Italiano [English below]
Le biotecnologie sono quei tradizionali processi naturali che abbiamo appreso dai nostri predecessori, come l’impiego di batteri lattici, di lieviti e di processi fermentativi. Esse sono ampiamente utilizzate nel settore industriale per produrre beni e servizi. Solitamente si parla di “biotecnologie di processo”, come la lievitazione, la fermentazione, l’estrazione di metalli con batteri, la biocatalizzazione, la biodesulfurazione e la biofitrazione.
Tra gli esempi di biotecnologie mutuate dal passato, possiamo ricordare come nel 500 a. C. i cinesi usassero la muffa della soia come antibiotico nella cura delle malattie della pelle [1]; la formazione di alcol dalla fermentazione dei mosti venne studiata approfonditamente nel corso del XVI secolo da parte del chimico Angelo Sala, considerato in seguito il fondatore della chimica degli zuccheri; la lievitazione, anch’essa utilizzata ampiamente da tutti i popoli antichi, venne studiata scientificamente per la prima volta da Louis Pasteur nel 1857.
Naturalmente, le biotecnologie moderne si avvalgono altresì delle scoperte dell’ingegneria genetica, tanto che l’ibridazione e la formazione di organismi geneticamente modificati sono considerate tecniche biotecnologiche a tutti gli effetti.
Le tecniche di biogenetica riguardano infatti quelle pratiche di commistione di materiali organici ed inorganici grazie a processi e conoscenze del tutto nuove, principalmente frutto degli studi di ingegneria genetica e di biologia molecolare.
Tra i compiti principali della biogenetica abbiamo la codificazione e la sequenziazione del DNA e di altre parti biologiche come le proteine, gli enzimi, gli aminoacidi e i peptidi, la coltura di cellule e tessuti in laboratorio, la fusione cellulare, l’ibridazione e la manipolazione embrionale.
A seconda del tipo di studio che si effettua, si può distinguere la biogenetica in tante altre discipline ancora più specifiche, come ad esempio la genomica, la farmacogenetica, la glyco-engineering, la proteomica.
L’ingegneria genetica si occupa in particolare dello studio del patrimonio genetico degli organismi viventi ed il trasferimento di geni da una specie a un’altra, che avviene grazie ad una parte di struttura in comune del DNA, la doppia elica composta da zuccheri e fosfato, che permette la commistione.
Ogni gene possiede alcune caratteristiche specifiche che vengono studiate per modificare soltanto una parte del DNA originario dell’organismo vivente, affinchè ne vengano modificate l’aspetto esteriore o le capacità produttive. Questo si rivela particolarmente importante nel campo della medicina, campo in cui i nuovi farmaci sono molto diversi rispetto a quelli del passato per via della velocità di individuazione di alcune molecole efficaci per svariate cure, spesso meno invasive per l’organismo umano: l’insulina, comune a molti mammiferi, è stata inizialmente estratta dal pancreas bovino e suino, e successivamente ricreata in laboratorio con la clonazione del gene dell’insulina umana.
L’ingegneria genetica sta avendo un impatto in moltissimi settori scientifici, come anche nel campo dell’ambiente: ad esempio, l’azione di alcuni geni che consentono l’eliminazione e la biodegradazione di rifiuti chimici tossici si stanno rivelando un settore di grande interesse per gli scienziati. Poiché alcune scoperte ed alcuni esperimenti riguardano settori molto delicati della vita umana e animale e poiché è sempre più difficile una distinzione netta tra mondo biologico e mondo artificiale, è stato necessario creare una regolamentazione legale del settore, frutto di ampia disquisizione anche su alcuni problemi etici correlati: questo campo di studio viene definito bioetica.
L’ordinamento giuridico internazionale, per contemperare le esigenze di salvaguardia dell’uomo e dell’ambiente con le esigenze industriali, ha predisposto in particolare l’utilizzo dei brevetti, strumento ampiamente impiegato nel campo della biogenetica [2].

Immagine al microscopio elettronico a scansione di E.coli, il primo batterio modificato tramite tecniche di ingegneria genetica (tratto da http://en.wikipedia.org/wiki/Image:EscherichiaColi_NIAID)
I primi brevetti relativi ad OGM sono stati concessi negli Stati Uniti sin dagli anni Settanta.
Fino al 1970, il sistema brevettuale escludeva in generale la brevettabilità delle scoperte, riservandola esclusivamente alle invenzioni; in particolare, nel campo del vivente, la legge consentiva la brevettabilità per invenzioni microbiologiche, ma non per quelle macrobiologiche. Successivamente, al fine di favorire gli interessi economici ed industriali, via via tali distinzioni sono andate affievolendosi, tanto che, negli anni Settanta, negli Stati Uniti venne consentito il deposito di brevetti relativi ad organismi viventi o a loro parti e ad alcuni processi biologici in qualità di “invenzioni” (anche se in realtà si trattava di semplici scoperte). Fu così possibile, oltreoceano, brevettare alcune varietà di piante, semi e tessuti di piante geneticamente modificati e tipi di manipolazioni genetiche effettuate sugli animali.
Dal 1980, negli Stati Uniti sono stati concessi anche alcuni brevetti su microrganismi geneticamente modificati.
In prima battuta, la legislazione europea e quella internazionale si sono mosse in modo più cauto: la Convenzione europea sui brevetti del 1973 [3] vietava inizialmente la brevettabilità della materia vivente [4], precludendo la creazione di embrioni umani in vitro per scopi di ricerca, la clonazione umana, lo scambio di geni tra uomini e animali [5]. La normativa europea consentiva invece la produzione di animali transgenici per la sperimentazione nelle cure di certe malattie e l’utilizzo di materiale genetico a fini farmacologici.
Successivamente, anche la comunità internazionale ha però manifestato una certa apertura in tema di OGM: nel 1994, l’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO) ha stabilito che le invenzioni (in qualsiasi campo tecnologico) devono essere brevettate, comprese quelle riguardanti gli esseri viventi (in particolare quelle relative ai microrganismi e procedimenti microbiologici che abbiano subito un’artificiosa mutazione del patrimonio genetico) [6].
Nel 1998, l’Europa ha recepito il dettato internazionale con la Dir. n. 98/44/CE, consentendo ai Paesi membri di tutelare le proprie invenzioni biotecnologiche tramite la normativa nazionale.
L’Italia ha poi recepito il dettato europeo (con un ritardo di circa sei anni) con il d. lgs. 10 gennaio 2006, n. 3, convertito nella L. 22.02.2006, n. 78. Trattasi di una normativa speciale e a se stante, che rientra nell’ambito del diritto industriale [7], nel cui codice (d. lgs. 2005 n. 30), sono stati inseriti gli artt. 81 bis e seguenti. Senza entrare nello specifico della normativa, va ricordato che tali invenzioni devono sempre possedere i requisiti di novità e originalità e devono, soprattutto, essere suscettibili di applicazione industriale.
Non sono brevettabili quindi il corpo umano dal suo concepimento, le manipolazioni e le modificazioni del DNA umano, i procedimenti di clonazione umana, gli esperimenti che comportano inutili sofferenze per uomini e animali e le invenzioni il cui sfruttamento commerciale sia contrario alla dignità umana, all’ordine pubblico e al buon costume. Inoltre, è vietato tutto ciò che compromette la tutela della salute e della vita delle persone e degli animali, la preservazione della biodiversità e dell’ambiente in generale. Sono poi vietati anche i procedimenti di screening genetico finalizzati alla discriminazione eugenetica (art. 81 quinquies).
Nel campo delle varietà vegetali, si distingue fra varietà OGM e semplici varietà vegetali nuove: queste ultime vengono scoperte, oppure si ottengono attraverso la selezione e l’incrocio naturale (breeding) fra piante diverse e sono protette giuridicamente da una disciplina a parte, denominata “diritto del costitutore”, inserita nel codice italiano della proprietà industriale alla sezione VIII del capo II, artt. 100-116. Le nuove varietà vegetali devono possedere le caratteristiche tipiche di ogni brevetto (novità e nessun utilizzo commerciale precedente), oltre al fatto che dev’essere distinguibile da ogni altra varietà vegetale conosciuta e al fatto di poter essere riprodotta in esemplari identici (carattere dell’uniformità). L’art. 101 stabilisce che, in presenza di tutte queste caratteristiche, il diritto di privativa spetta alla persona che ha creato o che ha scoperto e messo a punto la varietà, al suo datore di lavoro, oppure ai loro aventi causa. Tale diritto dura solitamente vent’anni dalla data di concessione del brevetto e ricomprende altresì il cd. diritto morale e il diritto esclusivo di produzione e riproduzione, di commercializzazione, di esportazione, di importazione, di detenzione, di raccolta. Tale privativa si estende alle varietà vegetali derivate dal prodotto brevettato. Sono esclusi gli atti compiuti a fini privati per scopi non commerciali o sperimentali.
Per gli OGM, il discorso cambia. A livello internazionale, si fa in primo luogo riferimento alla Convenzione per la diversità biologica del 1992 ed al Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza entrato in vigore nel 2003 (ratificato dall’Italia con L. 15 gennaio 2004, n. 27).
Nel 2018, è entrato in vigore anche il Protocollo addizionale di Nagoya/Kuala Lumpur relativamente alle responsabilità per danni derivanti da OGM (ratificato dall’Italia con L. 16 gennaio 2019, n. 7). Tale normativa tende a garantire un alto livello di protezione nell’impiego degli OGM, in particolare esigendo il rispetto del principio di precauzione, che impone un’attenta valutazione dei rischi nell’utilizzo degli OGM. Tale principio impone altresì la sospensione di un trattamento o la diffusione di un prodotto se sussistono dubbi sulla sua eventuale pericolosità.
L’Unione europea si è occupata della materia con le Dir. 219 e 220, che risalgono agli anni Novanta e che classificano gli OGM innocui per l’ambiente. Dette direttive indicano peraltro i sistemi di calcolo preventivo sui rischi del loro impiego.
In materia agroalimentare, è stato emanato il Regolam. 258/97/CE sui novel food e il Regolam. n. 1139/98/CE in materia di etichettatura in presenza di OGM.
Attualmente, l’intero settore è stato riformato con la Dir. n. 2001/18/CE che sancisce regole più severe nell’uso di OGM, specialmente in relazione all’impatto ambientale, e descrive la procedura per il rilascio dell’autorizzazione per l’immissione sul mercato a livello nazionale. Con il Regolam. 1829/2003/CE (ora contenuto nella Dir. n. 2018/350/CE), la valutazione dei rischi relativi rimane in capo all’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare).
I Regolam. n. 1829/2003/CE e n. 1830/2003/CE disciplinano poi l’impiego degli OGM negli alimenti e nei mangimi animali e il sistema di tracciabilità degli OGM e dei loro derivati.
La Dir. n. 2015/412/UE limita o vieta la possibilità per gli Stati membri di coltivare alcuni organismi geneticamente modificati sul proprio territorio [8].

La struttura chimica del DNA. Fonte: Madprime, https://it.wikipedia.org/wiki/Genetica
Nonostante la formulazione di una cospicua normativa sul tema, restano aperte alcune considerazioni etiche molto importanti: in primis, sebbene esista la procedura di valutazione di impatto sull’ambiente, è anche vero che è impossibile valutare a priori quale sarà l’impatto effettivo nel lungo termine su nuovi microrganismi, piante transgeniche e genomi modificati, sulla catena alimentare futura e sull’intero ecosistema; in secundis, i brevetti appartengono solitamente soltanto a grosse realtà industriali e farmaceutiche. Sono state poi costituite grandi banche di semi in cui è conservato l’intero patrimonio vegetale conosciuto: questo tipo di realtà tende sostanzialmente a convogliare la conoscenza scientifica e la proprietà su alcune parti della natura in alcuni centri economici con vocazione monopolistica, distruggendo così via via la libertà di impresa degli agricoltori ed il rispetto di altre piccole comunità indigene legate al proprio territorio, presenti specialmente nei Paesi meno sviluppati.
Tutto questo pare inibire a lungo termine uno sviluppo sostenibile reale. Sembrerebbe poi che la sostituzione di coltivazioni naturali e locali con coltivazioni transgeniche possa minacciare la biodiversità e mettere in pericolo la sicurezza alimentare, così come lo sfruttamento economico degli animali transgenici.
Si tratta di questioni etiche che, a causa delle pressioni economiche di grandi multinazionali, passano continuamente in secondo piano e perdono sempre più di importanza e di valore.
Proprio per quanto riguarda le piccole realtà indigene, si apre un ambito di ricerca vastissimo nella cultura globale contemporanea, che riguarda i possibili rischi della cosiddetta biopirateria.
Presso l’ONU, si discute sin dagli anni Ottanta dei diritti fondamentali delle culture indigene e, sebbene l’ente abbia rinunciato a darne una definizione univoca, queste si possono intendere come comunità preistoriche ancora presenti su un determinato territorio, nonostante i tentativi di conquista da parte di altri popoli; queste hanno conservato lingua, valori etici, tradizioni sociali, economiche e religiose distinte rispetto allo Stato nel quale sono insediate [9].
Ciò che a noi interessa in questa sede, riguarda in particolare lo sfruttamento incontrollato del loro patrimonio culturale e naturale, specialmente in relazione alle loro conoscenze e pratiche mediche ed ai metodi di produzione e coltivazione. Tali comunità posseggono conoscenze ancora sconosciute alla scienza medica e farmacologica occidentale per ciò che concerne il trattamento delle loro risorse locali, in particolar modo in riferimento alle varietà biologiche animali e florvivaistiche presenti sui loro territori.
E, nonostante il dettato della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni del 2007 [10], l’interscambio commerciale di erbe medicinali locali non favorisce lo status dei popoli indigeni, ma anzi i loro standard di vita peggiorano per via dell’appropriazione incontrollata da parte di società straniere che si ingeriscono sempre più profondamente nell’organizzazione economica locale.
A dispetto del dettato del combinato degli artt. 26 e 28 della Dichiarazione ONU del 2007 già citata [11], è ovvio che una delle caratteristiche fondamentali per la concessione di un brevetto (quella relativa allo sfruttamento industriale) cozza totalmente con la natura propria della tipicità dell’organizzazione economica di tutte le culture indigene. Peraltro, sino ad ora non si conosce un solo caso in cui le società private che si sono appropriate illecitamente di mezzi e risorse naturali abbiano concesso risarcimenti pecuniari adeguati ai popoli indigeni di riferimento.
I diritti di proprietà intellettuale creano, com’è ovvio, situazioni perverse, incoraggiando le attività pregiudizievoli compiute dalle industrie e provocando una serie di squilibri sociali e ambientali di cui ancora non si conosce la portata a lungo termine (ma che si può intuire).
Negli ultimi anni, svariati enti internazionali (WTO, WIPO, UNCTAD, OMPI e la Conferenza sulla biodiversità, dalla quale è scaturita l’omonima Convenzione CBD) si sono occupati della proprietà intellettuale dei popoli indigeni.
Da tempo l’OMPI (Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale) si adopera per proteggere il sapere tradizionale delle comunità indigene con l’ausilio di un nuovo strumento giuridico, il Comitato intergovernativo della proprietà intellettuale relativa alle risorse genetiche, ai saperi tradizionali e al folklore (IGC): il compito di questo comitato è quello di divulgare le notizie sulle risorse genetiche e sul sapere tradizionale nelle domande di brevetto. L’obiettivo dell’IGC è quello di sviluppare strumenti legali a tutela delle espressioni tradizionali dei popoli indigeni, ma sinora non è stato raggiunto alcun risultato pratico.
Inoltre, dal 2015, l’Istituto federale svizzero della proprietà intellettuale (IPI) si occupa di fornire un supporto finanziario alle comunità indigene e di fortificarne la posizione contro le grandi realtà delle multinazionali a livello giurisdizionale: tutto questo è però ovviamente finalizzato a portare questa guerra sul piano delle battaglie legali in tribunale, terreno sul quale le industrie farmaceutiche non possono far altro che stravincere. Servono sicuramente strumenti comunicativi molto diversi da quelli approntati sinora.
Note
1) Tamburello M., Villone G., “Vincenzo Tiberio: la prima antibiotico-terapia sperimentale in vivo”, in Medicina nei secoli, Arte e Scienza, 29/2, pp. 533-552, 2017. [back]
2) Cfr. Boccia F., Le agrobiotecnologie nel sistema italiano: normativa, sperimentazioni e posizioni a confronto, Napoli, 2004; Tallacchini M., Terragni F., Le biotecnologie. Aspetti etici, sociali e ambientali, Milano, 2004; Bertacchi S., Geneticamente modificati. Viaggio nel mondo delle biotecnologie, Milano, 2017. [back]
3) Ora sostituita dalla Convenzione sul brevetto europeo del 2007. [back]
4) Giannini S., “La brevettabilità del vivente”, in Diritto & Diritti (www.diritto.it), 2001. [back]
5) Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 1046 del 24.09.1986. [back]
6) Convenzionalmente, il settore delle biotecnologie si distingue in biotecnologie rosse (settore farmacologico), verdi (settore agroalimentare), bianche (settore industriale) blu (settore marino e acquatico). [back]
7) A differenza che nei paesi di common law (per i quali qualsiasi creazione intellettuale rientra nella cd. intellectual property), in Italia il diritto industriale include soltanto la materia dei marchi, dei brevetti e delle biotecnologie, mentre per le creazioni intellettuali artistiche si fa riferimento alla legge speciale sul diritto d’autore. [back]
8) Saija R., “Gli Organismi Geneticamente Modificati nel diritto dell’Unione Europea: il ruolo del principio di precauzione e il controverso rapporto tra Autorità e Libertà”, in Revista electronica de direito, 2, 2017, pp. 1-32. [back]
9) Per un approfondimento: Di Biase A., Comunicazioni e Studi dell’Istituto di diritto internazionale dell’Università di Milano, vol. XXIII, Milano, 2007. [back]
10) In particolare, il punto 1 dell’art. 31 dell’Allegato cita: “I popoli indigeni hanno diritto a mantenere, controllare, proteggere e sviluppare il proprio patrimonio culturale, il loro sapere tradizionale e le loro espressioni culturali tradizionali, così come le manifestazioni delle loro scienze, tecnologie e culture, ivi comprese le risorse umane e genetiche, i semi, le medicine, le conoscenze delle proprietà della flora e della fauna, le tradizioni orali, le letterature, i disegni e i modelli, gli sport e i giochi tradizionali e le arti visive e dello spettacolo. Hanno anche diritto a mantenere, controllare, proteggere e sviluppare la loro proprietà intellettuale su tale patrimonio culturale, sul sapere tradizionale e sulle espressioni culturali tradizionali.” [back]
11) Articolo 26: “1. I popoli indigeni hanno diritto alle terre, territori e risorse che tradizionalmente possedevano o occupavano oppure hanno altrimenti utilizzato o acquisito.
2. I popoli indigeni hanno diritto alla proprietà, uso, sviluppo e controllo delle terre, dei territori e delle risorse che possiedono per motivi di proprietà tradizionale oppure di altre forme tradizionali di occupazione o uso, come anche di quelli che hanno altrimenti acquisito.” Articolo 28: 1. “I popoli indigeni hanno diritto alla restituzione o, quando questa non sia più possibile, ad un equo risarcimento per le terre, i territori e le risorse che tradizionalmente possedevano, oppure in altra forma occupavano o utilizzavano e che sono stati confiscati, presi, occupati, utilizzati oppure danneggiati senza il loro libero, previo e informato consenso. 2. A meno che non vi sia un diverso accordo stipulato liberamente con i popoli in questione, il risarcimento sarà costituito da terre, territori e risorse di pari qualità, estensione e regime giuridico oppure da un indennizzo pecuniario o da altro tipo di risarcimento adeguato.” [back]
English
Biotechnology is the traditional natural processes that we learned from our predecessors, such as the use of lactic acid bacteria, yeasts and fermentation processes. They are widely used in industry to produce goods and services. They are usually referred to as ‘process biotechnologies’, such as leavening, fermentation, metal extraction with bacteria, biocatalysis, biodesulphurisation and biofitration.
Examples of biotechnology borrowed from the past include how, in 500 BC, the Chinese used soybean mould as an antibiotic to treat skin diseases [1]; the formation of alcohol from the fermentation of musts was studied in depth during the 16th century by the chemist Angelo Sala, later considered the founder of sugar chemistry; leavening, also widely used by all ancient peoples, was first scientifically studied by Louis Pasteur in 1857.
Of course, modern biotechnology also makes use of the discoveries of genetic engineering, so that hybridisation and the formation of genetically modified organisms are effectively considered biotechnological techniques.
In fact, biogenetic techniques involve the practice of mixing organic and inorganic materials using completely new processes and knowledge, which are mainly the result of studies in genetic engineering and molecular biology.
The main tasks of biogenetics include the coding and sequencing of DNA and other biological parts such as proteins, enzymes, amino acids and peptides, cell and tissue culture in the laboratory, cell fusion, hybridisation and embryo manipulation.
Depending on the type of study carried out, biogenetics can be distinguished in many other specific disciplines, such as genomics, pharmacogenetics, glyco-engineering and proteomics.
Genetic engineering deals in particular with the study of the genetic make-up of living organisms and the transfer of genes from one species to another, which takes place thanks to a part of the common structure of DNA, the double helix composed of sugars and phosphate, which allows admixture.
Each gene has certain specific characteristics that are designed to modify only part of the original DNA of the living organism, so that its appearance or productive capacity is changed. This is particularly important in the field of medicine, where new drugs are very different from those of the past because of the speed at which certain molecules can heal many deseases, often less invasive for the human body: insulin, common to many mammals, was first extracted from the pancreas of cattle and pigs, and then recreated in the laboratory by cloning the human insulin gene.
Genetic engineering is having an impact in many scientific fields, as well as in the field of the environment: for example, the action of certain genes enabling the elimination and biodegradation of toxic chemical waste is proving to be an area of great interest to scientists. Since some discoveries and experiments concern very delicate areas of human and animal life, and since it is increasingly difficult to make a clear distinction between the biological and artificial worlds, it has been necessary to create a legal regulation of the sector, which is also the result of extensive discussion of certain related ethical problems: this field of study is known as bioethics.
In order to reconcile the need to protect man and the environment with industrial requirements, the international legal system has made provision for the use of patents, a tool widely used in the field of biogenetics [2].

Scanning electron microscope image of E. coli, the first genetically engineered bacterium (source: http://en.wikipedia.org/wiki/Image:EscherichiaColi_NIAID)
The first patents on GMOs were granted in the United States as early as the 1970s.
Until 1970, the patent system generally excluded the patentability of discoveries, reserving it exclusively for inventions; in particular, in the field of living organisms, the law allowed patentability for microbiological inventions, but not for macrobiological ones. Subsequently, in order to promote economic and industrial interests, these distinctions gradually weakened, so much so that, in the 1970s, in the United States, patents on living organisms or parts thereof and on certain biological processes were allowed to be filed as ‘inventions’ (although in reality they were merely discoveries). This made it possible to patent certain plant varieties, genetically modified seeds and plant tissue, and types of genetic manipulation in animals. Since 1980, some patents on genetically modified microorganisms have also been granted in the US.
The European Patent Convention of 1973 [3] initially prohibited the patenting of living matter [4], precluding the creation of human embryos in vitro for research purposes, human cloning, and gene exchange between humans and animals [5]. On the other hand, European legislation allowed the production of transgenic animals for experiments in the treatment of certain diseases and the use of genetic material for pharmacological purposes.
In 1994, the World Trade Organisation (WTO) ruled that inventions (in any field of technology) must be patented, including inventions relating to living beings (in particular those relating to microorganisms and microbiological processes that have undergone an artificial mutation of the genetic make-up) [6].
In 1998, Europe transposed the international provisions with Directive 98/44/EC, allowing member countries to protect their biotechnological inventions through national legislation.
Italy then implemented the European directive (with a delay of about six years) with legislative decree no. 3 of 10 January 2006, converted into law no. 78 of 22 February 2006. This is a special and separate regulation, which falls within the scope of industrial law [7] (Legislative Decree no. 30 of 2005) in which Articles 81 bis et seq. were inserted. Without going into the specifics of the legislation, it must be remembered that such inventions must always meet the requirements of novelty and originality and must, above all, be susceptible of industrial application.
Therefore, the human body from conception onwards, the manipulation and modification of human DNA, human cloning processes, experiments involving unnecessary suffering for humans and animals and inventions whose commercial exploitation is contrary to human dignity, public order and morality cannot be patented. Furthermore, anything that endangers the protection of the health and life of humans and animals and the preservation of biodiversity is prohibited. Genetic screening procedures aimed at eugenic discrimination are also prohibited (Article 81d).
In the field of plant varieties, a distinction is made between GMO varieties and simple new plant varieties: the latter are discovered, or are obtained through natural selection and crossing (breeding) between different plants and are legally protected by a separate discipline, called “breeder’s right”, included in the Italian code of industrial property in section VIII of chapter II, articles 100-116. The new plant variety must possess the typical characteristics of each patent (novelty and no previous commercial use), in addition to the fact that it must be distinguishable from any other known plant variety and the fact that it can be reproduced in identical specimens (character of uniformity).
Art. 101 states that, if all these characteristics are present, the right to the plant variety belongs to the person who created or discovered and developed the variety, his employer, or their assignees. This right usually lasts twenty years from the date the patent is granted and also includes the so-called moral right and the exclusive right of production and reproduction, marketing, export, import, possession and collection. This right extends to plant varieties derived from the patented product. Acts carried out for private purposes for non-commercial or experimental purposes are excluded.
The situation is different for GMOs. At the international level, the primary reference is the 1992 Convention on Biological Diversity and the Cartagena Protocol on Biosafety which entered into force in 2003 (ratified by Italy with Law No. 27 of 15 January 2004).
In 2018, the Nagoya/Kuala Lumpur Additional Protocol on Liability for Damage Resulting from GMOs also entered into force (ratified by Italy with L. 16 January 2019, no. 7). This legislation tends to ensure a high level of protection in the use of GMOs, in particular by requiring compliance with the precautionary principle, which asks for a careful assessment of risks in the use of GMOs. This principle also prescribes the suspension of a treatment or the release of a product if there are doubts about its possible danger.
The European Union dealt with this issue in Directives 219 and 220, which date back to the 1990s and classify the harmless GMOs. These directives also set out systems for calculating the risks of their use in advance.
In the agri-food field, we can see Reg. 258/97/EC on novel foods and Reg. 1139/98/EC on labelling in the presence of GMOs.
So far, the entire sector has been reformed with Directive 2001/18/EC, which expresses stricter rules on the use of GMOs, especially in relation to environmental impact, and describes the procedure for granting authorisation for placing on the market at the national level. With Reg. 1829/2003/EC (now contained in Directive 2018/350/EC), the EFSA (European Food Safety Authority) remains in charge of the relevant risk assessment.
Reg. 1829/2003/EC and 1830/2003/EC then regulate the use of GMOs in food and animal feed and the traceability system for GMOs and their derivatives.
Directive 2015/412/EU restricts or prohibits the possibility for Member States to cultivate certain genetically modified organisms on their territory [8].

The molecular structure of DNA. Source: Madprime, https://en.wikipedia.org/wiki/Genetics
Firstly, although the environmental impact assessment procedure exists, it is also true that it is impossible to assess a priori what the actual long-term impact of new microorganisms, transgenic plants and modified genomes will be on the future food chain and on the entire ecosystem; secondly, patents usually belong only to large industrial and pharmaceutical companies. Large seed banks have also been set up, in which the entire known plant heritage is preserved: this type of reality tends essentially to channel scientific knowledge and ownership of certain parts of nature into a few economic centres with a monopolistic vocation, thus gradually destroying farmers’ freedom of enterprise and respect for other small indigenous communities linked to their territory, especially in less developed countries.
All this seems to inhibit real sustainable development in the long term. It would also seem that the replacement of natural and local crops with transgenic crops could threaten biodiversity and endanger food security, as well as the economic exploitation of transgenic animals.
These are ethical issues which, due to the economic pressures of large multinationals, are constantly being pushed into the background and are increasingly losing their importance and value.
Precisely with regard to small indigenous realities, a vast field of research is opening up in contemporary global culture, concerning the possible risks of so-called biopiracy.
At the UN, the fundamental rights of indigenous cultures have been discussed since the 1980s, and although the organisation has refrained from giving an unambiguous definition, these can be understood as prehistoric communities still present on a given territory, despite attempts at conquest by other peoples; they have preserved language, ethical values, and social, economic and religious traditions distinct from the State in which they are established [9].
These communities have retained a language, ethical values, social, economic and religious traditions that are distinct from the state in which they are settled.
What is interesting to us is the uncontrolled exploitation of their cultural and natural heritage, especially in relation to their medical knowledge and practices and methods of production and cultivation. These communities possess knowledge as yet unknown to Western medical and pharmacological science regarding the treatment of their local resources, particularly with regard to the biological animal and plant varieties present on their territories.
And in spite of the provisions of the 2007 UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples [10], the commercial exchange of local medicinal herbs does not enhance the status of indigenous peoples, but rather their standard of living is worsening due to uncontrolled appropriation by foreign companies that are increasingly interfering in the local economic organisation.
In spite of the provisions of Articles 26 and 28 of the 2007 UN Declaration [11], it is obvious that one of the fundamental characteristics for the granting of a patent (the one related to the industrial exploitation) is totally at odds with the nature of the typicality of the economic organisation of all indigenous cultures. Moreover, there has not been a single case to date in which private companies that have illegally appropriated natural resources and assets have granted adequate compensation to the indigenous peoples concerned.
Intellectual property rights obviously create perverse situations, encouraging damaging activities by industries and causing a series of social and environmental imbalances, the long-term extent of which is not yet known (but can be guessed).
In recent years, several international bodies (WTO, WIPO, UNCTAD, WIPO and the Conference on Biological Diversity, which led to the CBD Convention) have addressed the intellectual property of indigenous peoples.
WIPO (World Intellectual Property Organisation) has long been working to protect the traditional knowledge of indigenous communities with the help of a new legal instrument, the Intergovernmental Committee on Intellectual Property Relating to Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore (IGC): the task of this committee is to disclose information about genetic resources and traditional knowledge in patent applications. The aim of the IGC is to develop legal instruments to protect the traditional expressions of indigenous peoples, but so far no practical results have been achieved.
In addition, since 2015, the Swiss Federal Institute of Intellectual Property (IPI) has been providing financial support to indigenous communities and strengthening their position against large multinational corporations at the jurisdictional level: all of this, however, is obviously aimed at bringing this war to the level of legal battles in the courts, a terrain on which the pharmaceutical industries can do nothing but win. We certainly need very different communication tools from those used so far.
Footnotes
1) Tamburello M., Villone G., “Vincenzo Tiberio: la prima antibiotico-terapia sperimentale in vivo”, in Medicina nei secoli, Arte e Scienza, 29/2, pp. 533-552, 2017. [back]
2) See Boccia F., Le agrobiotecnologie nel sistema italiano: normativa, sperimentazioni e posizioni a confronto, Napoli, 2004; Tallacchini M., Terragni F., Le biotecnologie. Aspetti etici, sociali e ambientali, Milano, 2004; Bertacchi S., Geneticamente modificati. Viaggio nel mondo delle biotecnologie, Milano, 2017. [back]
3) Now replaced by the 2007 European Patent Convention. [back]
4) Giannini S., “La brevettabilità del vivente”, in Diritto & Diritti (www.diritto.it), 2001. [back]
5) Council of Europe Recommendation No. 1046 of 24.09.1986. [back]
6) Conventionally, the biotechnology sector is divided into red biotechnology (pharmacological sector), green biotechnology (agri-food sector), white biotechnology (industrial sector) and blue biotechnology (marine and aquatic sector). [back]
7) Unlike in common law countries (where any intellectual creation is covered by intellectual property), in Italy industrial law only covers trademarks, patents and biotechnology, while intellectual artistic creations are covered by the special law on copyright. [back]
8) Saija R., “Gli Organismi Geneticamente Modificati nel diritto dell’Unione Europea: il ruolo del principio di precauzione e il controverso rapporto tra Autorità e Libertà”, in Revista electronica de direito, 2, 2017, pp. 1-32. [back]
9) See Di Biase A., Comunicazioni e Studi dell’Istituto di diritto internazionale dell’Università di Milano, vol. XXIII, Milano, 2007. [back]
10) In particular, Article 31(1) of the Schedule states: “Indigenous peoples have the right to maintain, control, protect and develop their cultural heritage, traditional knowledge and traditional cultural expressions, as well as the manifestations of their sciences, technologies and cultures, including human and genetic resources, seeds, medicines, knowledge of the properties of flora and fauna, oral traditions, literatures, designs and models, traditional sports and games and the visual and performing arts. They also have the right to maintain, control, protect and develop their intellectual property over such cultural heritage, traditional knowledge and traditional cultural expressions.” [back]]
11) Article 26: “1. Indigenous peoples have the right to the lands, territories and resources which they have traditionally owned or occupied or otherwise used or acquired.
2. Indigenous peoples have the right to the ownership, use, development and control of lands, territories and resources which they possess by reason of traditional ownership or other traditional forms of occupation or use, as well as those which they have otherwise acquired.” Article 28: 1. “1. Indigenous peoples have the right to restitution or, when restitution is no longer possible, to fair compensation for lands, territories and resources which they have traditionally owned or otherwise occupied or used and which have been confiscated, taken, occupied, used or damaged without their free, prior and informed consent. 2. Unless otherwise freely agreed upon with the peoples concerned, compensation shall be in the form of lands, territories and resources of equal quality, extent and legal status or of monetary or other appropriate compensation.” [back]
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