste una che trovi particolarmente significativa per far comprendere come l’arte sia in grado di descrivere e comunicare la complessità?

Guy Ben-Ary, CellF, 2015. Performance ad Ars Electronica 2017
PLC
Ritengo CellF (si pronuncia “self”), dell’australiano Guy Ben-Ary, tra le esperienze recenti più interessanti, un progetto collaborativo che ha coinvolto scienziati, ingegneri, artisti e musicisti che può essere considerato come il primo sintetizzatore neurale. Uno strumento autonomo, costituito da una rete di neuroni in una capsula di Petri, che controlla in tempo reale un apparato di sintetizzatori modulari analogici costruiti ad hoc e interagisce con musicisti umani suonando insieme a loro. La rete neurale è stata creata da una biopsia della pelle dell’artista, le cui cellule sono state coltivate e, mediante la tecnologia iPSC (Induced Pluripotent Stem Cell), sono state trasformate in cellule staminali pluripotenti. Queste sono poi state fatte evolvere in cellule staminali neurali per creare una rete di neuroni costituita da circa 100 mila unità. È un numero molto inferiore ai 100 miliardi di neuroni del cervello umano, interconnessi da trilioni di sinapsi, ma la rete di CellF produce comunque un’enorme massa di dati, risponde agli stimoli esterni e mostra proprietà plastiche. I suoni prodotti dai musicisti stimolano questo “cervello esterno” dell’artista che risponde controllando i sintetizzatori analogici e creando musica live. In CellF il musicista e lo strumento musicale diventano un’unica entità, una sorta di musicista cibernetico. Chi è l’autore della musica? CellF problematizza le biotecnologie inserendole in un contesto artistico, produce una riflessione radicale sulla natura degli strumenti musicali e su come la musica può essere prodotta. Ma agisce anche da vettore per il pensiero: qual è il potenziale delle opere d’arte che utilizzano tecnologie biologiche e robotiche riguardo alla percezione della comprensione della vita, della materialità e dei confini del corpo umano?
Alla fine di Settembre 2015 ero a Perth, alla University of Western Australia, partecipavo alla conferenza NeoLife, curata proprio da SymbioticA, quando CellF è stato mostrato per la prima volta, e Guy Ben-Ary mi ha chiesto se volevo presentarlo pubblicamente all’inaugurazione della mostra. Purtroppo non è stato possibile perché sono dovuto ripartire subito per presiedere, come first opponent, due giorni dopo, una commissione di dottorato alla University of Technology a Trondheim. E mi è dispiaciuto molto.

Guy Ben-Ary, CellF, 2015. Particolare
VG
Devi esserti perso un’esperienza molto particolare. Un concerto in cui dei musicisti suonano con i neuroni che vivono in una capsula Petri fa senz’altro riflettere. Certo, i concetti scientifici coinvolti in un’opera del genere non sono tra i più banali e sarebbe interessante che fossero messi alla portata del pubblico.
PLC
La scienza è una narrazione in mezzo a molte altre, spesso più accattivanti, che deve a sua volta essere narrata. È una narrazione con regole particolari, soggetta a forme di validazione che altre narrazioni non hanno, possiede un’autorevolezza. Altre narrazioni si pongono invece in maniera sincretica, producono visioni, puntano a discutere idee e modi di pensare. Trovo molto stimolante che la ricerca scientifica e quella artistica riescano a collaborare producendo stupore e idee in entrambi i versanti.
Il problema è che non è facile produrre una buona comunicazione sulle ricerche della scienza contemporanea. Sia per la complessità degli argomenti sia per le prospettive di cui la comunicazione, come condivisione, non può non tenere conto (etica, economia, industria, politica…): si pensi, per restare nell’attualità, all’ingegneria genetica e alla clonazione. Poi, chi sono i destinatari? Altri scienziati? Il grande pubblico? I lettori di giornali o riviste? Il mondo della formazione e della scuola? Altri giornalisti? La politica? A ogni categoria serve una comunicazione adatta.
VG
È vero, ogni categoria di pubblico ha bisogno di una comunicazione su misura. Si tratta di un tema molto sentito nel nostro ambito. Fino a poco tempo fa, il pubblico era considerato una massa omogenea di ignoranti, sulla base di un modello di comunicazione (il cosiddetto deficit model) che si è dimostrato inappropriato. La comunicazione della scienza è più efficace quando si concepisce l’eterogeneità e il ruolo attivo del pubblico. Si è passati (o si dovrebbe passare) da una comunicazione unidirezionale a un vero e proprio coinvolgimento. A questo proposito, credo che l’arte possa di nuovo fornire spunti e idee ai comunicatori. Mi riferisco in particolar modo a quella forma d’arte contemporanea, definita arte relazionale, in cui gli spettatori non sono spettatori e basta, ma sono parte integrante e fondamentale dell’opera stessa. Forse non è tanto il caso di CellF in cui, se non sbaglio, il pubblico prende parte alla performance musicale senza modificare il processo creativo. Penso piuttosto al lavoro di artisti come Eduardo Kac e ad alcune sue opere di arte transgenica, come Genesis, in cui il pubblico presente in mostra (o da casa attraverso Internet) contribuisce a produrre delle modificazioni nel genoma dei batteri al centro dell’installazione.
Forse il mondo dell’arte si interroga da più tempo sulle dinamiche di interazione con il pubblico o, meglio, con i pubblici. Ci sono degli studi o delle considerazioni in tale ambito che ritieni utile condividere?

Eduardo Kac, Genesis, 1998-99
PLC
Più che “relazionale” preferisco usare il termine “interattiva”, che forse è meno evocativo ma dice qualcosa di più. Tanti anni fa ho scritto un libro su questo argomento, ripubblicato nel 2015. In un’opera d’arte interattiva il fruitore può morfostrutturalmente modificare il costrutto artistico, cosa che è impossibile, vietata e/o punita nell’arte tradizionale per ragioni economiche e culturali. Una volta conclusa, l’opera d’arte tradizionale è data una volta per sempre, è indipendente dal contesto fisico in cui si trova – è un “tutto in sé”, basta a se stessa – pronta ad attraversare i decenni e magari anche i secoli restando immutata e immutabile, senza che su di essa si depositino la polvere e i segni del tempo. Un esempio di questa utopica inderivabilità è il restauro delle opere antiche, che spesso solleva delle polemiche, come nel caso del Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina, nonostante gli interventi estremamente sofisticati a cui sono sottoposte per restituirne il volto originario. Sono i colori originali? È lecito togliere o lasciare le aggiunte pittoriche successive o i restauri precedenti? Vanno evidenziati i pentimenti? L’opera d’arte tradizionale deve essere integralmente preservata nella sua unicità di monumento – questo è in fondo il suo senso – che sfida il tempo.
Nell’opera d’arte interattiva, invece, cambiano le figure canoniche dell’arte: l’opera, l’artista, il fruitore… L’opera esiste in quanto può essere morfostrutturalmente modificata. L’interazione la cambia e le conferisce lo statuto artistico: dunque l’opera si fa processo, tende all’evento, è aperta, è “contestuale”, cioè dipende dal fruitore e dall’ambiente in cui è collocata. E siccome fruitore e ambiente sono variabili, l’esito dell’interazione non può mai essere completamente predetto. Dunque, i luoghi deputati più adatti all’esistenza delle opere d’arte interattiva non sono i musei e le gallerie, nei quali lo spazio fisico tra opera e fruitore non deve né può essere messo in discussione e oltrepassato, bensì quelli in cui la probabilità di interazione è massima: i luoghi pubblici, gli spazi del sociale. L’interattività inoltre abbassa la soglia d’ingresso nell’opera: a differenza dell’opera d’arte tradizionale, che richiede delle competenze culturali per essere fruita (si pensi ad esempio all’arte astratta), nell’arte interattiva il fruitore ha comunque sempre la possibilità di “entrare” nell’opera, semplicemente interagendovi col corpo. Ci sono infatti due livelli: uno basico, l’interazione fisica, che coinvolge il corpo e la dimensione ludica e non richiede competenze culturali, e l’altro, comune anche alle forme artistiche tradizionali, culturalmente più esigente legato ai significati.
A propria volta l’artista diviene un attivatore di processi, stabilisce delle condizioni di partenza, deve cercare di immaginare il comportamento dell’opera+fruitore+ambiente ma non può predire l’esito dell’interazione. Il fruitore, da osservatore come nell’arte tradizionale diviene collaboratore, a volte persino coautore dell’opera: il suo intervento conferisce valore artistico al costrutto, senza di esso l’opera non esisterebbe.
Come correttamente osservi, CellF di Guy Ben-Ary non è un’opera interattiva, o, meglio, è interattiva solo nei confronti dei musicisti umani, a cui risponde generando suoni, ma non del pubblico. Invece Genesis, di Eduardo Kac, è interattiva in senso più generale, perché consente sia al pubblico in locale che in remoto di intervenire sul genoma dei batteri, e dunque di destrutturare quel versetto del Libro della Genesi che pone l’uomo in cima alla piramide del vivente.
Non so quanto la dimensione dell’arte interattiva possa essere utile alla comunicazione scientifica, che non può godere della stessa libertà di modifica. Tuttavia, l’arte può rendere la comunicazione scientifica più accattivante, interessante, comprensibile, divertente, come molti musei scientifici mostrano.
La comunicazione della scienza spesso viene intesa, praticata e veicolata su media e supporti tradizionali, come libri, riviste, video, che non sono interattivi. In questi casi il fruitore, anche se rientra nel target a cui ci si rivolge, resta un lettore, un osservatore che certamente seleziona dei contenuti in base alle sue competenze e preferenze e ne scarta o rifiuta altri, ma non è un partecipante. Probabilmente sarebbe più interessante produrre questa comunicazione in contesti e con supporti, media e piattaforme che consentano biunivocità, orientati al dialogo: per esempio, in forma mediata, basati su Web, programmi software, ricostruzioni, videogame, eBook, exhibit. Oppure, in forma diretta, basati su eventi pubblici, workshop, lezioni, conferenze. Forse il problema reale sta nel fatto che molta della comunicazione della scienza viene intesa, praticata e veicolata in maniera tradizionale.

Eduardo Kac, Genesis, 1998-99
VG
Forse un altro problema è che nei media, tradizionali o “interattivi” che siano, la comunicazione della scienza non trova in genere un grande spazio. Inoltre, i media sempre più spesso non hanno confini così ben definiti e i prodotti di comunicazione possono essere ibridi, come un libro divulgativo tradizionale che esce in libreria associato a un videogame o una app. D’altra parte anche il comunicatore è spesso un ibrido, in tutti i sensi, non solo per quanto riguarda il suo percorso formativo (alcuni sono stati ricercatori, altri lo sono ancora, altri ancora provengono da una formazione umanistica, ecc.), ma anche per quanto riguarda i media impiegati (un giornalista può curare una mostra, un ideatore di laboratori didattici può girare anche video, ecc.). In ogni caso, puntare a un approccio che non vede il pubblico come target passivo ma come partecipante attivo, come suggerisci, è una delle sfide più intriganti.
PLC
Considerare il pubblico in maniera attiva è stata una sfida per chiunque abbia cercato di fare informazione, in tutta la storia dei media, perché la comunicazione interattiva è più potente e convincente di quella non interattiva – ed è ancora più efficace se è in forma diretta. È la ragione per cui media come i giornali, la TV e la radio, che non sono interattivi, cercano di surrogare l’interattività mediante le lettere al direttore, il telefono in trasmissione, i format in cui il pubblico deve votare, perché danno l’impressione del dialogo. Ed è anche la ragione per cui esistono prodotti ibridi, che mettono insieme media più o meno interattivi, cartacei, Web, DVD, eBook, app. Considerare il pubblico in maniera attiva rimane una sfida intrigante, come dici tu, tutta da affrontare perché siamo solo all’inizio dell’era dei media digitali, con l’enorme varietà, plasticità e possibilità dei loro “linguaggi”.
Tuttavia, va detto che il vecchio testo tradizionale non interattivo, se autorevole, magari in forma multimediale, non è affatto destinato a scomparire. Non sempre il dialogo funziona, è adatto o necessario: può anche abbassare il livello del discorso, come spesso avviene nei commenti inviati sui social e sui blog. Oppure si può semplicemente non avere voglia di discutere, di interagire o di farsi coinvolgere investendo tempo negli argomenti di un pubblico “mordi e fuggi”. Con Noema fin dall’inizio abbiamo scelto di eliminare i commenti agli articoli, ma questo non significa che non siamo disponibili: semplicemente ti leggi il testo e se vuoi entrare in contatto con l’autore o con la redazione li cerchi e li contatti. Naturalmente devi essere interessante perché qualcuno investa del tempo per contattarti e discutere, ma così si seleziona anche il target. Poi credo nell’interdisciplinarietà, o transdisciplinarietà per citare Piaget, cioè che sia fondamentale utilizzare un “linguaggio plurale” per affrontare gli argomenti da più punti di vista e su più livelli. La specializzazione esclusiva non funziona, per questo, per tornare al tuo discorso, possono essere interessanti figure di giornalisti che provengono da – e si occupano di – campi diversi.
VG
Il magazine Leonardo è uno dei principali punti di riferimento a livello mondiale sull’interazione tra arte e scienza. Lo scorso anno è stato celebrato il cinquantenario della sua fondazione e per questa ricorrenza Noema ha realizzato l’evento art*science che si è tenuto ai primi di luglio a Bologna. Avete in previsione eventi del genere anche quest’anno? E, in caso affermativo, suggeriresti a un comunicatore della scienza di venire a curiosare?
PLC
Lo scorso anno Noema, insieme all’associazione culturale La Comunicazione diffusa, ha organizzato a Bologna art*science, evento focalizzato oltre che sul cinquantenario di Leonardo su un tema fondamentale per il nostro Paese: la relazione tra il nuovo e la storia, tra l’innovazione e l’eredità culturale. Sono intervenuti oltre trenta relatori tra studiosi, ricercatori e istituzioni, compreso il direttore di Leonardo. Sono disponibili gli atti per chi fosse interessato. In questo periodo stiamo preparando l’edizione 2018, il cui tema sarà “Art & Climate Change”, che riteniamo molto stimolante per la sua attualità (sociale, politica, economica, geografica…), per la sua dimensione insieme globale e locale, e per l’impegno che l’arte sta dedicando a questo argomento in campo internazionale. Nell’edizione dello scorso anno ho cercato di coinvolgere anche giornalisti scientifici e scienziati che avevano iniziato un bel gruppo di discussione per “ricostruire il ponte tra scienze, arti, filosofie”. Nel progetto iniziale di art*science avevo previsto una mezza giornata di interventi su questo tema e mi pare che ci fosse molto entusiasmo, poi purtroppo non se ne è fatto nulla. Dunque è certamente valido l’invito “a curiosare” rivolto ai comunicatori della scienza. Ma mi piacerebbe anche molto che quest’anno si potesse finalmente organizzare un momento di incontro, di discussione, cercando di realizzare qualcosa di comune.
Comments are closed