Ci lasciamo contagiare dall’ottimismo consumistico di Urs Lüth (suo lo slogan del titolo) e diciamo che è bella, molto bella la 49a Biennale d’Arte di Venezia, allegramente invasa dalle tartarughe del Cracking Art Group. Non una esposizione proiettata al futuro certo, ma una miscela di passato e presente in cui non mancano anche installazioni tecnologiche interattive, come Nuvola di Studio Azzurro, che ripropone la piuma come interfaccia per il pubblico creando, com’è loro stile, quella sensazione di leggerezza ed evanescenza quasi magica che contrasta con l’hardware che la realizza. Il Dream screen prime time di Maaria Wirkkala invece proietta la nostra immagine ripresa da una microcamera su un blocco scuro di pietra grezza squadrata appeso alla parete, ma siccome lo spettatore può vedere solo la sua immagine di spalle, ecco allora che tutti si voltano, spalle allo schermo volto alla microcamera e si fanno fotografare dall’amico di turno con la loro immagine riprodotta alle spalle; un vero successo da prime time questa specie di video dell’età della pietra.
Leggermente inquietante invece l’opera Reset di Granular Synthesis, un ambiente buio che mette fuori uso ogni riferimento percettivo, disturbato anche da un particolare effetto sonoro che si accompagna a due grandi proiezioni quadrate monocrome, sulle pareti a destra e sinistra dell’entrata. Il nostro apparato sensoriale viene letteralmente ‘resettato’, un po’ come succedeva anche nell’opera Camera di rianimazione di Luca Gemma, vista a Bologna; a guidarci in questo nuovo spazio esistenziale è solo la relazione tra buio e suono e la percezione del nostro corpo in stato di massima allerta, attraversato dalla fisicità delle vibrazioni delle onde sonore.
Moltissime sono le videoproiezioni, specialmente all’Arsenale, ma quello che balza agli occhi tra i vari padiglioni dei Giardini di Castello sono le ambientazioni nel vero senso della parola, come la Totenhaus di Gregor Schneider, riproduzioni reali di ambienti familiari , luoghi della memoria, dei ricordi a volte anche inquietanti, ma che creano senso di appartenenza, condivisione, identità. Esemplare in questo caso è il padiglione yugoslavo dove troviamo una delle tante House, quella di Milita Pavi_evi_, che apre ai nostri occhi i suoi cassetti pieni di oggetti del passato come aprisse i cassetti del suo stesso essere, e le Windows di Oleg Kulik, finestre fotografiche di paesaggi con animali in cui si intravedono i riflessi delle persone che come fossero insieme a noi al di qua della finestra, guardano questi paesaggi sui quali si riflette anche la nostra immagine entrandone a far parte.
La sensazione dopo tanto tempo è quella di non sentire più l’arte così lontana, enigmatica, difficile da comprendere, ma quella di trovarsi di fronte a un’arte che ci rende partecipi, non solo con una interattività sinestetica effettiva, non solo quindi lasciandosi attraversare e toccare (i molteplici divieti lo testimoniano), ma sviluppando empatia.
In questa Platea dell’Umanità ci rispecchiamo e ci sentiamo a casa.
La Biennale di Venezia. 49a Esposizione Internazionale d’Arte – Giardini di Castello, Arsenale.
10 giugno – 4 novembre 2001
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